Il presente articolo è stato pubblicato sulla rivista GAIA a cura dell’associazione AlterNative (www.alternativeaps.org)
La tematica dei “migranti climatici/ambientali” è sempre più di dominio pubblico. Tuttavia la relazione tra migrazioni e problematiche ambientali è più difficile da trattare di quel che possa sembrare. In questo articolo mi propongo di illustrare brevemente alcune di queste problematicità e di abbozzare, nel mio piccolo, alcune proposte di analisi del fenomeno. Queste, nella loro incompletezza e parzialità, mi pare evidenzino la necessità di una lettura critica del rapporto migrazioni-crisi climatica/ambientale. In altre parole: è sempre più necessaria una ecologia politica delle migrazioni.
Indice
Migranti Climatici/ambientali: Problematiche di definizione e riconoscimento
Il primo ordine di problemi sta nella definizione stessa del fenomeno dei migranti climatici/ambientali. Infatti i termini migrante climatico/profugo climatico, seppur ampiamente utilizzati, non si fondano su una norma condivisa del diritto internazionale. Come evidenzia l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati1 il “rifugiato climatico” non rientra nella definizione della Convenzione di Ginevra, che individua il rifugiato come colui che attraversa una frontiera internazionale “a causa del fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per un’opinione politica” (Convenzione sui rifugiati di Ginevra 1951). Un’eccezione interessante, che mi pare valga la pena segnalare, è data dall’Unione Africana (continente con enormi flussi di migrazione sia interna che esterna). Essa infatti nella Convenzione di Kampala del 2012 per la protezione e l’assistenza degli sfollati interni riconosce il cambiamento climatico come disastro “provocato dall’uomo” alla base di fenomeni di migrazione2.
È quindi innegabile come le migrazioni odierne siano correlate anche a fenomeni quali uragani, siccità, carestie, inondazioni (etc); e sebbene questi fenomeni siano di per sé sempre esistiti, il loro aumento in numero ed intensità negli ultimi decenni è certamente correlato con la crisi climatica di origine antropica. Le persone che migrano oggi lo fanno anche per le conseguenze della crisi climatica, che rendono inabitabili le proprie aree di residenza e/o compromettono interi sistemi agricoli ed economici locali.
Vi è inoltre un’ambiguità nelle definizioni in sede di diritto internazionale in cui l’accento viene posto soprattutto su coloro che sono vittime di calamità (naturali e/o climatiche), e non tanto di processi di marginalizzazione/impoverimento su base socio-ambientale. Un’attenzione specifica a quest’ultima prospettiva è invece il tratto distintivo degli studi di Ecologia Politica3 e ciò implica l’analisi di processi più ampi e complessi (anche da un punto di vista geografico) nel trattare il tema delle “migrazioni ambientali/climatiche”, invece che correlarle a specifici eventi calamitosi in una data zona.
Migranti climatici/ambientali: alcuni numeri
Ma quanti sono i migranti climatici/ambientali? Vi sono molteplici stime elaborate da diverse istituzioni e centri di ricerca; secondo uno studio del 2022 una cifra tra i 3,3 e i 3,6 miliardi di persone vivono in contesti di estrema vulnerabilità ai cambiamenti climatici4, ovvero oltre il 40% della popolazione mondiale5. L’Internal Displacement Monitoring Centre stima invece che “una media 25.3 milioni di sfollati sono stati causati ogni anno dal 2008 ad oggi a causa di disastri (ambientali nda)” mentre nel solo 2016 “24.2 milioni di rifugiati sono stati causati da calamità naturali improvvise in 118 paesi, superando di tre a uno i nuovi sfollamenti associati a conflitti e violenze”6. Anche le previsioni inerenti le migrazioni interne sono impressionanti; secondo il Rapporto Groundswell della Banca Mondiale: “il cambiamento climatico, è un fattore di migrazione sempre più potente, potrebbe costringere 216 milioni di persone in 6 regioni del mondo a spostarsi all’interno dei loro Paesi entro il 2050”7.
