Recensione di Diana De Rosa, Il chirurgo di carta. Manuali e istruzioni di igiene e medicina navale nell’Ottocento e inizio Novecento, Conservatorio di Storia Medica e Alto Adriatica, Trieste 2024.
Un sistema economico globalizzato come l’attuale non può reggersi senza un commercio marittimo efficiente, che vuol dire una rete di trasporti costituita da migliaia di navi delle più diverse tipologie, dalle petroliere alle portacontainer. Per farle muovere queste navi hanno bisogno di equipaggi, l’Associazione mondiale dell’armamento BIMCO, nel suo ultimo rapporto (2021) stima in circa 1 milione e 890 mila il numero di marittimi occupati sulle navi commerciali in esercizio. Il mercato del lavoro dei marittimi si differenzia a seconda che si tratti di ufficiali o di cosiddetta “bassa forza”. Per gli ufficiali vale abbastanza la legge della domanda e dell’offerta, soprattutto oggi che la penuria di mano d’opera si fa sentire. Il BIMCO stima che nei prossimi anni mancheranno circa 150 mila ufficiali. In Europa conta anche se l’ufficiale è cittadino comunitario oppure no. Per i marinai, sulla base di contratti di lavoro internazionali (per lavoratori non domestic, non doms) in genere il salario è parametrato sul costo della vita dei paesi di provenienza. I marittimi, sia che si tratti di ufficiali o di “bassa forza”, sono pagati in base alle nazionalità, un primo ufficiale russo può costare un terzo di un primo ufficiale tedesco. Ci sono alcune nazioni che si sono specializzate in bacini di mano d’opera marittima, a parte le Filippine, negli ultimi anni Cina e India sono diventate importanti fornitrici, alcuni paesi, come la Bielorussia o il Vietnam, sono quelli dove i marittimi costano di meno. Gli armatori si servono di società specializzate di crew management per reclutare gli equipaggi. Sebbene la qualità della domanda sia in continuo miglioramento, esiste pur sempre una “zona grigia” difficilmente quantificabile dove il reclutamento segue criteri di pura convenienza e di nessuna assunzione di responsabilità. Le navi il cui proprietario o armatore risulta essere una casella postale, dalla quale è praticamente impossibile risalire a persone fisiche, sono purtroppo ancora in circolazione, come risulta da diversi episodi dove una nave con tutto l’equipaggio viene abbandonata in un qualche porto. E i poveretti a bordo vivono anche per anni come prigionieri assistiti da qualche organizzazione umanitaria nella speranza che un giorno qualcuno paghi loro il salario arretrato. Ma, grazie alle norme IMO (International Maritime Organisation), accolte dalle legislazioni di tutti paesi marittimi e aggiornate nel maggio di quest’anno, questo rischio è stato via via ridotto in quanto l’autorità marittima del porto di scalo può salire a bordo di qualunque nave per controllare le sue condizioni non solo per quanto riguarda gli aspetti tecnici ma anche quelli sociali (port state control). E se trova delle irregolarità può fermare la nave.
La componente della navigazione di linea rispetto a quella tramp (quando l’itinerario viene stabilito praticamente a ogni viaggio) è andata aumentando anche in seguito alla diffusione dell’intermodalità (container, Ro Ro). Significa che la nave segue degli itinerari prestabiliti, che prevedono determinate toccate in determinati porti a scadenze precise, dove la nave si ferma il minor tempo possibile, quello sufficiente a sbarcare un certo quantitativo di carico e a imbarcarne un altro. Soste che superano queste strette finestre temporali possono essere causate dalla congestione di traffico o dalla necessità d’interventi straordinari di riparazione.
