Ambiente Tecnica Società. Rivista digitale fondata da Giorgio Nebbia

Transizione energetica: l’Europa, vaso di coccio tra USA e Cina

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L’impero celeste, forse il più longevo che la storia ci abbia consegnato, e l’impero americano, la più estesa talassocrazia di sempre, forse ancor più di quella Britannica, sono oggi, secondo le parole di qualche autorevole esperto di politica internazionale, sull’orlo di una inevitabile1guerra. Da tempo ormai la trappola di Tucidide2è assurta a topos ricorrente in numerose riviste statunitensi di politica internazionale, come se si trattasse di un ciclo ineluttabile della storia il cui fato è già segnato. Uno dei campi di battaglia di questa infausta guerra è anche la questione ambientale, e quella energetica ad essa collegata. Gli Americani accusano i Cinesi di essere i più grandi inquinatorie i Cinesi ribattono che questi hanno poca memoria3 e ancor meno senso dell’equità4; ma soprattutto, i due grandi contendenti, il cielo ed il mare, si spartiscono gran parte delle risorse e tecnologie, del passato, del presente e del futuro, che determinano il carattere energetico, ovvero il metabolismo, di un’economia, di ogni economia. L’uno è, a dispetto della collocazione fisica dei giacimenti, l’impero del petrolio, poiché in dollari è venduto gran parte del petrolio. L’altra lo è delle rinnovabili, a dispetto della persistenza del carbone nel suo mix energetico, poiché nel mercato mondiale occupa un posto dominante5 nelle catene del valore sia delle materie rare e degli altri fattori, sia dei prodotti tecnologici.

Per ragioni accademiche mi trovo a dover visitare entrambi i paesi in un breve lasso di tempo e in entrambi i casi il tema di queste visite concerne la transizione energetica. La prima visita mi porta al MIT di Boston per un workshop ed una conferenza e la seconda ad Hangzhou per un convegno degli otto progetti sino-europei su mobilità urbana e sostenibilità, dei quali anche noi siamo partner. Questo periplo intorno ai poli della geopolitica mondiale mi offre l’occasione per svolgere alcune riflessioni che vorrei condividere con i lettori di “Altronovecento”.

Un gruppo di circa una dozzina di professori e ricercatori della Università di Groningen, Olanda, viene invitato dal prestigioso MIT di Boston per partecipare a un workshop sull’impatto della ricerca in due temi principali: transizione energetica e salute pubblica in una popolazione in invecchiamento. Insieme a noi c’è anche un pool di avvocati che, apprendo, deve negoziare dei non ben definiti “contratti” tra le due università. Capisco subito di non essere l’unico ad ignorare la ragione dell’invito e lo scopo del workshop, il quale si svolge senza lode e senza infamia, intorno ai temi energetici, nel mio caso. L’unico fatto che merita una menzione è la presenza nel mio gruppo di lavoro di un fisico del MIT dal quale apprendo che il più grande problema, tuttora irrisolto, della ricerca sulla fusione nucleare è la produzione industriale ed economica di trizio. Notizia che appanna il mito della cornucopia della fusione nucleare e che mi restituisce ad una visione ben più pragmatica e sobria sul futuro di questa fantomatica tecnologia.