Queste stime ci danno un’idea della portata del fenomeno, ma sono appunto delle previsioni, le quali risentono inevitabilmente delle diverse metodologie adottate nel “leggere” il fenomeno. Ad esempio: le popolazioni rurali che, impoverite da processi di desertificazione o di invasione di specie alloctone, migrano verso le aree urbane in cerca di lavoro, sono considerati migranti climatici o economici? Un primo punto critico, al di là dei numeri, è quindi considerare che riguardo ai migranti climatici/ambientali vi è innanzitutto un problema di definizione e (quindi) di riconoscimento.
Migranti Climatici/ambientali: problematiche di metodo nella lettura del fenomeno
Come abbiamo visto vi è un problema di univoca definizione e riconoscimento nell’ambito del diritto; ma vi è anche un fondamentale problema di metodo, ben noto agli studiosi delle migrazioni8, che rende difficile cogliere e descrivere il fenomeno. Si può infatti dire, in estrema sintesi, che le classiche “chiavi di lettura” dei fenomeni migratori si basano sulle intenzioni/aspirazioni/bisogni che muovono il soggetto nella costruzione del proprio progetto migratorio. In estrema sintesi si considera la motivazione che il soggetto dichiara essere alla base del proprio progetto migratorio; ciò è assolutamente comprensibile da un certo punto di vista, ma da un altro punto di vista rende più difficile cogliere le “implicazioni socio-ambientali” di un percorso migratorio, perché lega tali implicazioni al grado di “consapevolezza ecologica” del soggetto stesso.
Insomma, ben pochi migranti definiscono sé stessi come “profughi/migranti ambientali”, anche perché raramente vi è una consapevolezza piena del legame tra il fenomeno globale della crisi climatica e le problematiche locali, ad essa in vario modo correlate, che hanno spinto i soggetti a migrare. E in questo senso la complessità e trasversalità (sociale, economica, territoriale, biologica..) delle problematiche ambientali rende molto complesso il “districare” i diversi nessi causali che possono essere alla base di un percorso migratorio. È il caso ad esempio di molti migranti del Bangladesh9, che in patria erano contadini e che hanno intrapreso migrazioni (interne o esterne) a fronte di una agricoltura “che dava sempre meno da vivere”. Se chiediamo a queste persone “perchè migrano”, probabilmente risponderanno “per cercare lavoro”, il che farebbe di loro dei “migranti economici”. Ma se inquadriamo la loro condizione di soggetti (ulteriormente) impoveriti dagli effetti del climate change sull’agricoltura della loro zona, queste persone possono essere considerate “migranti in virtù di conseguenze della crisi climatica”. Sono in un certo senso dei migranti climatici inconsapevoli.
La narrazione mainstream dei migranti climatici
La questione migratoria in relazione alla crisi ambientale, oltre a problematiche di metodo, pone anche questioni, strettamente politiche, di narrazione. In un interessante articolo collettaneo del 2019 scritto da un gruppo di ricercatori, dal titolo emblematico “Climate migration myths”10, si evidenziava come la narrazione mainstream sui migranti ambientali abbia la – pericolosa – tendenza ad essere al contempo allarmistica ed ideologica.
Nella narrazione “allarmistica in chiave securitaria” le migrazioni di massa dovute ai cambiamenti climatici vengono viste per lo più come fattore destabilizzante, di rischio per la sicurezza degli stati. Una narrativa che fa da presupposto alla promozione di politiche “di sviluppo” (ovvero di investimento economico-finanziario) nei paesi di emigrazione per contenere il problema “all’origine”. In altre parole: lo spauracchio delle migrazioni di massa per legittimare ulteriori pratiche di neocolonialismo e sfruttamento aggressivo di territori e popolazioni. Sia l’Unione Europea, che il Dipartimento di Difesa statunitense, che l’Australia hanno politiche securitarie di controllo dei confini che fanno esplicito riferimento ai migranti climatici come fattore di insicurezza. Estremizzando il concetto abbiamo molti claims dei movimenti xenofobi di estrema destra riguardo “all’invasione” di “ondate umane” di “milioni di profughi”.
Nella narrazione “ideologica” abbiamo una narrazione politicizzata e non basata su seri dati empirici e analisi scientifiche; ciò crea un cortocircuito per cui “la politica migratoria continuerà a basarsi su prove scientifiche deboli che rafforzano il mito auto-alimentato della migrazione dovuta al cambiamento climatico come una crisi di sicurezza incombente”11. In questo senso vanno lette politiche della migrazione che hanno fondamentalmente l’obiettivo di tenere i –potenziali- migranti nei propri paesi di origine. In ciò si evidenzia una scarsa considerazione di quello che molti studi sulle migrazioni ci dicono, ovvero che i fenomeni migratori odierni vanno letti nell’ottica della mobilità globale.
