Rivoluzione e sviluppo in America Latina, a cura di Pier Paolo Poggio, volume IV di L’Altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico, Jaca Book, Milano 2016
L’ambiziosa impresa editoriale, curata da Pier Paolo Poggio ed edita dalla Jaca Book in collaborazione con la Fondazione Luigi Micheletti, volta ad analizzare il Novecento attraverso la lente del pensiero critico e del comunismo sorto in opposizione a quello consolidato e canonizzato dall’Unione Sovietica, giunge al IV volume dedicato al continente Sud Americano (Rivoluzione e Sviluppo in America Latina, Jaca Book, 2016, pp. 768, € 48,00), dopo i precedenti tre volumi dedicati rispettivamente all’età del Comunismo Sovietico, pubblicato nel 2010 ( L’Età del Comunismo Sovietico. (Europa 1900-1945), pp. 693), ai Movimenti in Europa, edito nel 2011 ( Il Sistema e i Movimenti. (Europa 1945-1989) pp. 828) e al Capitalismo Americano uscito nel 2013 ( Il Capitalismo Americano e i suoi Critici, pp. 774). L’opera prevede la pubblicazione di altri due volumi, uno dedicato al tema dell’anticolonialismo e del comunismo in Africa e Asia, l’altro sul comunismo e pensiero critico nel XXI secolo. Come per le precedenti pubblicazioni, e come previsto per le ultime due, anche quella oggetto di queste note si avvale della collaborazione di numerosi studiosi italiani e stranieri, così da delineare un quadro il più completo possibile riguardo all’argomento e al dibattito su di esso esistente a livello internazionale. Si è in presenza di un volume ricchissimo, trentotto autori per quaranta interventi, il che, con ogni evidenza, rende impossibile una presentazione adeguata della maggior parte di essi. Si tenterà quindi di delineare la struttura del volume indicando i temi principali, rimandando il lettore interessato al testo per ogni eventuale approfondimento.
L’esperienza dei governi di “sinistra” e “progressisti” che negli ultimi venti anni hanno profondamente mutato la realtà di paesi (si pensi al Venezuela di Chavez, la Bolivia di Morales, il Brasile di Lula e Rousseff, l’Equador di Correa, ma anche l’esperienza dei governi di Néstor Kirchner e di sua moglie Cristina Fernández in Argentina) che storicamente erano stati sotto il controllo politico-sociale degli Stati Uniti (sovente imposto anche attraverso l’organizzazione di golpe militari), ha rappresentato una svolta fondamentale le cui ripercussioni, sia sul piano geopolitico che su quello del dibattito politico-culturale, hanno esercitato un notevole peso anche in quel che rimane (ben poco…) della sinistra, più o meno radicale e rivoluzionaria, europea e italiana. Proprio ora che quelle esperienze stanno vivendo una crisi, dovuta a più fattori, che rischia di disperdere i frutti, per quanto contraddittori, di un processo di democratizzazione e di indipendenza, è utile riflettere sulle origini storiche, sociali, politiche, culturali di un continente fondamentale. Il volume in questione rappresenta senz’altro uno strumento importante a tal fine. Già nella presentazione Pier Paolo Poggio indica alcuni temi di fondo della storia latinoamericana, segnata da elementi forti di continuità che permangono nel tempo, si pensi alla forte presenza delle popolazioni originarie (che la differenzia dal Nordamerica), cosiddette indie o indigene, o al predominio (economico, sociale, politico, culturale in qualche misura) della grande proprietà terriera, che rappresenta l’altra faccia dell’espropriazione degli indios, ovvero l’incapacità-impossibilità di realizzare la riforma agraria. Tali continuità fanno da sfondo, e sostanziano, la storia delle rivoluzioni che hanno attraversato l’America Latina. Si veda per esempio la Rivoluzione Messicana, che Massimo De Giuseppe descrive attraverso il complesso rapporto che si formò nel tempo tra essa e l’Internazionale Comunista, sottolineando, attraverso l’analisi delle sue varie fasi, come il socialismo messicano restava sostanzialmente e tendenzialmente degno erede della tradizione