Il 13 marzo 1984, ultimo giorno della sua vita, Aurelio Peccei stava lavorando ad una delle periodiche lettere circolari per i membri del Club di Roma. Questa volta si trattava, però, di una lettera eccezionale per due motivi. Il primo era costituito dalla vastità degli argomenti che egli intendeva trattare, come rivelava l’oggetto della lettera: “Il Club di Roma: agenda per la fine del secolo”. Il secondo, purtroppo, derivava dal fatto che questo sarebbe stato l’ultimo, incompiuto, scritto di Aurelio Peccei.
Il documento, redatto in inglese (lingua di lavoro del Club, i cui membri provenivano da una ventina di paesi), iniziava così: “Less than 6,000 days separate us from the year 2000 …” Esso ha rappresentato il testamento spirituale di Aurelio Peccei, una sintesi del suo pensiero e uno stimolo all’azione per i suoi amici dentro e fuori del Club di Roma.
L’anno 2000 è arrivato, i 6000 giorni sono ormai passati. Nel loro scorrere, quali nuove frontiere avrebbero varcato i pensieri di Aurelio Peccei, sempre in anticipo sui suoi contemporanei ? Questo è un interrogativo che mi accompagna dal giorno della sua morte, e al quale purtroppo non so darmi risposta – solo lui lo potrebbe. I ventisette anni che ho avuto la fortuna di lavorare con Peccei sono stati pervasi da una continua, ammirata sorpresa per il formarsi e l’evolversi di idee e di progetti dettati dal suo amore per la vita in tutte le sue forme e dalla preoccupazione per la piega che stavano prendendo le cose del mondo.
Aurelio Peccei amava definirsi “a hopeless generalist” – un irrimediabile generalista – che preferiva dedicare le sue forse a migliorare di un millimetro il livello di vita generale, piuttosto che a risolvere uno specifico problema in un sol campo o in un solo luogo. La sua lungimiranza, il suo impegno, la sua passione, la totale dedizione ai suoi ideali – e l’ampiezza della sua visione, il suo calore umano e il suo senso dell’umorismo – erano coinvolgenti, e molti “specialisti” divennero collaboratori e membri del Club di Roma.
La giornalista americana Claire Sterling, che lo intervistò per il Washington Post nei primi anni settanta, scrisse che la dote di Aurelio Peccei che l’aveva più colpita era quella di saper “estrarre” da ognuno di noi quanto di meglio fossimo in grado di offrire.
Negli ultimi quindici anni della sua vita, quelli dedicati sempre più intensamente, e verso la fine completamente, al Club di Roma, chi non condivideva le sue preoccupazioni liquidava il dibattito dandogli del “profeta di sventura”. Il suo impegno derivava invece dall’ottimismo di chi non si arrende e cerca di inquadrare e poi affrontare problemi talmente vasti e interconnessi da scoraggiare chi ottimista non è.
Il modo di pensare e di vivere di Aurelio Peccei non andrebbe dimenticato, ma imitato per quanto possibile da ciascuno di noi.