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Non v’è sufficiente attenzione al dato, tanto universale quanto elementare che l’uomo, comunque lo si intenda, è necessitato al dover pensare quanto al dover fare; esso non può non pensare, come non può non fare. Tali necessità hanno costituito da sempre la sua caratteristica emblematica come anche la sua unità, non essendo possibile scinderle come fossero esistenze in sé e per sé, separate ed indipendenti.
La nostra cultura, nata più di duemila anni fa in Grecia, ha creduto di scindere i due momenti, collocando il pensiero, il nous, il logos dentro un ordine gerarchico che lo poneva al di sopra dell’azione; ma per farlo sussistere come ente in sé, indipendente e sovrastante il “fare”, ha dovuto sublimarlo quale realtà metafisica che, posta come “essere altro” dalla phisis, ha potere su quella e n’è gerarchicamente superiore.
Così dato, il pensiero si pone oltre l’esistenza fenomenologia e godere, in tal modo, dell’illimitata libertà d’essere e d’attuarsi. Al polo opposto si colloca “il fare” che, per partecipare dell’esistenza fenomenologia, è necessitato, sottomesso al vincolo, al condizionamento, alla limitatezza, per cui anche quel pensiero che attiene all’azione e la governa ne è coinvolto e viene parimenti subalternizzato.
Con la separazione del pensiero speculativo dall’azione, l’unità fenomenica dell’uomo è inizialmente scissa, per essere poi ricuperata dall’opzione aprioristica, indimostrata ed indimostrabile, che fa coincidere la sua realtà con quella del pensiero onde esso sarebbe tale solo in quanto cogitans non in quanto faber.
Il pensiero, posto ontologicamente come ente “per sé” e quale unico accesso alla conoscenza, ha dovuto dotarsi di strumenti che gli permettessero di formulare asserzioni univoche, non ulteriormente dicibili, quindi vere. Da qui il pensiero teoretico e l’esigenza della dimostrazione apodittica fondata sulla causalità, della logica deduttiva e del principio di non contraddizione; così nasce la ragione e il pensiero razionale. Ma questi strumenti gnoseologici sono, essi stessi, forme del pensiero necessariamente autoreferenziali ed anche tautologiche. Il pensiero teoretico presume di sottrarsi da tali condizioni postulando enti metafisici che possono essere dati solo “a priori”, assunti al di fuori di sè e che non possono essere provati. Scisso, separato dal “fare” e chiuso in sé, il pensiero non può farsi referente “dell’altro da sé”, come non può, a partire “da sé”, dimostrare nemmeno se stesso.
Parallelamente a tale weltanschaung, si consolida in Grecia la società dicotomica dei liberi e degli schiavi; i primi sono dediti al pensiero e i secondi all’azione. Tale dicotomia non è casuale poiché è difficile argomentare che una società produca rappresentazioni o filosofie, che siano “altra cosa” dalla sua realtà. Il pensiero sia speculativo-razionale, sia analogico, sia altrimenti strutturato è sempre un’interpretazione ed una proiezione nell’astratto, ed anche nel fantastico, della realtà sociale dandone nello stesso tempo la giustificazione e la legittimità.
La razionalità, quale specifico processo di pensiero, ha totalizzato l’immaginario umano fintanto che la separazione del “pensiero” dal “fare” appariva e si poteva assumere in modo netto e inequivocabile e fintanto che la supremazia del primo era percepibile quasi palpabile per la modesta capacità del “fare” a fronte di un desideranda che, condizionata dalle limitate capacità del “fare”, si rifugiava nel metafisico. Aumentando progressivamente capacità del “fare”, il pensiero speculativo iniziò a doversi misurare, a confrontarsi non più con se stesso ma con col concreto; per tale coinvolgimento diveniva anch’esso fenomeno, e non poteva più vedersi unicamente come pensiero puro, come razionalità astratta ma sempre più come pensiero storicizzato che nasce e si forma nella e con la storia delle diverse società, con ciò dissolvendo progressivamente le tentazioni escatologiche.
Si afferma una nuova razionalità che non formula più asserti che siano veri “di per se”, come quell’ontologica; ora gli asserti, le tesi, le ipotesi, le teorie sono vere solo nel rapporto-confronto col fare; le due realtà dell’uomo pensare e fare s’incontrano nel risultato, in ciò che il rapporto manifesta e che e si pone come nuova realtà.
