La contaminazione delle matrici ambientali e il conseguente passaggio dei contaminanti da una matrice all’altra fino al “ritorno” all’uomo per diverse vie (alimenti, aria, acqua, polveri…) rappresenta la principale evidente zavorra dell’antropocene o meglio del capitalocene. Una criticità che accompagna la crisi climatica ed è causa immediata del peggioramento delle condizioni di vita individuali e collettive. La generazione attuale e prossima si trovano non solo a dover “frenare” la progressiva estrazione e trasformazione di materiali dal pianeta per fini in gran parte diversi da quelli dei bisogni fondamentali della specie umana, ma anche fare i conti con l’eredità di un’epoca, il “boom economico” occidentale, che non si è curata di considerare il futuro come una condizione da mantenere, essendo l’obiettivo unico la successiva “trimestrale di cassa”.
Questo approccio ha causato contaminazione immediata nei cicli di produzione, consumo e smaltimento rifiuti come il deposito tramite il rilascio, volontario o involontario, di sostanze pericolose nel suolo, nel sottosuolo e nelle falde idriche: abbiamo messo la polvere sotto il tappeto e ora il tappeto la restituisce.
Nel 1986 si stimava la presenza in Italia di 4.575 aree contaminate considerando però tali solo quelle corrispondenti a discariche (abusive o comunque realizzate prima di norme che ne definissero le caratteristiche costruttive e le tutele ambientale), un dato che può essere confrontato, per lo stesso periodo, con i 30.000 siti USA (discariche e industrie).
Il primo provvedimento italiano, in recepimento di direttive europee, che si è fatto carico del tema è stato il decreto legislativo 22/1997 (decreto “Ronchi”): oltre alla revisione della normativa sui rifiuti sono state introdotte specifiche previsioni sulle aree contaminate prevedendo piani regionali di bonifica.
Per la individuazione di tali aree e le modalità di intervento è stato approvato prima il DM 471/1999 (il primo che ha stabilito delle “soglie di contaminazione” del suolo e delle acque sotterranee in relazione alla destinazione d’uso dell’area) poi modificato dentro il testo unico ambientale vigente (Dlgs 152/2006).
Le procedure di intervento sono complesse e comprendono la caratterizzazione (analisi del sito), la proposta progettuale di bonifica o messa in sicurezza comprensiva della valutazione di rischio e del “modello concettuale” ovvero la individuazione degli obiettivi rispetto al dato di partenza, approvazione del progetto, sua realizzazione, monitoraggio dei risultati e certificazione di avvenuta bonifica. In tutti questi passaggi, spesso “concordati” tra enti pubblici e responsabili dell’inquinamento o con chi intende riutilizzare le aree, qualche volta si perde non solo tempo ma anche la pienezza del risanamento.
Attualmente la distribuzione, in termini di riconoscimento e di “importanza” dei siti contaminati è così distribuita : 42 Siti di Interesse Nazionale (sin) di maggiore complessità e di competenza del Ministero dell’Ambiente, 18 Siti di Interesse Regionale (sin “derubricati”) cui vanno aggiunti quelli individuati dai singoli piani regionali (34.478 complessivamente) quelli di interesse provinciale e/o comunale (di relativa limitata dimensione), alla fine arrivano siti individuati da specifiche norme (come nel caso del decreto sulla “terra dei fuochi” interessante vaste aree della Campania) e in fondo i “siti da inquinamento diffuso” (non imputabili a una singola fonte ma interessanti vaste aree come il caso di gran parte delle falde sotterranee della zona nord al confine con Milano) e i siti “orfani” ovvero quelli ove non è stato possibile individuare un responsabile certo dell’inquinamento e recentemente oggetto di specifici (parziali) finanziamenti con il pnrr.
Tornando ai sin si rileva che nonostante la loro definizione (tipologia di contaminanti, fonti, perimetrazioni) risalgano quasi tutti intorno ai primi anni 2000, non si vede ancora il superamento delle criticità che rappresentano come degli effetti sulla salute di chi vive nelle vicinanze.
Lo studio sentieri che monitora i dati epidemiologici delle popolazioni interessate ha confermato anche nella ultima edizione il permanere di evidenti effetti, in patologie e mortalità, dovuti ai sin. Il sesto rapporto (2022) conferma che nel periodo 2013-2017 sono stimati 8.342 decessi in eccesso (rispetto a zone non sin ) pari al 2 %, tali eccessi sono costanti nel tempo, anzi in incremento rispetto al periodo 1995-2002. Questa situazione non è purtroppo sorprendente visto che (dati del Ministero dell’Ambiente, dicembre 2023) lo stato di avanzamento delle bonifiche nelle aree sin/sir (complessivamente 160.000 ettari a terra e 130.000 ettari in mare) è diversificato ma quelli preponderanti non hanno ancora iniziato interventi risolutivi (ancora allo stato di studio o di progettazione). Migliore la situazione delle aree di minori dimensioni incluse nei piani regionali, 17.862 siti, poco più della metà di quelli censiti, sono ad oggi considerati bonificati.
Non è solo una questione di iter complessi (procedure, numero di soggetti interessati spesso non più operanti, complessità e difficoltà in relazione alle caratteristiche degli inquinanti) ma soprattutto di “interesse” all’intervento soprattutto quando si hanno appigli al rinvio o alla negazione delle proprie responsabilità.
In altri termini, difficilmente chi inquina anche paga, ma se pensa di procurarsi un profitto (direttamente o tramite altre società) si rende disponibile ad intervenire in particolare se incentivato da risorse pubbliche, cosicché sugli enti pubblici alla fine ricadono gli obblighi e i problemi maggiori dovendo rispondere alle popolazioni esposte.
Il futuro? Dovrebbe essere caratterizzato dalla prevenzione, ma, oltre alla scontata emersione di ulteriori siti da bonificare soprattutto a seguito di dismissione di aree industriali, dobbiamo contare sulla efficacia della “relazione di riferimento” per le attività di maggiori dimensioni ovvero l’obbligo di caratterizzare (analizzare) un’area prima dell’inizio delle attività potenzialmente inquinanti comprendendo le misure previste per evitare tale evenienza. Movimenti e popolazioni dovranno stare con il fiato sul collo dei possibili neoinquinatori.