Benché il salario di un marittimo sia incomparabilmente superiore a quello che il lavoratore – soprattutto nei paesi di maggiore provenienza – potrebbe percepire nel mercato del lavoro del suo paese d’origine con un impiego a terra, la vita di bordo è così dura che, per attirare forza lavoro, il tempo medio di permanenza a bordo in un rapporto di lavoro riconosciuto da un regolare contratto stipulato con il sindacato varia tra sei mesi e un anno. Questo fa sì che il cambio periodico di equipaggio (crew change) rappresenti uno dei problemi logistici più complessi nella gestione della nave. S’immagini un marittimo indiano il cui contratto prevede l’inizio del suo periodo d’imbarco a una data precisa presso un porto del Nord Europa. La compagnia dovrà provvedere a fornirgli il volo aereo da una località indiana al porto, mettiamo, di Rotterdam, ivi compresi i visti d’ingresso nell’Unione Europea. A Rotterdam la sua nave è attesa a una data precisa e nel tempo in cui essa si ferma in porto scenderanno alcuni membri dell’equipaggio e altri prenderanno il loro posto.
Per rendere le cose più semplici, si è cercato di concentrare in alcuni porti il cambio degli equipaggi, in particolare a Hong Kong e a Singapore, che sono diventati veri e proprio hub del crew change. Malta nel Mediterraneo sta diventando uno di questi hub.
Ora immaginiamo un sistema del genere che viene investito dalla pandemia di corona-virus. I diversi stati adottarono politiche di prevenzione che richiedevano drastiche misure di limitazione degli spostamenti. D’improvviso moltissimi porti, soprattutto nell’area del sud est asiatico, vietarono alle navi recanti bandiere diverse dalla propria nazionalità di attraccare. L’International Chamber of Shipping (ICS) definì la situazione the single greatest operational challenge confronting the global shipping industry since the Second World War. Decine di migliaia di marittimi rimasero intrappolati sulle loro navi per un periodo così lungo che le loro scorte di acqua e di viveri si esaurirono. Laddove la compagnia armatrice aveva una propria struttura organizzativa qualcuno poté occuparsene e organizzare i rifornimenti ma dove questa struttura era assente solo le organizzazioni umanitarie o religiose poterono intervenire. Decine di migliaia di marittimi che erano in viaggio per il cambio equipaggio rimasero bloccati, un numero forse maggiore non poté nemmeno mettersi in viaggio perché migliaia di voli aerei erano stati soppressi. Dopo sei mesi dall’inizio della pandemia l’ICS scriveva: In August 2020, it was estimated that over 150,000 seafarers required immediate repatriation with as many as 250,000 serving on extended crew contracts who were overdue to return home, in addition to those needing to join their ships in order to work and keep the world fleet moving. Finalmente, assieme ai sindacati e all’International Maritime Organisation (IMO), la Camera Internazionale dello Shipping riuscì a formulare un protocollo di comportamento da adottarsi a livello mondiale in caso di cambio d’equipaggio, ma proprio nello stesso periodo i due maggiori hub, Singapore e Hong Kong, decisero di adottare misure valide per il loro territorio estremamente restrittive, portando alla quasi paralisi l’intero settore. A che punto era giunta la situazione forse può essere illustrato da questo episodio di cui sono stato messo al corrente dai diretti interessati nel corso della mia attività professionale.
Nave battente bandiera italiana impegnata in servizi di feederaggio nell’area Cina/Sud est asiatico. Il nuovo comandante entra in servizio, si presenta negli uffici della compagnia in Italia consegnando la documentazione necessaria, riceve a sua volta tutto l’occorrente per il viaggio e per l’assunzione del comando e parte per raggiungere la nave in un porto di quell’area lontana. Il viaggio aereo è lungo, probabilmente deve effettuare dei cambi in aeroporti molto affollati. Pochi giorni dopo che il viaggio ha inizio, uno degli ufficiali in seconda comunica alla compagnia che il comandante sta male e si ha difficoltà a comunicare con lui. Dopo altri due/tre giorni comunica che il comandante è deceduto. A questo punto inizia un vero calvario per la nave e il suo equipaggio. Nessun porto dell’area accetta di far sbarcare la salma del comandante per il rimpatrio in Italia. Per alcuni mesi la nave e il suo carico di merce vagano da un porto all’altro nella speranza che qualche autorità dei paesi toccati possa permettere lo sbarco della salma, alla fine la nave con tutto il suo carico di merce è costretta a tornare in Italia. Per tutto quel tempo il cadavere del comandante, chiuso nei tradizionali sacchi di plastica, è depositato nell’unica cella frigorifero disponibile, quella dove sono conservati i viveri e i medicinali. Nessuna nave da carico moderna ha a bordo un medico, soltanto le navi passeggeri. I marittimi, dopo quell’esperienza, vennero considerati key workers, indispensabili, e qualcuno li chiamò pure “eroi”. Ma i disagi e le sofferenze di allora hanno lasciato un segno che ancora oggi grava sulla loro condizione. Le catene di fornitura hanno subito interruzioni e sconvolgimenti cui in gran parte non si è ancora riusciti a porre rimedio.