Il rapporto esprime una relazione fenomenica: cosi è l’oggetto costruito col suo progetto, il lavoro utile con quello speso, il capitale ricavato con l’investito. Esso valuta la rispondenza di una data azione rispetto allo scopo da cui ha avuto impulso, come anche valuta la rispondenza degli strumenti o delle possibilità date rispetto allo scopo. Il risultato del confronto, quando è espresso quantitativamente, dà il rendimento che non valuta il pensiero o il fare come fossero enti separati ma nel reciproco attuarsi.
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È evidente la difformità di una razionalità che trova la verità dal confronto del pensiero con l’azione, da quella che, all’opposto, la ricava da se stessa. Sono due rappresentazioni che si oppongono; il loro incontro nel rapporto non è dovuto alla capacità propria del pensiero razionale, ma a seguito di impulsi generati in ceti sociali che dediti ad attività concrete ma immateriali e che, per non essere totalmente subalterni, erano capaci di una propria autonomia. In questi ambienti, i risultati del “fare” avevano un valore pressante ove il pensiero era indotto a dover verificarsi con l’altro da se, con il suo prodotto. È stata un’evoluzione culturale e concettuale silenziosa ed inavvertita anche ai suoi stessi autori, durata secoli, che capovolgeva il processo razionale non più assunto a scopo del sapere ma a suo strumento.
Gli artefici dell’innovazione furono quasi sicuramente i banchieri rinascimentali che prestavano denaro ad usura, oggi diciamo ad interesse; essi dovevano valutare il rapporto tra la quantità di moneta finale con l’iniziale poiché l’operazione aveva un senso se il suo esito era a somma positiva, se la quantità di moneta da esigere era maggiore di quella prestata. L’operazione, però, doveva avere una sua razionalità, non dipendere dalla casualità del momento o dalla soggettività degli operatori. Allo scopo ben si prestava l’impiego della numerazione indiana importata, con il calcolo, dagli arabi e divenuta d’uso corrente in Europa nei sec. XIII e XIV. Il rapporto monetario espresso con l’algoritmo matematico appare come oggettivo, non qualitativamente determinato, come anche i criteri di rendita e rendimento.
Sicuramente i banchieri rinascimentali non avevano nozione della portata epistemica di ciò che stavano facendo e non si preoccuparono di estendere, di là della tecnica bancaria, i nuovi strumenti concettuali. Fare il banchiere non era una professione riconosciuta come “eccellente” e socialmente qualificante, per la condanna dell’usura da parte della chiesa. Ciò malgrado, sia per il concomitante aumento della circolazione delle merci e della moneta, sia perché le classi ricche (nobiliari e d’alta borghesia) iniziavano a trasformare le loro rendite da “in terra” a “in moneta”, ossia in capitali, i banchieri assunsero nelle società europee sempre maggiore importanza e il loro stile di operare, pur se in modo tacito, prolificò oltre la specifica sfera d’azione.
La scienza sperimentale, introdotta da Galileo, ha indubbi legami e debiti culturali con il metodo praticato da più di un secolo dai banchieri. L’esperimento è l’atto di verifica inappellabile delle ipotesi, teorie o progetti formulati dal pensiero che sono falsificati, inapellabilmente, dall’eventuale verdetto negativo dell’esperienza. Con l’esperimento, la teoria è tradotta in fatti, in risultati che si pongono come cosa, come entità oggettiva. La scienza aristotelica non contemplava il confronto del pensiero con la datità poiché ogni scostamento tra esso ed il risultato era dovuto non al primo, quando fosse correttamente costruito secondo il formalismo logico, ma all’incapacità, quando non malevolenza o protervia, dell’esecutore o, come nel cristianesimo, al malvolere di un’entità semidivina; l’errore era interpretato in modo moralistico. Con Galileo è il risultato a decidere della verità del pensiero e l’errore non dipende più e solo dall’esecuzione ma anche dall’episteme, dall’aver posto obiettivi incompatibili alla realtà. È la nascita della cultura moderna e l’avvio della nuova razionalità.
Non più tardi di un secolo dopo, Newton e Leibniz formulano la nozione di funzione dove il rapporto scandisce l’incremento di una grandezza che varia in funzione di un’altra; nasce il calcolo differenziale e poi, sempre seguendo il criterio della comparazione delle quantità, Cartesio introduce la geometria analitica. L’algoritmo matematico diventa il nuovo criterio di verità che darà corpo alla meccanica razionale.