A contrasto a tali narrazioni, che oltre ad essere scorrette metodologicamente si prestano a strumentalizzazioni autoritarie, gliautori propongono 6 punti per una ideale “research agenda” sulle migrazioni climatiche;
- Capire in che misura i cambiamenti climatici producano migrazioni
- Spostare il focus tematico dalla migrazione alla mobilità
- Uscire dalla prospettiva dell’eccezionalità
- Tenere più in conto la complessità dei fenomeni
- Coinvolgere negli studi le comunità colpite dagli effetti negativi del cambio climatico stesso
- Spostare il focus della ricerca dalle aree di partenza a quelle di arrivo
Questa agenda di ricerca cerca quindi di indagare la complessità delle mobilità connesse ai cambiamenti climatici piuttosto che ridurla/minimizzarla, molto spesso, come si è visto, in ottica securitaria.
Appunti per una Ecologia Politica delle Migrazioni
Seguendo la traccia dell’agenda di ricerca appena esposta, cercherò ora di evidenziare come molti degli spunti da essa indicati possano essere proficuamente inquadrati attraverso le “lenti” della Political Ecology (PE).
È importante innanzitutto concentrare gli sforzi di studio sul capire in che misura i cambiamenti climatici producano migrazioni, piuttosto che dare questo fenomeno per assodato. Anche perché “classificare i migranti climatici come distinguibili dai migranti non climatici non è empiricamente possibile nella maggior parte, se non in tutte, le circostanze. Di conseguenza, le previsioni sulla migrazione di massa indotta dal clima sono intrinsecamente errate”12. Da un punto di vista critico, proprio della PE, diventa quindi prioritario concentrarsi sulle biografie dei soggetti migranti cercando di scorgere le implicazioni socio-ambientali della scelta/costrizione migratoria. In questo senso non si va a cercar di stabilire se un soggetto sia o meno un migrante climatico/ambientale, quanto piuttosto vedere in che misura le problematiche ambientali “entrano” in quello specifico percorso migratorio.
Per cogliere meglio la pluralità di elementi coinvolti nei fenomeni migratori13 bisogna spostare il focus di osservazione dalle “migrazioni connesse ai cambiamenti climatici” alle “mobilità connesse ai cambiamenti climatici”. Ancora una volta, tutto sta nella chiave di lettura dei fenomeni che adottiamo. Infatti, se consideriamo il tema delle migrazioni climatiche/ambientali come afferente in modo esclusivo a quelle persone che intraprendono consapevolmente un percorso migratorio per ragioni -in parte o del tutto- di tipo ambientale/climatico allora potremmo definire come migranti/profughi ambientali ben pochi soggetti tra le decine di milioni che ogni anno migrano nel mondo. Se invece consideriamo il tema dal punto di vista delle diverse “mobilità di vita” dei diversi soggetti potremmo vedere come in molti diversi tipi di percorso migratorio (anche temporaneo) si possano riscontrare “tracce” di motivazioni ambientali.
Il terzo punto dell’agenda evidenzia come bisogna uscire dalla prospettiva dell’eccezionalità. Ovvero: lo sforzo di ricerca “dovrebbe esaminare e approcciare le mobilità climatiche come la nuova normalità piuttosto che come l’eccezione”14. La migrazione/mobilità sarà giocoforza una delle opzioni per coloro che più saranno colpiti dalla conseguenze negative del cambio climatico (e che come ci mostrano gli studi di PE saranno i più poveri e deboli); quindi “invece di chiedersi se il cambiamento climatico causi la mobilità umana, la ricerca dovrebbe concentrarsi su se e in che modo il cambiamento climatico modificherà le interconnessioni esistenti e i modelli di mobilità umana in diversi scenari di riscaldamento globale e politiche di mitigazione e adattamento, e come questi sono a loro volta plasmati dalle attuali mobilità”15. La “quadratura del cerchio” ce la dà in questo senso l’aspetto critico della PE, ovvero la sua specifica attenzione per le relazioni diseguali di potere che si esercitano in specifiche condizioni socio-ambientali. Insomma: chi ci perde e chi ci guadagna? Sulla base di quali relazioni di potere sono distribuiti disegualmente benefici e svantaggi di una certa situazione socio-ambientale?
