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Sciopero dei docenti: l’attuale sistema universitario umilia tutti. Intervista a Francesco Biagi

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La critica principale mossa allo sciopero dell’appello di settembre è che si tratterebbe di una protesta corporativa, interessata solo alla difesa degli interessi di portafoglio del corpo docente, quello più privilegiato nella gerarchia accademica. Se questo è un rischio, una possibile piega dello sciopero se lasciato a se stesso, a quali altri segmenti del mondo universitario parla questa protesta? Per chi può diventare un’occasione di lotta per migliorare la propria condizione dentro l’università e a quali condizioni?

Credo che questo sciopero dei docenti strutturati, per come è stato organizzato fin’ora, ha una grossa impronta corporativa. Carlo Ferraro del Politecnico di Torino ha dato impulso alla protesta sugli scatti – e ancora prima sulla VQR – senza porre la propria condizione lavorativa di strutturato in connessione con le altre parti dei lavoratori della conoscenza che vivono l’accademia. Va detto per evitare ambiguità: è legittimo questo sciopero, come è legittimo che un docente strutturato senta la propria identità lavorativa vilipesa dal blocco degli scatti e dal sistema premio-punitivo della VQR. Tuttavia mi chiedo: Come dovrebbe sentirsi – vista l’attuale situazione drammatica in cui versa l’università – ad esempio uno studente, un dottorando con o senza borsa, un assegnista o un borsista di ricerca, un ricercatore a tempo determinato? L’attuale sistema universitario non umilia e distrugge i diritti di tutti? Ci sono tante fasce precarie dei lavoratori della conoscenza che vivono nel solco di ciò che Marco Bascetta e Roberto Ciccarelli chiamano “Economia politica della promessa”. Ovvero, si è stabilizzato un sistema per cui allo studente è chiesto di essere in formazione continua, deve pagare e spendere, non arrivando mai ad una occupazione degna; purtuttavia gli viene promesso domani un qualcosa che oggi è dato con l’espediente della “formazione” (dai master alle summer o winter school a pagamento che sono un vero e proprio ladrocinio, ai cosiddetti tirocini), salvo poi ricevere le prediche di politici come Padoa-Schioppa o Michel Martone dove vengono definiti tutti “bamboccioni”.

Al dottorando invece viene detto che se è fortunato ha una borsa di tre anni, altrimenti fa il dottorato gratis, e mentre compie la sua ricerca deve ovviamente sottostare a tutte le mansioni del suo Tutor di turno ordinario o associato, ecc, fare lezioni, fare esami, correggere tesi degli studenti. Mi chiedo: quanti docenti strutturati che aderiscono allo sciopero scaricano la loro mole di lavoro sugli assistenti dottorandi e ricercatori precari, i quali spesso non hanno possibilità di vivere e mantenersi con uno stipendio dignitoso?

Guardiamo la situazione nelle nostre università: sapere che certi docenti scioperano, visto come si comportano con i loro dottorandi e assegnisti o borsisti, mi fa sorridere. Tutti sul piede di guerra adesso che toccano il loro portafoglio, salvo aver abbandonato al proprio destino le mobilitazioni moltitudinarie e insorgenti contro le riforme – da Tremonti alla Gelmini – di qualche anno fa.

Credo che la storia recente ci serva per leggere il presente e anche questo sciopero: dopo le grandi mobilitazioni è finito tutto a rotoli; hanno fatto da padrone la cooptazione, il silenzio e la radicale assenza di ulteriore riflessione generale sul sistema accademico. Come se dopo la sconfitta, avessimo tutti torto. La deriva corporativa susseguitasi è stata (ed è) distruttiva. Arriva infatti il buon Ferraro, che parte da posizioni ragionevoli, il cui tema rilevante però è esclusivamente la storia degli scatti (quella a mio avviso meno rilevante) e produce una serie di mobilitazioni contro la VQR, mischiando buone idee al peggior baronato accademico. Diversi aderenti a Pisa, quando facevamo la mobilitazione contro Tremonti e la Gelmini, ci guardavano con paternalismo come “i ragazzi che rompono le palle” e non hanno mai preso una posizione chiara. Mi fa uno strano effetto vederli ora sulle barricate per lo scatto stipendiale. La Valutazione della Qualità della ricerca in Italia è un disastro soprattutto per dottorandi e ricercatori precari, infatti crea uno stato di natura hobbesiano per cui sei alla continua ricerca della pubblicazione nella rivista di Serie A, al fine di – in seguito – riuscire ad avere un buon punteggio ai concorsi post-dottorato. Basti pensare che un gruppo di dottorandi o giovani ricercatori non può fondare una rivista accademica senza avere almeno il 90% di strutturati in redazione. Cosa significa? Che la filiazione baronale è la struttura portante del sistema universitario. Il movimento dei docenti strutturati che sciopera è disposto a rimettere in discussione in blocco questa microfisica del potere?