L’innovazione epistemica conquista sempre nuovi spazi della conoscenza. Non solo essa, fonda le scienze naturali come sapere obiettivo, ma anche quelle economiche; i fisiocratici e i classici inglesi, sul finire del sec. XVIII, estendono la nozione di rendimento dall’ambito finanziario a quello produttivo.
Ai primi dell’800, Sadi Carnot scopre la trasformazione del lavoro in calore e che il lavoro ottenuto e quello speso stanno in rapporto secondo la formula:
1) m = Er
Es
che dà il rendimento meccanico dove m è il rendimento dato dal rapporto di Er, energia o lavoro reso, con Es, il lavoro speso; e poiché quest’ultimo è sempre maggiore di Er il rendimento m non può mai essere superiore all’unità.
Infine sul finire dell’800, per opera di F.W. Taylor, la teoria dei rendimenti viene applicata al lavoro umano, misurato e valutato per le sue componenti meccaniche/energetiche, ove la nozione di rendimento si integra con quella di produttività.
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Agli inizi del 900 la teoria dei rendimenti è ormai consolidata e divenuta sinonimo di razionalità; per essa si è tanto più razionali quanto più il rapporto teoria/prassi, progetto/esecuzione massimizza il risultato: il rendimento. Ciò nonostante la sua valenza epistemica non è ancora riconosciuta al di fuori degli specifici ambiti d’applicazione, confermando l’esistenza del dualismo filosofico, come di due parallele che non s’incontrano, e non si comprendono. Tale dualismo, in un ambiente culturale e sociale che interpreta la realtà in modo gerarchico, estremizza i poli opponendo i teorici ai pragmatici, chi privilegia lo scopo, la teoresi, la speculazione, a chi privilegia la prassi, le tecniche e le procedure operative, la cultura astratta contro la cultura materiale. La radicalità, mentre spinge lal primo a sconfinare anche verso il nichilismo filosofico, induce il secondo a riconoscere unicamente la cultura dell’efficienza ove la prassi, non solo, verifica lo scopo ma lo sostituisce introducendo la fattibilità quale criterio di selezione ed elaborazione dei valori.
In quest’alveo si muove anche M. Weber che interpreta la sociologia con la tesi de: «La costruzione di un agire rigorosamente razionale rispetto allo scopo» ove la razionalità, pur se impiegata come «tipo ideale per intendere l’agire sociale», può verificarsi solo sull’ottenimento dello scopo.
All’alba del terzo millennio la razionalità dell’efficienza, l’ermeneutica del rapporto pensiero/azione, tesa a massimizzare i rendimenti, si afferma in modo definitivo, ma la permanenza della doppia filosofia oscura la capacità innovativa della nozione del rendimento. Nelle scienze naturali i rendimenti tendono ad approssimarsi all’unità che ne costituisce il limite irraggiungibile, nella prassi economica, invece, essi si collocano sempre oltre l’unità, tendendo teoricamente all’infinito. Nelle prime il limite è dato dall’impossibilità di generare energia-materia (d’ora in poi enerma) ex nihilio, donde la proposizione che nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma, con la conseguente impossibilità di produrre una qualsiasi cosa che, per enerma, sia maggiore di quell’impiegata a produrla; a tale proposizione sembra contrapporsi l’esigenza, necessaria a soddisfare i bisogni umani, d’avere rendimenti superiori anche di molte volte all’unità. In breve l’attività economica esige risultati che, in prima lettura, sembrerebbero fisicamente incompatibili ma che, ciò malgrado, avvengono. Perché il rapporto Er/Es possa dare un risultato superiore all’unità è necessario che Es sia inferiore di Er, ossia che l’energia spesa crei ex abrupto nuova energia, ma poiché questo e manifestamente impossibile è necessario che nel processo produttivo ad Es si aggiunga qualcos’altro per cui la formula dei rendimenti economici diventa:
2) mc = Ex + Er
Es
ove il rendimento mc può essere superiore all’unità.