liberale, pragmatico e sincretico, scarsamente ideologico, o l’esperienza di Unidad Popular in Cile descritta da Maria Rosaria Stabili, dove emerge sia l’idea del percorso al socialismo di Allende, con il suo rifiuto convinto della violenza come strumento per realizzarlo, la sua convinzione del rispetto dello stato di diritto come specificità cilena nel contesto latinoamericano, sia le fonti che innervano la struttura del suo pensiero, «frutto della lunga tradizione radicale e massone, delle suggestioni libertarie dell’anarchismo, del socialismo umanitario e del marxismo», o l’esperienza del ’68 che attraversa anche il continente Latinoamericano e che, rispetto al movimento studentesco, ha una genesi antica, risalente al Manifiesto de Córdoba del 1918, in si lanciava un appello ai giovani dell’America Latina per costruire un movimento di ribellione antioligarchica, anticlericale e antinordamericana, per creare, su basi nuove, le premesse di un continente progressista, e che sfocia nel massacro di Tlatelolco a Città del Messico, e la cui importanza come processo di rottura (in alcuni paesi sarà il preludio alle dittature militari, in altri all’inizio di un cambiamento e di una cultura politica sempre più critica verso il sistema) è analizzata da Ana María González Luna, così come la ribellione zapatista iniziata il 1° gennaio 1994 nella Selva Lacandona criticamente studiata, nei suoi limiti, nei suoi successi e nelle sue ripercussioni, da Claudio Albertani.
Non c’è dubbio però che la fonte di ispirazione, ammirazione, stimolo e influenza alla lotta per il cambiamento, per il contesto e l’anomalia della sua esperienza tutt’ora in corso (a dispetto di ogni previsione) rimane, nell’area dell’America Latina, la Rivoluzione Cubana. Su di essa Antonio Moscato traccia un bilancio storico, sfuggendo all’apologia così come alla demonizzazione (i due estremi che ne hanno caratterizzato il più delle volte la riflessione storica), concentrando l’attenzione sugli snodi fondamentali del percorso rivoluzionario attraverso la figura che lo ha guidato e incarnato, Fidel Castro (scomparso di recente). Figura complessa, Moscato ne fa emergere la contradditorietà. Al poco marxismo del suo bagaglio culturale (non a caso è considerato, e si è sempre considerato, continuatore dell’opera di José Martí, vero precursore e padre della patria, e, soprattutto, di Antonio Guiteras) faceva da contraltare la capacità di ascoltare e interpretare i sentimenti e le aspirazioni delle masse. Capì l’importanza della riforma agraria (che scatenò la prima misura di embargo degli Usa), non a caso i contadini gli fornirono la maggior parte dei combattenti, ma mostrò problemi nella gestione dell’economia. Nonostante la sua origine borghese dimostrò «una straordinaria capacità di rifiutare mediazioni e lusinghe, impedendo che ancora una volta l’attesa del cambiamento radicale fosse frustrata», ma concentrò nelle sue mani un potere immenso, gestito in solitudine, sostituendo i giovani collaboratori allevati appena visti troppo autonomi, pur rimanendo coerente con la Rivoluzione che era stato capace di interpretare e guidare, acquisendo in questo modo il prestigio di cui gode tutt’ora. Anche nella fase più condizionata dal legame sempre più stretto con l’Urss, in cui la stessa originalità della Rivoluzione Cubana fu fortemente offuscata, non vi fu una inversione di tendenza tale da far nascere un’opposizione a una restaurazione «termidoriana», e questo perché una vera Rivoluzione non si riduce alle iniziative di un singolo uomo, per quanto grande esso possa essere, o a quelle di poche centinaia di rivoluzionari (barbudos nel caso specifico) che ne hanno creato le premesse: nel momento della vittoria sono entrate in scena le masse, a dimostrazione del radicamento e della buona semina che quel pugno di uomini aveva saputo creare. Non bisogna mai dimenticare, infatti, la realtà di Cuba prima della Rivoluzione, un enorme bordello e casa da gioco per ricchi americani, piena di