Ciò implicherà tenere più in conto la complessità dei fenomeni. E questo significa abbandonare quelle prospettive di analisi della mobilità globale che tendano a cercare una sola (o preponderante) dimensione di spinta alla migrazione. Tali prospettive sono la base per modelli predittivi che sono accattivanti dal punto comunicativo e mediatico, ma che inevitabilmente propongono meccanismi di riduzione di complessità che non consento di esaminare il fenomeno per quello che è: complesso, incerto, caleidoscopico e con piani differenti che si intersecano costantemente e mutevolmente. Del resto se si prende una qualsiasi storia di migrazione vi si troveranno molteplici elementi motivazionali e esplicativi che portano a intraprendere il percorso di mobilità; non si può delineare in maniera netta se una migrazione sia “economica”, “politica” o “climatica”. Una maniera a mio avviso proficua di approcciare il nesso ambiente-migrazioni è quello che degli studi di PE, poiché questi si concentrano sui processi di marginalizzazione socio-ambientale in maniera più “olistica” di quelli di tipo socio-economico; ciò in quanto considerano un “range” di aspetti che, oltre alle relazioni diseguali di potere, include “valori incommensurabili”16 quali la qualità della vita, le progettualità individuali e familiari, la sicurezza della propria salute, la protezione dal rischio, il perseguimento di modelli etici e culturali (etc).
Per coinvolgere negli studi sulle “mobilità connesse ai cambiamenti climatici” le comunità colpite bisogna passare da un approccio top-down ad uno bottom up, che consenta a comunità e soggetti coinvolti di “parlare per conto di sé stessi”17. Quest’ultimo aspetto ci fornisce uno spunto di “aggancio” tra la questione delle migrazioni climatiche/ambientali e le analisi e pratiche di advocacy in merito a problematiche di environmental injustice18. Prestare infatti maggiore attenzione al portato di narrazioni, rappresentazioni e rivendicazioni di coloro che sperimentano “sulla propria pelle” gli effetti delle problematiche ambientali, significa iniziare a de-costruire quegli elementi di disuguaglianza/discriminazione che, su base economica e/o razziale, fanno sì che certe popolazioni e /o territori siano fatte carico maggiormente dei costi socio-ambientali della crisi ecologica (cfr Meini 2015). Si tratta, dunque, di ascoltare maggiormente i “portatori di costi”19 oltre che, come solitamente accade, gli stakeholders, ovvero i portatori di interessi (termine con cui, in una società neoliberista, si intendono unicamente “cose che siano monetizzabili”20.
Coinvolgere i “diretti interessati”, significa anche spostare i il focus della ricerca sulle “mobilità connesse ai cambiamenti climatici” dalle aree di partenza a quelle di arrivo, ovvero i “nostri” contesti territoriali, nei quali peraltro i migranti sono sottoposti a diverse forme di ingiustizia e sfruttamento su base socio-ambientale. Anche in questo caso gli studi di EJ ci offrono importanti interrogativi: a che forme di environmental injustice & explotation sono esposti i migranti nei territori “di arrivo”? In che misura le popolazioni migranti (climatiche/ambientali o meno) vanno a vivere (spesso inconsapevolmente) in aree esposte a maggiore inquinamento/rischi ambientali (e per questo più a basso costo)? Quanto spesso i lavoratori migranti sono impiegati in lavori altamente nocivi, sia per loro stessi che per l’ambiente, e magari svolti in economie sommerse/illecite (che sono una delle poche opzioni praticabili per coloro che sono sotto il ricatto della clandestinità), senza tutele né per la salute dei lavoratori nè per quella dei territori? Che percezione vi è circa i fenomeni di migrazione ambientale nelle comunità di arrivo?