L’energia aggiunta Ex non deriva dal rapporto Er/Es, bensì dalla sua funzione valvolare ( una valvola è un’azione o un meccanismo che, con poco lavoro, permette di regolare grandi energie) rispetto ad Ex.Questo “di più” preesiste come patrimonio naturale e, pur dipendendo dal rapporto Er/Es e dal processo produttivo in esso implicito, non è un suo prodotto e la sua grandezza determina il rendimento energetico (vedi il mio: Appunti di economia energetica in Altronoveceto n° 7); da qui l’origine della ricchezza e la possibilità di massimizzarla.
Mentre la 1) è una descrizione quantitativa della materia tramite l’energia, con la 2) lo stesso fenomeno è visto sotto il profilo economico, che non è specifico della realtà fisica, ossia naturale, bensì artificiale in quanto generato dall’attività umana. Ciò potrebbe indurre a ritenere diverse e non comparabili le due formule ma l’economia si fonda, pur sempre, sulla manipolazione dell’enerma che deve comunque avvenire secondo le sue leggi, quindi la formula 2), pur come variante valvolare, descrive lo stesso evento fisico.
L’aporia è solo apparente; essa nasce dalla separazione dei due fenomeni –naturale ed economico- come fossero originati, per la presupposta discontinuità del reale, da realtà diverse ed indipendenti per cui la teoria dei rendimenti nella versione della 1) sarebbe altra cosa dalla versione della 2). Non essendo possibile rifiutare la teoria dei rendimenti e quella sottostante del rapporto, l’antinomia deve trovarsi in una delle due soluzioni, segnatamente in quella economica che, oltre a non darne alcuna giustificazione, nemmeno n’è cosciente.
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Poiché nella 2) Ex può assumere valori comunque grandi, la massimizzazione dei risultati o dei rendimenti è tendenziale e non è specifica dei soli dei fenomeni economici ma comune ai sistemi auto-organizzanti (di seguito semplicemente organismi). Questi si caratterizzano per l’esigenza di dover/poter essere solo alla condizione d’avere un ricambio continuo con l’ambiente, ossia capaci d’intercettare un flusso continuo d’enerma da trasformare in “informazione, in materia organizzata. Nel processo d’assimilazione, l’enerma tratta dall’ambiente naturale e fissata negli organismi deve essere sempre maggiore di quella utilizzata dagli organismi per prodursi/mantenersi; è solo in virtù di questa eccedenza che essi possono accrescersi di continuo e la massa totale di enerma che essi possono mobilitare ha limiti solo nella finitezza dei sistemi fisici; è questo il processo che si verifica con la 2).
La vita, il bios, è un sistema auto-organizzante, ma in teoria non necessariamente l’unico. Riconducendo il bios ad un quadro interpretativo più generale che lo comprende ma non lo esaurisce, è possibile ipotizzare ed anche riconoscere l’esistenza di organismi non originati da processi biologici, ove il ricambio di enerma avvenga per fenomeni non chimici com’è, ad es., la società umana.
Gli organismi hanno come caratteristica necessaria quella d’essere auto-conservativi ed auto-riproduttivi e utilizzano ogni opportunità offerta dall’ambiente per massimizzare la propria esistenza; in particolare il bios ha sviluppato la sua massimizzazione nella direzione della speciazione, differenziandosi in tutte le forme, “specie” possibili.
Ogni organismo, ogni singola specie con cui la vita si esprime, in quanto oggetto materiale, concorre a comporre degli insiemi “ecologici” perché ogni specie ed individuo oltre a subire produce dei limiti per altri, con reciproci condizionamenti, ed anche perché il loro insieme assorbe, con le forme ed i modi propri, quanto più enerma è disponibile nell’ambiente fisico esterno. Ciò posto, il bios dovrebbe pervenire ad un equilibrio statico con il proprio ambiente naturale; ciò non avviene poiché l’energia solare, della quale si alimenta, origina un equilibrio ecologico perennemente compromesso, perennemente ricostituito e caratterizzato sia dall’aumento della massa biologica sia dalla varietà e qualità delle specie, dando luogo alla densità biologica.
Il bios non sovverte le leggi della termodinamica, ma trattiene, accumula nelle strutture auto-organizzate, ossia nella massa biologica, l’energia solare che, diversamente, andrebbe dispersa per irradiazione nello spazio, partecipando in modo consistente a modellare la superficie terrestre.