alberghi di lusso costruiti spesso dalla mafia-italo-americana che aveva ridotto il livello di vita della popolazione a livelli spaventosi. Di certo determinate scelte, scaturite da circostanze esterne e interne, non furono senza conseguenze e non è per caso che Ernesto Che Guevara, l’altra figura chiave della Rivoluzione Cubana (di cui ricorre il cinquantesimo anniversario del suo assassinio), se ne andò presto da Cuba per cercare un nuovo inizio. A lui Moscato dedica un profilo che, attraverso gli scritti parzialmente editi e inediti (che furono al centro anni addietro di una polemica politico-editoriale che coinvolse, tra gli altri, lo stesso Moscato e la vedova ufficiale di Guevara), fanno emergere lo spessore teorico del rivoluzionario argentino, pensatore originale che intuisce con venti anni di anticipo il declino e la probabile caduta del sistema sovietico, in un processo di conoscenze e riflessione che lo porta, dopo un’adesione scolastica alla vulgata “marxista-leninista”, a delineare in modo sempre più preciso, almeno dal 1962, i problemi e lo storture politiche-teoriche del campo socialista come si evince dalle Note critiche al Manuale di economia dell’Accademia delle Scienze dell’Urss (pubblicato solo nel 2006), e dal Discorso al II Seminario afro-asiatico di Algeri, dove equipara il comportamento di Cina e Urss presentandoli come complici dell’Imperialismo.
Le questioni teoriche, di pratica politica delle masse, dell’organizzazione, che nell’esperienza vittoriosa di Cuba emergono con forza, hanno riguardato, e riguardano, anche il resto delle realtà sociali e dei paesi latinoamericani. I flussi migratori costanti e intensi che hanno caratterizzato molti paesi, come Argentina, Brasile, Uruguay, consentirono la penetrazione di molte teorie politiche, a iniziare da quelle di ispirazione anarchica, che hanno avuto un peso importante nella storia di movimenti e di alcuni paesi, a quelle comuniste e marxiste. Alla diffusione dell’anarchismo nell’America del Sud, in particolare in Argentina e Brasile, è dedicato il saggio di Edilene Toledo e Luigi Biondi che espongono le tesi usate dagli storici per spiegare la persistenza e il radicamento intenso, pur tra alti e bassi, del movimento anarchico tra la fine dell’Ottocento e gli anni Venti del Novecento. Una spiegazione di natura economico-sociale è quella che vede l’anarchismo come risposta politica ad una società capitalistica in via di industrializzazione ma non ancora fortemente industrializzata, in cui artigiani e lavoratori specializzati costituivano ancora la parte preponderante dei lavoratori impegnati nella manifattura. La proletarizzazione stava avvenendo più lentamente e tardivamente rispetto all’Europa, dunque l’anarchismo, che preservava le supposte autonomie particolari e individuali del mondo artigiano, forniva il sogno di un mondo federato egualitario, ma non massificato, in un certo senso anche anti-industriale. Un’altra tesi, detta culturalista, che può leggersi o meno come derivata dalla prima, si fonda sulla questione migratoria, l’anarchismo cioè come portato della circolarità delle idee, dovuta alla circolazione di determinate culture, in questo caso quelle dell’Europa meridionale latina, dove appunto gli anarchici, fino agli inizi del Novecento, contendevano alla nascente socialdemocrazia l’egemonia nel movimento operaio. Ma la presenza anarchica in Sudamerica fu soprattutto dovuta a dinamiche interne, sostengono gli autori del saggio, come lo statalismo opprimente, governi repubblicani fondamentalmente oligarchici e fortemente repressivi, molto spesso legati all’esercito, portatore di una conosciuta tradizione storica di repressione dei movimenti popolari, delle comunità indigene e degli schiavi, assenza di una reale democrazia liberale, tutti fattori che finirono per rafforzare il radicamento anarchico e il sindacalismo di azione diretta in genere rispetto al socialismo e alla democrazia radicale già diffusi tra molti lavoratori immigrati.