Migranti ambientali come “corpi a perdere” del processo di accumulazione neoliberista
Un ultimo spunto che vorrei proporre sulla tematica delle mobilità climatiche/ambientali riguarda i corpi dei migranti stessi. Mi sembra infatti che i migranti e i loro corpi possano essere visti come una “lente” straordinaria (e terribile) per leggere alcune delle dimensioni fisiche e sociali della crisi ecologica. Un primo spunto è quello che ci propone Marco Armiero nella sua descrizione dell’epoca attuale come epoca del Wasteocene21. Il termine vuole “mettere in luce le conseguenze epocali della produzione capitalistica di merci, e dunque di scarti, in termini di impatto ambientale, economico, sociale e, in senso più generale, antropologico”22.
Il Wasteocene è quindi un’epoca che si contraddistingue sia per la produzione abnorme di rifiuti che, soprattutto, per un processo di “messa a scarto” di interi territori, ecosistemi e popolazioni che è essenziale per i meccanismi di accumulazione capitalista. In quest’ottica le persone migranti sono rese tali anche da dinamiche di “messa a scarto” in paesi a loro volta “di scarto” nella gerarchia globale (e nei quali spesso affluiscono molti dei nostri flussi di rifiuti o produzioni nocive).
Un altro spunto è quello dell’analisi delle migrazioni come parte di global commodity chain, ovvero considerando in esse i corpi migranti come vere e proprie merci. In quest’ottica la capacità dei corpi migranti di generare valore sta anche (se non soprattutto) nella loro capacità di farsi carico/assorbire parte di quello sfruttamento/contaminazione che è necessario nei processi di accumulazione del capitalismo. La prospettiva dei “corpi a perdere” dei migranti come merci in un contesto di Wastocene mi sembra aiuti ad evidenziare un ulteriore aspetto dei processi di accumulation by contamination di territori e popolazioni nel capitalismo neoliberista (D’Alisa e Demaria 2012). Non solo questi processi contaminano e impoveriscono comunità e territori con processi di sfruttamento che causano migrazioni (di corpi che per di più si ritroveranno spesso a popolare i contesti malsani del “nord” del mondo); questi corpi (intesi a tutti gli effetti come merci) nel farsi carico di vari tipo di costi socio ambientali contribuiscono a processi di accumulazione. Detto altrimenti: nel contaminarsi, nel diventare scarto, producono ricchezza.
In quest’ottica, i corpi migranti possono essere visti anche come “misuratori” di Environmental injustice. Queste persone, e i loro corpi, sono infatti oggetto di processi di sfruttamento socio ambientale:
- nei luoghi di partenza: in virtù dei meccanismi sopra citati di accumulazione basati sullo sfruttamento socio-ambientale ma anche sulla “messa a scarto” di interi territori e popolazioni;
- nei paesi di transito: ad esempio attraverso il loro reclutamento in filiere produttive di estrazione e movimentazione di materiali tossici e/o pericolosi senza alcuna protezione, oppure attraverso varie forme di riduzione in schiavitù;
- nei luoghi di arrivo: sia attraverso i ben noti meccanismi dell’economia illegale che sfrutta i migranti, ma anche attraverso il loro reclutamento “legale” in settori produttivi altamente usuranti o nocivi per la salute. Quanto margine di profitto di filiere come quelle dell’agricoltura monocolturale, dell’allevamento intensivo, della cementificazione, del traffico di rifiuti (etc) passa attraverso la capacità dei corpi migranti di farsi carico di nocività in modo maggiore di quello che gli “indigeni” sono disposti ad accettare (per maggiore consapevolezza o minore necessità)?
Un’altra forma di Environmental Injustice è quella sul piano abitativo, che si attua per lo più attraverso forme di gentryfication ambientale. Per fare un esempio “bresciano”: il quartiere di Via Fiumicello con il 36,7% di popolazione residente di origine straniera che vive (non si sa quanto consapevolmente e/o per scelta) a ridosso del Sito di Interesse Nazionale “Caffaro” (contaminato da livelli altissimi di diossine e PCB).
In ogni caso e contesto, dunque, i corpi dei migranti sono i corpi (e le vite) “a perdere” nei processi neoliberisti di accumulazione basati su meccanismi neocoloniali di necro-politics (Mbembe 2019) e sullo sfruttamento predatorio di ogni cosa e forma di vita sul pianeta (Bookchin 1995).