L’uomo è dentro questo processo; esso però vi apporta una novità che nel tempo s’è rivelata sconvolgente. Per non essere un animale specializzato, non indirizzato a funzioni specifiche, le sue possibilità di estrarre dall’ambiente le condizioni di sussistenza dipendono dalla capacità di modificarlo per adattarlo alle proprie esigenze non essendovi habitat che possa soddisfarle in modo naturale, come avviene per le altre specie animali; ciò genera una situazione di perenne scarsità, come direbbero gli economisti, non tanto per un possibile difetto delle risorse naturali quanto perché l’assenza della specializzazione biologica determina dei bisogni, oltre a quelli strettamente fisiologici, indefiniti ed indefinibili, variabili e mutevoli non riconducibili alle sole risorse naturali.
La razionalità del rendimento, ossia dell’efficienza, si forma da questa realtà e misura l’agire dell’uomo teso ad occupare progressivamente tutti gli spazi disponibili, oltre a quelli fisici-materiali anche quelli immateriali. In tal modo essa s’identifica col progresso e lo sviluppo assumendo la funzione di paradigma di positività universale; tutto quanto è misurabile (e cosa non lo è, quando la misura è divenuta la condizione peculiare della conoscenza?) e rientra negli scopi umani (e cosa non è scopo umano?) è potenzialmente suo oggetto.
La massimizzazione, alimentata dalle capacità strumentali e fattuali, non ha un limite o un condizionamento logico/strutturale che la possa contenere; essa spinge la logica del rendimento ai suoi estremi, anche al punto di compromettere le basi materiali della vita e dell’uomo medesimo; essa perviene a compromettere anche le strutture della società senza della quale l’uomo, come specie, non può sopravvivere.
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L’efficienza, la sua logica e la sua prassi, domina la nostra realtà quotidiana, ne forma la filosofia comportamentale e si pone quale “nuova razionalità” in alternativa a quella teoretica. Mentre questa si è sviluppata sul tema dello “scopo”, ponendo domande sull’essere, su cos’è l’uomo e dove vada, la razionalità dell’efficienza si pone principalmente il tema del raggiungimento degli scopi, diventando la filosofia della tecnica e della scienza, della strumentazione e degli oggetti tecnici che il sapere umano sa costruire. C’è chi, attardandosi nella teoretica e nell’escatologia, ha visto, anche con qualche ragione, nella supremazia della tecnoscienza un pericolo per l’uomo. L’efficienza, nel farsi omnicomprensiva, assume d’essere il metro che valuta ogni impresa ed ogni attività, l’unico arbitro del giudizio. Lo scopo, il fine non è più validato in quanto tale, ma lo è per le possibilità che ha d’essere attuato; da qui un’ontologia parallela a quella metafisica, ove l’essere non è più “per se” ma in quanto “agito, prodotto, fatto, costruito”; e mentre per la prima è lo scopo a dettare l’esistenza, nella seconda la tesi si rovescia e l’esistenza è confermata dalla realizzazione e dai processi operativi.
Pur opposte, le due tesi conservano la base che caratterizza nel profondo la filosofia della ratio, il monismo o reductio ad unum, per il quale ogni procedura ogni, pensiero, ogni realtà è ricondotta o deve essere riconducibile ad un unico e solo fattore che ordina gerarchicamente tutti i successivi. Ciò impedisce di pensare, specie nelle scienze umane, ad una causalità plurale ed anche circolare (retroazione) onde all’interno del binomio “scopo-realizzazione”, vi è sempre il prevalere di un qualcosa su qualcos’altro. La logica del monismo causale inibisce di assumere che i termini del rapporto siano interrelati, momenti di un processo ove uno determina l’altro, quanto questo quello.
L’efficienza, operativa e strumentale, è la condizione necessaria alla massimizzazione dei rendimenti, ma è anche il limite di un’operazione logica impropria. L’efficienza massimizzante mette in relazione enti tra loro non commensurabili, ossia rapporta una proposizione logica, qual è il concetto di massimo di tipo astratto e che ha il suo limite solo all’infinito, con la concretezza e la finitezza degli oggetti reali. Ignorando o nascondendo che un rapporto è valido e reale solo quando gli enti interagenti sono omologhi, produce la rappresentazione astratta di un ente concreto e rapportando il commensurabile con l’incommensurabile, il finito con l’infinito, omologando artificialmente e forzatamente i termini della relazione. La procedura conduce a sublimare l’Ex della 2) che, pur ignorato od inavvertito, non scompare ma si trasfigura in un ente metafisico o ideologico come il valore aggiunto o il surplus di valore del lavoro.