Particolare rilievo, anche per i risvolti internazionali, ha assunto la diffusione delle idee comuniste in America Latina. Mentre João Quartim de Moraes centra il suo contributo sul comunismo e il marxismo in Brasile, sottolineando come il comunismo sia stato introdotto in Brasile prima del marxismo, proprio in ragione del predominio sopra segnalato dell’anarco-sindacalismo, e per l’influenza del positivismo fra gli intellettuali progressisti (si pensi che i fondatori del partito comunista in Brasile erano anarchici passati al comunismo in seguito all’entusiasmo suscitato dalla rivoluzione d’Ottobre), Elvira Concheiro Bórquez rilegge criticamente la questione dei comunisti e l’America Latina, lamentando come, di fronte alla poderosa costruzione ideologica dominante sia assente non solo «una rigorosa ricostruzione storica dell’esperienza comunista che attualmente, come mai prima d’ora, è possibile attuare grazie ai tantissimi documenti reperibili negli archivi comunisti aperti nell’ultimo decennio del secolo scorso; ma è necessaria una seria riconsiderazione metodologica che favorisca, tra le altre cose, la destrutturazione della connessione condivisa dalla destra e dalla sinistra dogmatica, che inizia con Marx, passa per Lenin e arriva a Stalin (e a Mao in Cina), per quanto riguarda l’emblematica personificazione del comunismo».
Ma vi è un altro concetto e/o idea politica che dalla realtà sudamericana ha assunto nuova centralità nel dibattito “occidentale” così da meritare una particolare attenzione: quella di populismo. Ad esso è dedicato lo scritto di Gerardo Aboy Carlés e Julián Melo. A ragione gli autori notano come il termine populismo si sia trasformato in una scorciatoia concettuale, che si è caricata di una pluralità di significati così ampia da finire nel servire a dire un’enorme quantità di cose implicite per il lettore. Dal loro punto di vista non credono che qualsiasi identità popolare sia populista, né pensano che il populismo latinoamericano possa essere ridotto a un discorso o a un’epoca storica. Si tratta quindi di una forma che, pur avendo concretezze empiriche definite, non si esaurisce in esse. Criticano la posizione di Laclau poiché «confonde la tensione stessa tra la parte e il tutto, tra la plebs e il populus, con il populismo, quando in realtà questo costituisce già un modo specifico di amministrare questa tensione tra altre alternative possibili». E la tensione nell’esperienza del populismo Sudamericano è quella tra aspirazione all’unità della comunità e la necessità di negoziare per allargare la propria base, dal momento che i risultati elettorali mostrano come dalla metà sino a un terzo dell’elettorato ha rifiutato, nel tempo e in diversi paesi, la proposta populista, facendo apparire come smentita categorica la pretesa di rappresentare tutta la nazione. Di fronte all’alternativa tra rottura e integrazione, il populismo, sottolineano gli autori, non parteggia né per una via né per l’altra, piuttosto si può dire le persegua contemporaneamente entrambe. Tutto l’insieme del discorso populista è marchiato dalla stessa tensione tra rottura e integrazione. Viene notato come il senso comune edificato intorno al populismo si fonda sull’idea del suo essere antidemocratico e anti-istituzionale. In realtà, ci dicono Carlés e Melo, non lo è, anzi riconfigura e costruisce schemi istituzionali che, lungi da una lettura normativa degli stessi, tende a riscrivere e intensificare la rottura politica che proclama di incarnare. Le idee e i movimenti politici di cui si è discorso si sono confrontati, sorgendo in qualche modo grazie ad essa e su di essa agendo, con l’enorme questione sociale che caratterizza l’America del Sud.