I corpi migranti, in conclusione, ci dicono come le mobilità ambientali/climatiche odierne siano un fenomeno strutturale che deve essere inquadrato attraverso molteplici “lenti”, che tengano in conto la complessità dei fenomeni piuttosto che ridurla, che analizzino le relazioni diseguali di potere che in essi si esercitano, che ricerchino gli elementi socio-ambientali alla base dei flussi migratori, e di come questi ultimi siano parte di processi di accumulazione capitalista basati sullo sfruttamento, l’ingiustizia e la diseguaglianza.
Una ecologia politica delle mobilità climatiche/ambientali è essenziale in questo senso, per cogliere il portato politico, soprattutto nei “nostri” contesti di “arrivo”, di quelli che sono i principali costholder della crisi ecologica.”
1 UNHCR (2022) Esistono i rifugiati climatici? avaible at https://www.unhcr.org/it/risorse/carta-di-roma/fact-checking/esistono-i-rifugiati-climatici/.
2 Cfr. P. Vinci (2023) Chi sono i migranti climatici avaible at https://thesustainablemag.com/it/ambiente/chi-sono-i-migranti-climatici/.
3 Per una definizione di più precisa di Ecologia Politica confronta P. Robbins, Political Ecology, Blackwell 2011.
4 Intergovernmental Panel on Climate Change, Impacts, Adaptation, and Vulnerability. Contribution of Working Group II to the Sixth Assessment Report of the IPCC, Cambridge University Press. In Press 2022.
5 Legambiente (2022) I migranti ambientali, gli impatti della crisi climatica avaible at https://www.legambiente.it/rapporti-e-osservatori/migranti-ambientali-gli-impatti-della-crisi-climatica/.
6 Internal Displacement Monitoring Centre (2022) Disasters and climate change avaible at https://www.internal-displacement.org/disasters-and-climate-change.
7 World Bank (2021) Climate Change Could Force 216 Million People to Migrate Within Their Own Countries by 2050 avaible at https://www.worldbank.org/en/news/press-release/2021/09/13/climate-change-could-force-216-million-people-to-migrate-within-their-own-countries-by-2050.
8 M. Ambrosini, Sociologia delle migrazioni, Bologna, il Mulino 2020.
9 In merito agli effetti della crisi climatica in Bangladesh si vedano ad esempio https://ejfoundation.org/what-we-do/on-the-front-line-of-climate-change e https://www.corriere.it/pianeta2030/23_marzo_30/bangladesh-parte-l-esodo-migranti-climatici-fuggono-risaie-infiltrate-sale-prima-tappa-baracche-dhaka-5f67cb04-ccbc-11ed-8f1e-2019226a677d.shtml.
10 I. Boas, C. Farbotko, H. Adams et al. Climate migration myths. in Nature Climate Change, 9 (2019). avaible at https://doi.org/10.1038/s41558-019-0633-3.
11 Ibid, 5.
12 Ibid, p. 6
13 Che sono sia interni che esterni, sia temporanei che definitivi, sia legali che illegali, motivazioni economiche/socio-culturali /umanitarie/ per asilo politico etc.
14 I. Boas, op. cit, p. 7, (corsivo mio).
15 Ibid, p. 7.
16 J. Martinez Alier, Ecologia dei Poveri, Milano, Jaca Book 2009.
17 R. Bullard, Race, place, and environmental justice after hurricane Katrina, Boulard, Westview Press, 2009.
18 G. Walker, Environmental Justice. Concept, Evidence and Politics, London, Routledge, 2012.
19 Quelli che provocatoriamente abbiamo definito in altra sede costholder, portatori di costi (confronta gli articoli di S. Meini https://www.alternativeaps.org/2016/01/05/278/ e G. Lonati https://studiquestionecriminale.wordpress.com/2020/04/14/alcune-considerazioni-sulla-questione-coronavirus-rezzato-18-27-marzo-2020-giorno-di-quarantena-n-14-24/.
20 P. Mirowski, D. Plehwe, The Road from Mont Pelerin: The Making of the Neoliberal Thought Collective, Harvard University Press, 2009.
21 M. Armiero, L’era degli scarti. Cronache dal Wasteocene, la discarica globale, Torino, Einaudi, 2021.
22 https://www.treccani.it/vocabolario/neo-wasteocene_%28Neologismi%29/