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L’efficienza considera e valuta i rendimenti nel tempo (in termini matematici è la derivata di mc e ne interpreta il senso e la direzione. Sollecitata dagli input antropologici, essa assume i rendimenti nelle classi di riferimento: crescenza e decrescenza, simmetriche a quelle del bene e del male. Queste ultime, proiettate nella realtà metafisica, sono entizzate ed oggettivate impedendo in tal modo di pensarle come classi d’eventi reali che all’opposto sono tali, non in assoluto, ma solo in relazione al luogo, alla/e modalità del loro accadimento e al tempo, ossia a specifiche, ed anche casuali, concrete, contingenze.
L’argomento è rilevante nel caso degli organismi che, per essere dinamici, non fissi nel tempo, sono soggetti ad evolversi. In quelli biologici, i rendimenti crescenti o decrescenti si alternano secondo uno schema fisso ed immutabile ed ove, pur non potendo prevedere con esattezza il decorso dell’alternanza, l’organismo è segnato da un’iniziale trend dei rendimenti crescenti che, nel tempo, si mutano in decrescenti.
La variabilità del segno degli incrementi, nelle strutture auto-organizzanti, evidenzia un primo gruppo di cause d’origine esterna, ove l’ambiente, il cui studio è oggetto specifico dell’ecologia, si pone come “altro” rispetto all’ente auto-organizzato; un secondo gruppo di cause è, invece, d’origine interna all’individuo ed attiene alle problematiche specifiche, alla tipologia della sua organizzazione. Il loro insieme e reciproco condizionamento evidenziano che la massimizzazione dei rendimenti non può protrarsi all’infinito per l’insorgere dei rendimenti decrescenti che determinano o la stabilizzazione dell’ente organizzato, nel senso che cessa la crescita ma si conserva, o la sua trasformazione in uno diverso (mutazione genetica), o la sua disorganizzazione ossia la morte.
I rendimenti decrescenti insorgono quando a pari informazione resa vi è un aumento dell’enerma assorbita o, specularmente, quando ad uguale enerma assorbita diminuisce l’informazione resa. Quale che sia il caso, il sistema entra in un regime di progressiva fatica ad auto-continuarsi ed auto-riprodursi; al pericolo di autoestinzione la risposta positiva è di mettersi in equilibrio, pur se dinamico, con il proprio ambiente ponendo un limite alla propria crescita; equilibrio però tanto più difficile da stabilire, quanto più l’organismo è complesso e denso di funzionalità.
Più le strutture auto-organizzanti sono dense, più producono informazione e più sono capaci d’elaborare forme complesse d’enerma; ma, con l’aumentare della complessità l’organismo aumenta i propri consumi. È questa una condizione difficile da mantenere ed è a questo livello che i rendimenti diventano decrescenti, innescando, con modalità e tempi sia casuali che causali, la decadenza della struttura auto-organizzata.
Non esiste, oggi, una mappa fenomenica sufficientemente studiata dei rendimenti decrescenti; la sua stessa nozione è dedotta dall’osservazione dei fenomeni di decadimento, visibili nelle strutture auto-organizzate.
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Il pensiero relazionale, con l’indotto della massimizzazione dei rendimenti, è entrato tanto profondamente nella cultura scientifica da contrastare l’egemonia di quello apodittico e che, dopo millenni di storia della cultura e della filosofia, va perdendo importanza, poiché il monismo determinista al quale s’ispira non è più in grado d’essere propedeutico e di comprendere-controllare le nove realtà che si vanno prospettando. In ogni modo esso è ancora fortemente presente in ambiti ove il rigore dimostrativo è meno richiesto e quindi il pensiero può più facilmente auto-giustificarsi; cosi avviene per il pensiero religioso politico che si supportano sul sistema autoritario che caratterizza i rapporti sociali; altrettanto avviene per il pensiero religioso al quale la fede è ontologicamente connaturata.