Ritornano alla mente queste vicende – di cui il gran pubblico rimase all’oscuro – leggendo l’aureo libretto che una storica non accademica, che più volte si è occupata di condizioni della gente di mare, ha dedicato all’igiene navale: Diana De Rosa, Il chirurgo di carta. Manuali e istruzioni di igiene e medicina navale nell’Ottocento e inizio Novecento, Conservatorio di Storia Medica e Alto Adriatica, Trieste 2024.
È verso la fine del Seicento, all’epoca di Luigi XIV, che comincia a sorgere in Francia una preoccupazione per le condizioni igieniche di bordo, che si traduce in regolamenti e in prescrizioni che i comandanti debbono rispettare. Scorbuto, tifo, dissenteria, erano le principali cause che colpivano la capacità lavorativa dei marinai, data l’alta contagiosità provocata dalla ristrettezza di spazi. Una delle ragioni del successo di certe spedizioni che cambiarono la conoscenza dell’universo, come quelle di James Cook, pare sia dovuto al fatto che ormai si erano fatti dei progressi nel trattamento dello scorbuto, permettendo d’individuare negli agrumi, limone e lime, e nella verdura fresca degli alimenti che potevano provocare nell’organismo delle difese nei confronti dello scorbuto. Il medico della Royal Navy, James Lind, aveva condotto un vero e proprio studio clinico sullo scorbuto a bordo di una nave appositamente messa a disposizione. I paesi con le marinerie più potenti, indispensabili al mantenimento dei loro Imperi, come Francia, Olanda, Gran Bretagna, Belgio, furono quelli nei quali l’igiene navale fece i maggiori progressi. I paesi mediterranei invece rimasero indietro. In Italia uno dei primissimi trattati di medicina del lavoro, quello di Bernardo Ramazzini, conteneva al suo interno anche una parte dedicata alle malattie dei marinai (“Sulle navi sono frequenti le epidemie, portate da fuori o provocate dal vitto che è generalmente cattivo, ma soprattutto sono causate dall’acqua inquinata”). Siamo nel 1713 e si stava affacciando sulla scena una nuova potenza che voleva essere anche marittima, quella dell’Impero Austro-ungarico. Diana de Rosa ha dedicato quasi interamente la sua opera di studiosa alla storia delle condizioni sociali a Trieste e nelle zone circostanti. In questo lavoro sull’igiene navale si è soffermata soprattutto sul caso triestino, in quanto porto dell’Impero degli Asburgo, nato grazie ai privilegi concessi con il porto franco nel 1719 ma che ebbe molte difficoltà a decollare come centro di traffici e di know how marittimo-portuale, malgrado l’istituzione di una scuola nautica e di commercio, finché non venne emanato il cosiddetto Editto di Tolleranza nel 1781. In base a questa Patent si concedeva libertà di culto a protestanti, greci ortodossi, israeliti, considerati persone con senso degli affari, oltre una serie di privilegi riguardanti il diritto di proprietà. La costruzione di una flotta in grado di affrontare gli oceani e non solo la navigazione fluviale sul Danubio dovette aspettare gli anni Trenta dell’Ottocento per potersi realizzare. A quel punto il problema del reclutamento degli equipaggi, della loro formazione e del loro mantenimento come riserva di mano d’opera specializzata e a costante disposizione, indusse le autorità a interessarsi dei problemi dell’igiene navale, recuperando il ritardo proprio dei late comer. Nel frattempo erano stati raggiunti notevoli progressi, per esempio nella conservazione dei cibi di bordo, precotti e messi sotto vuoto, secondo il metodo inventato da un pasticcere francese, Nicolas Appert. Questo sistema mal si adattava però ai vegetali, fu un orticoltore e giardiniere del Lussemburgo a risolvere in parte il problema mediante l’essicazione dei legumi, metodo ulteriormente sviluppato perché i legumi o la verdura essiccata venivano compressi formando “delle tavolette che sembrano avere la solidità del marmo”, queste tavolette venivano “immediatamente inviluppate e poste in casse di latta”.