Il sociologo Pierre Bourdieu in “Homo Academicus” diceva che il docente universitario è “frazione dominata della classe dominante” e – a sua volta – riproduce la gerarchia oppressiva. Noi – studenti e ricercatori precari – parte più oppressa non dobbiamo farci illusioni, purtuttavia dobbiamo essere il pungolo più fastidioso dello sciopero degli strutturati. Dobbiamo far emergere tutte le contraddizioni, nel tentativo di far ripartire una mobilitazione seria, di “alta politica”, non corporativa. Karl Marx ne “Le lotte di classe in Francia” riguardo all’insurrezione francese del 1848 scrive: “Ogni rivoluzione ha bisogno di una questione di banchetti. Il suffragio universale è la questione dei banchetti della nuova rivoluzione.” Mi auguro che questo sciopero possa trasformarsi per la componente universitaria più debole e vessata nella nostra “questione di banchetti” che funge da scintilla per qualcosa di più grande. Non pretendo “la rivoluzione”, ma almeno la capacità di guardare al di là del proprio ombelico. Altrimenti sarebbe tempo sprecato.

C’è un universo di precarietà che costella il sistema universitario. Parlaci delle difficoltà che hai incontrato nel tuo percorso formativo e della tua condizione attuale.

Innanzitutto ringrazio “InfoAut” per questo lavoro d’inchiesta che sta proponendo. Venendo alla mia situazione: mi sono laureato nel 2012 a Pisa con un docente che stimo moltissimo, purtuttavia sapevo che non avrebbe potuto aiutarmi – in termini di potere e opportunità – nella carriera accademica. D’estate ho quasi sempre lavorato, quello che trovavo: dal panettiere la mattina presto all’operaio in una impresa che montava tensostrutture per festeggiamenti e, in seguito, il cameriere nei catering. Nell’anno tra settembre 2012 e settembre 2013 ho tentato – a tappeto – diversi concorsi di dottorato. Non avevo “raccomandazioni”, andavo lì e me la giocavo. Ho passato un anno a studiare per i diversi concorsi (tra filosofia politica e sociologia) e nel mentre facevo il cameriere in un catering di Pisa, poi consegnavo verdura biologica a domicilio con un risciò. Il catering mi pagava le otto ore in regola con i vaucher, le altre ore era in busta a nero. Era un’impresa che si mascherava per mezzo della forma della “cooperativa”, un metodo ormai diffuso attraverso il quale hanno svuotato di senso le poche istituzioni lavorative che il movimento operaio si era dato nell’autogestione. Il lavoro di fattorino invece era a cottimo e su ogni cassetta che consegnavo mi venivano date 3 Euro (lorde). Ovviamente i clienti dovevo trovarmeli io e il tempo perso nella pubblicizzazione era lavoro gratuito, la cosiddetta “economia politica della promessa”. Arrivati i mesi di settembre e ottobre 2013 giungono le date dei concorsi e negli scritti conquisto sempre il primo o il secondo posto. All’orale invece “mi fregano” con domande assurde e nella graduatoria finale sono sempre il primo dei senza borsa. Con due genitori insegnanti e due fratelli più piccoli all’università non potevo permettermi un dottorato senza borsa e in ogni caso non lo avrei mai accettato, credo sia una forma di schiavismo che fa rigettata fin da subito. Piuttosto sarei andato all’estero, abbandonando Pisa. Per pura fortuna, a metà novembre del 2013 ricevo una telefonata dalla segreteria che ho vinto la borsa nel dipartimento di scienze politiche di Pisa, un altro candidato aveva rinunciato al posto. La gioia è stata indescrivibile, potevo studiare e fare ricerca per tre anni con mille euro al mese.

Devo ammettere che sono stato fortunato anche in un’altra cosa: la mia tutor è una ricercatrice a tempo indeterminato e mi ha sempre lasciato molto libero nella mia ricerca sul pensiero di Henri Lefebvre e il “diritto alla città”. Non mi ha mai chiesto mansioni ulteriori che spesso tolgono tempo alla propria ricerca e nelle occasioni in cui ho supportato la sua didattica e la sua ricerca, c’è sempre stato un riconoscimento franco, dal un lato nel mutuo aiuto e dall’altro nella possibilità di mettere alla prova le mie capacità. Credo che da questo punto di vista la mia situazione sia molto rara. Le voci che sento dai colleghi di tutto l’Ateneo (e di tutta Italia) sono molto diverse.