Ambigua è la sua persistenza in economa che, pur avendo dato origine al metodo relazionale, disconosce il rendimento energetico della 2); disconoscimento ovviamente funzionale al mantenimento delle strutture sociali capitaliste ed allo squilibrio dei redditi. Per queste ragioni l’economia è considerata da molti una pseudo-scenza poiché le sue basi sono congetturali, prodotte dal soggettivismo sociale; è improbabile, in una società dicotomica, poter costruire una scienza dell’economia, sulla base della logica del solo profitto individuale, oggettiva ed universale.
Per la prima volta nella sua storia, quantomeno su scala globale, l’umanità è di fronte a scelte che contemplano anche la possibilità della distruzione del genere umano. Evento possibile, perché la civiltà capitalista occidentale, che domina il mondo, è entrata nella fase dei rendimenti decrescenti contraddistinta da due fattori. Con l’uno sempre più enerma è necessaria per avere gli stessi risultati ed inoltre questi, a pari o a maggior consumo d’enerma, sono progressivamente inferiori. Con l’altro, l’enorme sviluppo della tecnoscienza con la varietà e sovrabbondanza di prodotti, ha sostenuto un’accelerazione demografica che porterà ad un momento d’incompatibilità e di rottura ambientale.
Ovviamente queste tesi si possono negare con mille argomenti; tra questi, il maggiore, è negare la società quale ente organizzato. Purtroppo, quando la dimostrazione sperimentale scientificamente incontrovertibile sarà possibile, i rendimenti decrescenti saranno a tale livello da essere in fase di non-ritorno. La fenomenologia degli enti organizzati non conosce divisioni nette e precise come in fisica e la predizione dei processi evolutivi è necessariamente tendenziale; l’evento è verificabile solo dopo il suo accadimento e per i risultati che produce; nel preconizzare un evento di questo tipo è sempre implicita l’eventualità che esso non accada, o accada diversamente da come prospettato; ma come, e quando accade, gli esiti negativi non sono più procrastinabili.
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Assumendo la società quale ente oggettivo organizzato, è possibile osservare che il suo sviluppo è largamente casuale; casualità che il pensiero speculativo occulta nei temi del destino, della divina provvidenza, della predestinazione, dello spirito, del fato, del miracolo. Queste categorie, che fanno riferimento direttamente o indirettamente a postulati metafisici, sono sempre meno utilizzabili e sempre meno si presentano come garanti del futuro della specie umana e delle sue civiltà.
La strada percorribile del suo futuro è di fermare la massimizzazione dell’enerma e la prospettazione dello sviluppo compatibile è solo un nascondere il problema perché qualsiasi sviluppo materiale, compatibile o meno, è impossibile senza il consumo di enerma. La soluzione sta nell’ottimizzare i rapporti della specie umana con la natura, avere con essa rapporti compatibili per entrambi, possibili solo sostituendo la logica dell’efficienza massimizzante con quella dell’efficacia, della compatibilità dei valori, soluzione raggiungibile o contenendo i consumi o l’incremento demografico o, forse meglio, entrambi.
Questa soluzione non è tra quelle che vengono da sole, per cause naturali o divine; essa è possibile solo a condizione di porsela lucidamente e coscientemente come scopo ed operando scientemente al suo perseguimento. È una rivoluzione, un’evoluzione, un andare oltre, nello stesso tempo culturale, politico ed economico di proporzioni epocali e di lunga lena. L’umanità ha già vissuto, millenni addietro nel neolitico con la scoperta dell’agricoltura, un evento che ha rivoluzionato oltre al modo di produrre sussistenza anche l’organizzazione sociale e le strutture culturali e politiche, ancora oggi perduranti. Allora l’evoluzione fu spontanea, interpretata, culturizzata dal mito e dalle religioni; ma oggi essa non può che procedere dalla coscienza e dalla conoscenza del problema.
Non esiste scienza, tecnologia, civiltà che possano dare tanto di più, quanto più si consuma; vi si oppone la logica dei rendimenti e la scelta di aumentare i rendimenti, agendo prevalentemente sui risultati sino a subordinarvi i progetti, non è ulteriormente percorribile.
Necessita uscire dalla visione monista della realtà che prima ha privilegiato il progetto sui risultati ed oggi privilegia questi su quello. In un’ottica plurivalente della realtà, progetto e risultati sono equivalenti nel determinare i rendimenti e non vi è prevalenza dell’uno sull’altro; in tale modo il rapporto può accedere un livello più generale di: società/natura e su di esso misurare i rendimenti quale equilibrio tra i due termini.