Una tappa fondamentale dell’igiene navale è il Congresso di Parigi del 1851, che si tenne per iniziativa della Francia di Luigi Napoleone e del Regno di Sardegna. Nel 1856 Giovan Battista Massone, un medico al servizio della Marina sarda, pubblicava a Genova il Manuale di igiene e medicina navale ad uso della marina mercantile, dove stilava un lungo elenco sia delle principali malattie cui andavano soggetti i marinai, sia dei rimedi e delle medicine che dovevano essere portati e conservati a bordo per contrastarle, un elenco di 38 di questi medicinali è riportato dall’Autrice a pag. 40. Ma ormai la produzione di testi di igiene e medicina navale cominciava a essere fitta: a Trieste nel 1850 Benedetto Saraval, medico del Lloyd Austriaco, compagnia di navigazione fondata qualche lustro prima, pubblica un Compendio d’igiene navale e sempre a Trieste, nella tipografia del Lloyd Austriaco, il prof. Antonio Felice Giacich pubblica Lezioni mediche per naviganti. C’è una forte attenzione agli indumenti che il marinaio deve indossare, si stilano degli elenchi molto dettagliati degli effetti personali che il marinaio deve portare nel suo sea-chest. L’Austria veniva lodata per le sue politiche di quarantena e per i suoi lazzaretti. Saraval, di famiglia ebrea, non solo viaggiava a bordo delle navi per rendersi conto delle problematiche igieniche ma ispezionava le navi in partenza del Lloyd Austriaco per controllare se il comandante aveva rispettato tutti i regolamenti. E così l’igiene navale diventerà materia d’insegnamento alla scuola nautica di Trieste. Gli ufficiali che uscivano da quella scuola dovevano avere una preparazione specifica. Si comincia a prestare maggiore attenzione agli alloggiamenti, ai materiali di costruzione della nave, alla forma e all’aerazione delle stive, al problema della zavorra, viene istituita una polizia medica. La conservazione delle gallette (il biscotto), della carne di bue, l’elenco delle bevande consigliate, tutto veniva analizzato nel Compendio del Saraval e poi, ancora sullo scorbuto: “l’aria pura e asciutta, lo sciacquarsi la bocca con acqua e aceto, il vitto vegetale combinato all’animale, la frutta matura e specialmente gli aranci, la limonata addolcita con un po’ di zucchero, gli abiti di lana, la nettezza del corpo, le moderate occupazioni, l’ilarità dello spirito ecco i preservativi contro lo scorbuto!”. Riesce però difficile immaginare che queste raccomandazioni venissero rispettate dai marinai, in un’epoca in cui la maggioranza dei trovatelli con certe caratteristiche fisiche era ancora destinata a fare i mozzi e quando le acque dell’Adriatico erano ancora infestate di pirati uscocchi, come risulta dalle relazioni che gli allievi del Nautico erano tenuti a presentare dopo il loro primo viaggio e che Diana De Rosa, in una bellissima ricerca di alcuni anni fa, ha scovato negli archivi della scuola e pubblicato. Trieste divenne sede dell’Imperial-regio Governo marittimo nel 1850, il fratello dell’imperatore, Massimiliano, divenne la figura centrale dei progetti dell’impero asburgico sui mari, diede impulso non solo alla flotta militare ma anche alle spedizioni scientifiche, come quella attorno al mondo della fregata “Novara”, i cui reperti hanno dato inizio alle collezioni dello splendido Naturhistorisches Museum di Vienna, che ancora oggi richiama centinaia di migliaia di visitatori ogni anno. Il Governo marittimo incaricò un medico triestino di fama internazionale, Augusto Guastalla, di redigere un Manuale di igiene e medicina navale ad uso della marina mercantile. Da qui si svilupparono