Nel terzo giorno si tiene la conferenza annuale del MIT Energy Initiative, che riunisce il gotha della finanza, dell’industria e della ricerca in campo energetico. Secondo lo stile americano, le sessioni si svolgono con poche e snelle presentazioni e molto spazio dedicato al dibattito, con un moderatore e due o tre invitati illustri. Il tono della discussione lo fissa subito Andrew Lo, autorevole professore di finanza del MIT Sloan, che con gioiosa baldanza ci invita a licenziare il concetto di energy transition a favore di quello di energy addition, alludendo non solo alle nuove, prevedibili tecnologie da aggiungere a quelle presenti, ma anche facendo appello al desiderio inconscio di rappresentare la transizione come una frontiera in espansione piuttosto che in contrazione (i fautori della decrescita da queste parti non hanno dimora). Sempre con tono roboante detta anche le quattro grandi aree tematiche che modelleranno la futura transizione (o addizione, che dir si voglia): nucleare di fissione (di piccola e media taglia), nucleare di fusione, CCS (cattura e sequestro del carbonio) e idrogeno. Senza fallo, gran parte degli interventi ruoteranno intorno a questi temi, salvo qualche folcloristica divagazione sulle fonti rinnovabili. Dopo un vibrante dibattitto tra fusionisti e fissionisti, che ha visto i primi presentare gli ultimi progressi (segnatamente, USA e britannici) verso la imminente soluzione di tutti i problemi energetici e ambientali per il genere umano ed i secondi ribattere con sardonico senso pratico e mostrare le ultime meraviglie in fatto di centrali di piccola taglia (la “vera svolta”), con reattori da 1 a 10 megawatt, grandi come un container e capaci di produrre elettricità ininterrottamente per decadi6 (si sottolinea: ininterrottamente), David Dankworth, Hydrogen Technology Portfolio Manager dell’ ExxonMobil Technology and Engineering Co, ci illustra il businessplan di Exxon per la transizione: idrocarburi, CCS e idrogeno. L’idrogeno, si dice, salverà l’economia del benessere e la salute dell’ambiente, ma salverà anche (ma non si dice) le riserve, accertate e non, di petrolio e gas grazie al CCS. Così, d’un tratto, un sospetto mi coglie circa le misteriose trattative svoltesi in parallelo al nostro workshop tra gli avvocati dei due istituti. Che esse non avessero proprio questo come oggetto, l’idrogeno? L’Olanda e Groningen infatti si candidano ad essere un hub europeo del futuro network dell’idrogeno in virtù delle pregresse infrastrutture energetiche e finanziarie (lo sono infatti già del gas) e non mi sorprenderebbe che il MIT aspirasse a divenirne un partner strategico, sia scientifico che economico, di questo futuro mercato. Ancor più oggi che i vecchi partner e soci, come Gazpron, sono costretti a cedere il passo.

Lasciando al tempo il verdetto sulle mie congetture, la geopolitica si manifesta comunque nella conferenza in molteplici circostanze e con variegate sfumature, particolarmente vivide e frequenti nei confronti della Cina ancor più che della Russia. La Cina, infatti, pur non figurando in nessun modo tra i relatori, si aggira come uno spettro. L’India invece è molto presente, forse non soltanto perché TATA, la più importante industria automobilistica indiana, figura tra i grandi finanziatori del MIT, ma anche perché gli strateghi americani hanno individuato l’India come il ventre molle dei BRICS, il paese che può essere concupito e strappato all’“asse del male”. A domanda diretta, Ganesh Das, un alto papavero di TATA, interrogato sul perché l’India si “fidi della Cina”, risponde salomonicamente che non si tratta di fidarsi o affidarsi, ma di transitare da un mondo di “dipendenze” a un mondo di “interdipendenze”. Questo è il paradigma dei BRICS, opposto a quello dell’Impero:penso tra me e me e mi dico che se una transizione, quella energetica, è ancora incerta nel suo destino, un’altra è già reale e in pieno corso, anche se fatichiamo ad ammetterlo, noi occidentali. A mia domanda diretta, Suzanne Berger, direttrice del Dipartimento di Scienze Politiche del MIT, su come avrebbe potuto il dollaro preservare il suo status di moneta di riserva mondiale una volta che, a transizione energetica avvenuta, non avrebbe avuto più il petrolio come collaterale (il dato attuale che il 90% del petrolio sia venduto in dollari garantisce di fatto una convertibilità tra dollaro e petrolio), lei, interdetta e forse spazientita, risponde, con molta sicumera, che “all’orizzonte, nonostante tutti gli sforzi dei BRICS, ancora non si vede alcuna valuta in grado di sostituire il dollaro sui mercati mondiali”. Come diceva Baudrillard, quando l’orizzonte scompare, allora spunta “l’orizzonte della scomparsa”. Chissà, forse ci stiamo già affacciando all’orizzonte della scomparsa, ma preferiamo volgerci indietro.