Sul mio dottorato rimprovero la scarsa qualità dei seminari, spesso fatti da conoscenti di conoscenti che passano per la nostra città. Non c’è una seria progettualità nella formazione, visto che il dottorando – secondo la carta europea del ricercatore – è un ricercatore in formazione. Sono stati pochi i momenti di autentica qualità. Inoltre, i tagli hanno accorpato materie così diverse che ad esempio si arriva ad avere un “minestrone” di dottorato che si chiama “Sociologia, storia e cultura politica”. Le materie più varie unite assieme, di contro l’accademia poi nei concorsi post-dottorato ti chiede codici, settori e specializzazioni. Devo dire – tuttavia – che il mio dipartimento perlomeno lascia molto liberi noi dottorandi nella ricerca. Una libertà che però ha un’altra faccia della medaglia: quella dell’abbandono. Per molti di noi procurarsi una co-tutela o un soggiorno all’estero è molto difficile e sei in balia di te stesso. Ugualmente terminato il percorso non c’è futuro, l’aria che tira è quella di cercare concorsi altrove. L’università italiana, di fatto, forma ricercatori che poi disperde o che abbandonano la ricerca. Basti pensare che più del 90% degli assegnisti sarà espulso dall’università.

Io sono l’ultimo ciclo che ha avuto la possibilità dell’anno di proroga, tuttavia non è pagato. Di fatto, come dottorando, ti viene chiesto di fare convegni, di pubblicare il più possibile e anche – ovviamente – devi fare ricerca e studiare, tuttavia – molto spesso – tutte queste mansioni non coincidono con la tua tesi. Tu cerchi ti tenere un filo, ma devi anche cogliere il più possibile le opportunità che ti si presentano per costruire un buon curriculum. Non c’è altra scelta. Per cui tre anni non bastano. L’ultima riforma del dottorato ha tolto la possibilità di proroga e chi ha potuto, atenei come il Sant’Anna o la Scuola Normale di Pisa, ha riorganizzato i dottorati in 4 anni tutti pagati. La statale, con meno possibilità, comprime e crea una continua rincorsa contro il tempo. Va ricordato che in Europa i dottorati durano minimo 4-5 anni, sicuramente non 3 anni come in Italia. Dovrei quindi ritenermi fortunato ad avere il quarto anno da dedicare alla scrittura della tesi, tuttavia i risparmi della borsa finiscono e devo trovarmi un lavoro. A settembre 2016, mi assume un’associazione che lavora nelle scuole elementari. Con un contratto di ritenuta d’acconto al 20% lavoro da settembre 2016 a giugno 2017 con turni diversi pagati 12,50 Euro lordi (netti 10 Euro l’ora, non male visti i tempi!). Ogni mattina mi sveglio alle 6.30 e dalle 7.30 alle 8.20 accolgo in palestra i bimbi che hanno i genitori che lavorano presto, prima dell’apertura normale della scuola: si chiama “Pre-Scuola”. Poi torno a casa, bevo un altro caffè e mi metto a lavorare al computer per il mio dottorato. Più di rado, ma per alcuni mesi molto più spesso, dalle 13 alle 17 ritornavo a scuola a fare assistenza in mensa e al dopo-scuola dove i bambini facevano i compiti con noi educatori. Se non avevo questo turno, dovevo tornare solamente dalle 16.10 alle 17 per il “Post-Scuola”, ovvero intrattenevo i bambini che hanno i genitori che finiscono il lavoro più tardi e non possono prenderli al suono della campanella del tempo pieno. Nei ritagli di tempo, portavo avanti la scrittura della mia tesi. Si conclude l’anno scolastico e si preannuncia un’estate da fame: senza lavoro. Tuttavia arriva una sorpresa qualche giorno prima della fine della scuola, i primi di giugno: con una email, il Presidente dell’associazione per cui lavoravo comunica che ha dei problemi di bilancio e vuole tagliare lo stipendio riducendo la paga. Mi indigno fortemente, pur millantando valori democratici, statuti dell’associazione e tessere, ecc non viene convocata nessuna assemblea dei “soci” (il lavoratore è mascherato da “socio”) e con una email si comunica la riduzione dello stipendio. Protesto e litigo fortemente con il responsabile e i miei colleghi, i quali – purtroppo – erano d’accordo con la riduzione. Mi viene detto che “sono ideologico”, che vedo il mondo diviso fra padroni e lavoratori e che questa non è la situazione dell’associazione (sic!). Come se questi lavori esternalizzati e regolati dai bandi al ribasso fossero il migliore mondo possibile dopo il secolo scorso, “brutto” periodo di conflitto di classe. La cosa più triste è stata il ritrovarmi solo, il non essere riuscito a far comprendere il mio punto di vista ai miei colleghi di lavoro con i quali ho dovuto rompere i rapporti per motivi di dignità personale. La questione si conclude così: nel giro di tre-quattro giorni ricevo il pagamento completo dell’ultimo mese di lavoro, ma vengo cacciato dall’associazione, quindi dal posto di lavoro. In seguito, tramite conoscenze, trovo un altro lavoro in un catering e fino a metà settembre ho delle serate che mi garantiscono una relativa indipendenza economica, tuttavia spesso devo scegliere se comprarmi un libro o uscire la sera. Un po’ i miei genitori mi aiutano, tuttavia a quasi trentun’anni vorrei provare a farcela da solo. I miei prossimi obiettivi sono concludere il dottorato e concludere altre pubblicazioni che ho pendenti. Appena sono dottore di ricerca dovrò mettermi alla ricerca di un concorso post-doc e credo proprio che guarderò fuori dall’Italia. Qui purtroppo non c’è futuro per chi vuole fare ricerca “senza padri e padrini”. Un’altra opzione, mentre sarò alla ricerca dei concorsi, è quella di prendermi una seconda laurea per l’insegnamento nelle scuole superiori. Purtroppo con la mia laurea in scienze politiche non posso accedere all’insegnamento. Economicamente, non so che ne sarà di me conclusa la stagione estiva del catering. Sono alla ricerca di altri lavori da fine settembre in poi. È bene ricordare che il mio ciclo di dottorato è l’ultimo ciclo che non ha diritto alla disoccupazione dell’INPS, pur avendo pagato ogni mese più di 200 Euro alla gestione separata dell’INPS. Viviamo in una situazione per cui la borsa di dottorato è tassata come un contratto di tre anni a tempo determinato, tuttavia – siccome è una “borsa” – non sei considerato lavoratore a tutti gli effetti. La situazione è talmente drammatica che devi lottare anche per essere considerato un lavoratore. La vulgata più diffusa infatti è considerare il “dottorando” come uno “studente” che si sta specializzando più di altri, quando il dottorato dovrebbe essere – invece – il primo livello della ricerca universitaria.