negli anni successivi i vari Regolamenti di servizio ai quali dovevano attenersi i capitani ed i medici di bordo, che ormai erano diventati una componente fissa dell’equipaggio e delle tabelle di armamento, non tanto nella navigazione inframed quanto in quella oceanica, che attraversava lo stretto di Gibilterra e il Canale di Suez. Il medico di bordo era equiparato agli ufficiali, portava la loro stessa uniforme, aveva diritto a una cabina propria e al trattamento riservato ai passeggeri di prima classe. In genere si trattava di giovani che facevano un po’ di esperienza prima di aprire uno studio in città o di entrare in qualche struttura ospedaliera pubblica. Compito del medico di bordo era anche quello di tener sotto controllo le condizioni degli ambienti e del carico, con continue ispezioni. Occorre tenere presente che il passaggio dalla vela al vapore rappresentò un piccolo cataclisma, molte questioni d’igiene navale dovettero essere ripensate da cima a fondo. Se ne trova traccia nei lavori di Carlo Maurizio Belli, che fu capitano e maggiore della Regia marina italiana, che svolse importanti incarichi dopo la prima guerra mondiale. Allo stesso modo il cambiamento fu drammatico quando la nascita e lo sviluppo del movimento operaio e sindacale cominciarono a rimettere in discussione i rapporti gerarchici a bordo e dunque la disciplina. Il bonario paternalismo che sembra trasparire dalla lettera dei regolamenti si smaschera facilmente quando si fa mente locale alla dinamica e alle rivendicazioni dei movimenti di sciopero scoppiati all’inizio del Novecento e in particolare allo “sciopero dei fuochisti del Lloyd”, che chiedevano miglioramenti di salario e riduzioni di orario. Una lotta che ben presto coinvolse altre categorie fino allo sciopero generale e fu soffocata nel sangue il 13 febbraio 1902, lasciando sul terreno quattordici morti. Nei regolamenti successivi a quella data la figura del comandante, che era andata delineandosi come quella soggetta alle prescrizioni di un ordine superiore, quello dell’igiene navale, viene di nuovo definita come detentrice di un potere “assoluto” sull’equipaggio. Dal 9 al 14 giugno del 1906 si teneva a Milano il primo Congresso Internazionale per le malattie del lavoro “per arrivare alla preparazione di un codice igienico del lavoro, agli industriali e ai tecnici per limitare i danni e per purificare il lavoro”. Sul piano dell’igiene navale, allo scorcio del secolo, la nuova frontiera era rappresentata dai problemi del trasporto di masse di emigranti su percorsi oceanici, carne umana ammassata alla rinfusa che consentì agli armatori di rifarsi abbondantemente dalla crisi che lo shipping aveva subito negli ultimi decenni dell’Ottocento.
Qui si chiude l’interessante ricerca di Diana Dee Rosa, che fa venire subito la voglia di saperne di più, per esempio sul periodo fascista, ai tempi d’oro dei transatlantici di lusso, o sulla tremenda eredità della seconda guerra mondiale. La mia generazione si ricorda ancora di coetanei imbarcati sulle petroliere che stavano due anni senza toccare terra, di medici di bordo considerati dei fortunati nullafacenti. Questo mondo scompare un po’ alla volta a Trieste tra gli anni 60 e 80 ed oggi ci chiediamo se le condizioni del personale di bordo siano migliorate o no. Oggi dove il medico è sostituito dalla telemedicina e dove la compagnia armatoriale esercita il potere assoluto. Anche nei confronti del comandante, che ormai è soggetto alle commercial pressures con conseguenze che talvolta possono essere letali sia per la nave che per l’equipaggio.