Finisce la conferenza un ciclo di interventi da parte di studenti del MIT, tra i quali, uno infuocato da parte di un giovane militante della causa climatica che con tono accusatorio elenca tutti i pingui finanziamenti da parte della industria petrolifera ricevuti dal MIT. Segue uno scroscio di applausi, forse anche da parte del delegato EXXON, il quale, come tutti, non ha remore a mostrare il suo committement per la causa climatica. Da lì a poco sarebbero venute le proteste studentesche per la Palestina e avrebbero ricevuto ben altro encomio.

Hangzhou è una città (metropoli secondo i nostri standard) a duecento chilometri da Shanghai, famosa per il suo lago. Ciò che sorprende un visitatore europeo come me è, oltre alla sterminata selva di palazzoni e grattacieli, l’assenza di un centro e dunque di una periferia, malfamata o degradata, giacché il reddito è omogeneamente distribuito sul tessuto urbano, ed è la quiete che regna grazie alla prevalenza di mezzi elettrici, a due e quattro ruote, a dispetto del traffico intenso. Ingorghi silenziosi e inodori, che provocano qualche dubbio anche ad uno scettico della mobilità elettrica come me, poiché non posso non ammettere che la scena che si dipana è quella di una città, sebbene ancora a dimensione di automobile, molto più vivibile. Il convegno è scandito dai sublimi riti cinesi, come quello del the verde che viene costantemente rabboccato a tutti i partecipanti da uno zelante cameriere, ma langue nella discussione poiché non riesce a penetrare la coltre di cortese consenso asiatico che come un mantello avvolge ogni intervento. Vige un’unanimità accademica e di maniera circa gli obiettivi e le misure necessarie per raggiungere una mobilità sostenibile e le immancabili colpe della politica e via dicendo. Io provo a gettare un sasso nello stagno e indico come uno dei maggiori ostacoli alla cooperazione tra Europa e Cina sia quello della condivisone dei dati poiché il crescente clima di ostilità politica dissuade molti operatori privati e amministratori pubblici dal condividere ogni informazione con partner cinesi. Solo nei gruppi di lavoro di ogni progetto la discussione diventa più schietta. Nel nostro gruppo si giunge ben presto al cuore della questione: la condivisione dei dati. Il progetto di una mobilità sostenibile ed integrata, in epoca digitale, necessita infatti che tutti gli attori, pubblici e privati, condividano i dati. In Cina il problema è facilmente risolto poiché l’autorità pubblica è committente di tutti i servizi, dunque anche il depositario di tutti i dati: quando un operatore privato intende entrare nel mercato deve condividere i dati con essa. In Europa non è così e l’esempio di Groningen è paradigmatico. L’autorità competentedi Groningen ignora persino i dati del trasporto urbano pubblico che, pur essendo tutti digitalizzati perché in Olanda si usa una carta personale apposita (OV-chip) sia per bus, treni e shared mobility (bici, scooter e auto), sono di proprietà di una azienda privata, la Translink, che è riluttante a condividerli per timore della concorrenza. L’omertà sui dati è tale che Groningen, comune che ambisce a diventare carbon free prima del 2030, basa le stime delle sue emissioni urbane sui dati forniti da Google, sebbene nessuno sappia come questo faccia a redigere tali stime (sospetto che riesca a leggere il GPS degli smart phone da remoto). Mentre in Europa Google ha in appalto sempre maggiori servizi essenziali (incluso il sistema informatico della mia Università), in Cina è bandito; ma per i Cinesi, mi pare di constatare, il fatto che sia lo Stato a gestire i dati è cosa rassicurante, a differenza nostra che, ormai, tendiamo a diffidare dello Stato e confidare nel privato. E mentre ricordo che da bambino nessuno diffidava dell’acqua del rubinetto o delle fontane, paragono questa evoluzione morale a quella avvenuta con il nostro rapporto con l’acqua. In Cina si beve ancora acqua dal rubinetto.