E sulla critica del sottosviluppo e sui processi di classe in America Latina si concentra il contributo di Massimiliano Piccolo, il quale, partendo dalla denuncia dell’irrazionalità capitalista, vede l’esperienza dei paesi dell’ALBA non circoscrivibile a quello di una ricerca di una via nazionale (anche perché non si tratta di un singolo paese) ma ne ravvisa un ruolo esteso a livello mondiale come tentativo di mostrare la concreta possibilità di un’alternativa al modo di produzione capitalista e alla società del capitale praticando il distacco dal capitalismo. All’interno di questa prospettiva si colloca Luciano Vasapollo nel suo saggio sulla riforma agraria nell’orizzonte rivoluzionario dei paesi dell’Alba, dove ribadisce la centralità della questione della terra, che per i popoli indigeni non è solo la base per la sopravvivenza e strumento per la lotta alla fame, ma esprime la loro stessa cultura, per poi dilungarsi approfonditamente sui percorsi di riforma agraria intrapresi a Cuba, in Venezuela, in Bolivia e in Ecuador, mentre Arnaldo De Vidi descrive la nascita e lo sviluppo del Movimento Sem Terra in Brasile, determinante per le vittorie elettorali di Lula e Rousseff, per quanto i rapporti con tali governi non sono mai stati di adesione acritica, tutt’altro.
Le esperienze storiche dei processi di emancipazione del continente Latinoamericano, la loro composizione di classe, i movimenti sociali che hanno tentato di organizzarli e portarli a compimento, le modalità organizzative di attuazione, sono stati “pensati”, ed hanno “creato” pensiero, forgiando, e nello stesso tempo rimanendo forgiate, da uomini che, a vario titolo e in epoche diverse, hanno lasciato un’impronta determinante, ancora oggi vivida, per tutti coloro che continuano a impegnarsi nel lungo cammino verso il definitivo affrancamento dalla povertà e dallo sfruttamento interno ed esterno. Numerosa è la galleria di queste figure di cui il volume si occupa, da Paulo Freire, di cui scrive Silvia Maria Manfredi, a Gilberto Freyere descritto da Peter Burke, alla Teologia della Liberazione e a Monsignor Óscar Romeo analizzati da Yves Carrier, solo per citarne alcuni. Per la particolare importanza storica rivestita meritano, a nostro avviso, una particolare segnalazione l’appassionato ritratto da parte di Pedro Pablo Rodríguez di José Martí, e i contributi di Maura Brighenti e di Michael Löwy su José Carlos Mariátegui.
Di Martí Rodríguez mette in luce i tre capisaldi del pensiero, ravvisati nell’etica del servizio, che nasce dalla tradizione cristiana assorbita nell’ambiente familiare e sociale in cui si formò da bambino, che non è però l’etica della carità individuale, ma quella del servizio per l’elevazione degli altri, seppure questo imponga sofferenza e dolore per compiere un’azione indirizzata al benessere umano; nel senso dell’autoctonia, che lo porterà a concepire la necessità di commisurare ad esso tutti gli aspetti della vita sociale e individuale. Solo la coscienza profonda di tale affiliazione lo collocherà sempre nella prospettiva degli oppressi, la terza colonna che sostiene l’architettura del suo pensiero, «trattando il tema cubano, la lotta al colonialismo in Africa e in Asia, la pianificazione della necessità di soddisfare i bisogni dell’uomo naturale americano, trascurati dall’indipendenza». Del pensatore marxista peruviano la Brighenti evidenzia il suo essere oggetto di una parabola interpretativa, vasta, dissonante e in buona misura fuorviante, sin dalla sua precoce scomparsa, nel 1930. Questo perché il suo essere radicalmente eretico ha portato, sia i suoi partigiani, sia i suoi oppositori, al bisogno di tradurre la sua eresia dentro le rassicuranti correnti ideologiche del loro tempo. Il suo frenetico consumare cultura, dalle ultime teorizzazioni in seno al marxismo europeo alle tradizioni storiche e filosofiche italiane, dai romanzi di guerra al teatro russo, dal cinema di Chaplin alla psicanalisi di Freud, rappresenta, nella descrizione proposta dalla Brighenti, «il suo grande gesto eretico, dissacrante». Dopo averne illustrato l’azione storica, dalla rottura con la Terza Internazionale della svolta staliniana per la difesa dell’Urss, che riduce la tesi di Lenin sulla Rivoluzione mondiale a una polarizzazione del conflitto tra gli Stati e i diversi blocchi imperialistici, fino ad arrivare a far coincidere gli interessi proletari con quelli nazionali, alle ripercussioni all’interno del movimento socialista peruviano, la Brighenti respinge le accuse di passatismo che sono state rivolte a Mariátegui, valorizzando il suo «indigenismo avanguardista» contro il colonialismo (anche culturale di certo marxismo schematico), per la valorizzazione delle esperienze locali, intrecciando indigenismo e avanguardismo così da rompere quel dualismo spaziale attraverso cui la modernità capitalistica ha concepito il mondo.