La mia situazione sociale è simile a molti altri precari lavoratori della conoscenza. Non voglio essere considerato né un eroe né avere appiccicato lo stigma del “bamboccione”. Sono le condizioni materiali del sistema neoliberista che ci rendono così subalterni e ci fanno vivere letteralmente vite “che sono un grosso disastro”. Negli ultimi tempi ho dovuto ridurre drasticamente anche il tempo per fare politica. Devi dire di no, perché devi correre a destra e a sinistra fra lavoro (per campare) e i doveri del dottorato, per cui a volte delle cose non le puoi fare.

Il dramma della nostra generazione è l’invisibilità che fatica a trasformarsi in solidarietà e capacità di tessere reti di lotta e insubordinazione. Ti succhiano il tempo. Siamo concretamente dei “nuovi proletari”, abbiamo avuto certamente delle possibilità offerte dal clima economico in cui le nostre famiglie sono cresciute alla fine del Novecento, tuttavia ora ci vengono sbarrate tutte le strade. Proprio tutte. A volte penso che “non abbiamo da perdere che le nostre catene”, tuttavia è veramente dura da spezzare la “servitù volontaria” di quelle catene.

Infine, concludo: come vuole misurarsi il movimento dei docenti strutturati rispetto a esempi di vita come la mia? Senza vittimismi eh! Viviamo “la miseria del mondo” che descrivono Pierre Bourdieu e Loic Wacquant con il loro gruppo di ricerca di sociologia nel celebre volume. Il quesito radicale è come mai gli strutturati che fino a ora, nella gran parte, hanno costruito il sistema che ci opprime da veri e propri ambasciatori delle contro-riforme universitarie, ora si mobilitino solo per la propria fascia. Se abbassiamo tutti le spade che abbiamo affilato, ci state a costruire una mobilitazione grande e collettiva che “stani” il governo?

Francesco Biagi è dottorando in Scienze politiche e sociali presso l’Università di Pisa1

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