La rituale cena conviviale si svolge in un lussuoso albergo di Hangzhou. Parcheggiato davanti all’entrata principale fa bella mostra un nuovo e fiammante SUV elettrico cinese, tutto nero, con due bandiere rosse sul cruscotto, quella della Cina e quella del Partito Comunista. Mi rammenta la conversazione avuta il giorno dianzi con Kang, assegnista di ricerca nel mio gruppo e membro del Partito, sul destino del PCC. Mi spiega che non tutti possono iscriversi al partito, che annovera circa il 10% della popolazione, e la selezione avviene per meriti scolastici o civili (il compimento di “buone azioni”), tipicamente in giovane età, ma che sempre più ricchi vi accedono. Kang, invece è figlio di un operaio e di una casalinga a differenza degli altri membri del Partito presenti al convivio che appartengono per lo più alla classe media. Con sarcasmo velato mi guarda e mi dice che il problema sarà quando i membri del Partito saranno tutti ricchi. Nella hall dell’albergo è appeso un ritratto di Kissinger tra l’esposizione degli ospiti illustri. La cena è squisita come al solito e ad un certo punto scorgo una giovane ricercatrice, Xiantong, allontanarsi trafelata e nervosa. Va a fare il colloquioper essere ammessa nel PCC, mi spiegano, e per questo è nervosa. Incuriosito chiedo su cosa potesse vertere il colloquio, immaginando domande sul Libretto Rosso di Mao o sul Capitale di Marx. No, le chiederanno le sue motivazioni per voler entrare nel PCC. Ebbene, propongo un brindisi di augurio per Xiantong e di mettere in calendario un bel dibattito su Marx ed ecologia per il prossimo meeting generale del nostro progetto. Quest’ultima proposta viene ben accolta, con sorpresa, dai colleghi Polacchi, mentre i Cinesi mi guardano interdetti. Sì, Marx, ripeto io. Zahian, che ha una posizione permanente nella prestigiosa UCL di Londra, iscritta al Partito e figlia di un “professorone” di Pechino (e presente alla conferenza non si sa bene a quale titolo poiché non partecipe ad alcun progetto), mi si avvicina e mi chiede perché volessi parlare della Tesla. “Tesla?”, chiedo io stupito. “Sì, perché vuoi parlare di Musk?”, mi chiede. Musk, in inglese, si pronuncia mask e l’equivoco è servito, meglio di come avrebbe potuto vergarlo Plauto o Moliere.

1 Includo qui alcuni esempi di articoli estratti da alcune delle più autorevoli organizzazioni o testate di politica internazionale statunitensi.

https://foreignpolicy.com/2024/02/04/china-war-military-taiwan-us-asia-xi-escalation-crisis/

https://www.nbcnews.com/politics/national-security/us-air-force-general-predicts-war-china-2025-memo-rcna67967

https://www.foreignaffairs.com/china/united-states-big-one-krepinevich

https://www.thenation.com/article/politics/is-a-war-with-china-inevitable/.

2 F. Lucenti, The ‘China Threat’: Stereotypical representations in the US competition with China, in “International Politics” (2024), pp. 1-19.

3 Se si considerano le emissioni cumulate dal 1750 ad oggi, gli USA potrebbero valere il 25% del totale, mentre la Cina solo il 12%. Fonte: https://ourworldindata.org/contributed-most-global-co2

4 A dispetto del fatto che le emissioni totali della Cina siano quasi il doppio di quelle Americane, quelle pro capite della Cina sono di 8t annue, mentre quelle Statunitensi sono di 15t, calcolate sulla base della localizzazione della produzione, perché se venissero calcolate sula base del consumo, la divergenza sarebbe ancora più ampia. Fonte: https://ourworldindata.org/co2-emissions.

5 https://www.bloomberg.com/news/newsletters/2024-04-16/china-extends-clean-tech-dominance-over-us-despite-biden-s-ira-blueprint

6 https://www.youtube.com/watch?v=jopxYozwtqE.

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