Il saggio di Löwy si focalizza invece sul suo marxismo eretico, di cui ravvisa profonde affinità con alcuni pensatori del marxismo occidentale come Lukács, Benjamin, Gramsci. Nel nucleo della interpretazione singolare del marxismo di Mariátegui Löwy vede un «nocciolo irriducibilmente romantico». Questo spiega, nella lettura proposta dal filosofo francese, il fascino esercitato da Sorel sul suo pensiero. Lo scelse perché il sindacalista rivoluzionario francese, fortemente critico con ogni illusione di progresso, gli serviva per combattere «la meschinità positivista e determinista del materialismo storico». L’obiettivo di Mariátegui è quello di far emergere la dimensione spirituale ed etica della lotta rivoluzionaria: «la fede (mistica), la solidarietà, l’indignazione morale, il coinvolgimento totale (eroico) che porta con sé rischio e pericolo per la vita stessa. Il socialismo per Mariátegui si iscrive all’interno di un tentativo di re-incantamento del mondo mediante l’azione rivoluzionaria».
Il volume si chiude con alcuni saggi sulla realtà attuale e sui futuri scenari che si prospettano per le realtà Latinoamericane. Yvon Le Bot vede l’America Latina come un osservatorio privilegiato per il passaggio dagli attori politico-sociali “classici” (sindacati, partiti, movimenti nazional-popolari e Stati, guerriglie rivoluzionarie, tutti organizzati e diretti da uomini) alle reti orizzontali, contemporaneamente radicate e mobili, ancorate su un territorio e interconnesse sul piano transnazionale e globale, nelle quali le donne occupano uno spazio crescente, e questo a dispetto di un’immagine, ormai antiquata, che identifica la regione con le guerriglie e le dittature militari, ormai scomparse da un quarto di secolo. Daniele Benzi ragiona invece sulla collocazione dell’America Latina all’interno del sistema mondiale in questo inizio di XXI secolo, analizzando le contraddizioni interne dell’area, con l’emergere del Brasile come potenza regionale, in relazione ai rapporti con gli Stati Uniti, alla penetrazione della Cina e alle sue conseguenze. Da ultimo segnaliamo, tra gli altri, l’analisi di Carlo Formenti sull’Ecuador, dove negli ultimi quindici anni è apparsa un’indiscutibile egemonia dei movimenti indigenisti, facendone un caso di particolare interesse, quella di Francesco Vigliarolo sull’esperienza delle fabbriche recuperate in autogestione in Argentina, e quello di Raúl Zibecchi sui movimenti sociali urbani in Brasile. Un volume, quindi, che riesce a spaziare su più piani (da quello storico a quello delle idee, da quello dei movimenti a quello dei rivoluzionari e dei pensatori più influenti, dalle dinamiche sociali a quelle geo-politiche, fino alle considerazioni su alcune esperienze di singole realtà), consentendo così uno sguardo complessivo sulle dinamiche della “nazione” Latinoamericana.