Cinquant’anni sono tanti, specialmente in un mondo attraversato da una rivoluzione scientifica e da un’accelerazione tecnologica senza precedenti. Ma ci sono idee e scritti che non sentono il passare del tempo, e conservano oggi tutta la loro attualità, tutta la dirompente forza del momento in cui sono stati elaborati. È questo il caso della “ Populorum Progressio”, enciclica emanata da papa Paolo VI il 26 marzo 1967, dunque precisamente mezzo secolo fa.
Si tratta di un documento straordinario, che nasce dalla spinta del Concilio Vaticano ii e pone la Chiesa di fronte alle drammatiche contraddizioni del mondo contemporaneo, e in particolare alle oscene disuguaglianze che attraversano il pianeta. Squilibri intollerabili che ancora oggi, purtroppo, fanno sentire tutto il loro peso; da qui l’attualità di quel testo e l’opportunità di celebrarlo in questa importante ricorrenza.
L’enciclica, suddivisa in 87 brevi paragrafi, dopo un’introduzione che presenta una tesi chiara fin dal titolo, ossia “La questione sociale è questione morale”, si articola in tre sezioni – i)Per uno sviluppo integrale dell’uomo; ii)Verso lo sviluppo solidale dell’umanità; iii) Lo sviluppo è il nuovo nome della pace – e si conclude con un vibrante appello all’azione rivolto non solo ai cattolici e ai cristiani, ma a tutti gli uomini di buona volontà.
Il suo nucleo essenziale si trova al par. 3: “Oggi, il fatto di maggior rilievo, del quale ognuno deve prendere coscienza, è che la questione sociale ha acquistato dimensione mondiale. (…) I popoli della fame interpellano in maniera drammatica i popoli dell’opulenza. La chiesa trasale davanti a questo grido d’angoscia e chiama ognuno a rispondere con amore al proprio fratello”.
Al par. 5, il pontefice, dopo aver ricordato l’esperienza traumatica di due viaggi nell’America Latina (1960) e in Africa (1962), occasione per toccar con mano le gravissime difficoltà che assalgono interi continenti, esprime la volontà della Chiesa di agire concretamente per la causa dei popoli in via di sviluppo, concependo un programma di intervento, denominato “Giustizia e pace” atto a “favorire la giustizia sociale tra le nazioni”, e a offrire a quelle meno fortunate “un aiuto tale che le metta in grado di provvedere esse stesse e per se stesse al loro progresso”.
L’umanità deve marciare unita verso il suo sviluppo integrale, realizzando un umanesimo nuovo, che consenta ad ognuno di raggiungere e vivere pienamente i propri valori spirituali, dando contestualmente risposta ai bisogni e alle carenze materiali. Chiari gli obiettivi: garantire a tutti un minimo vitale; abbattere le strutture oppressive, lo sfruttamento e l’ingiustizia; favorire l’ampliamento delle conoscenze e l’acquisizione della cultura; sconfiggere la povertà attraverso la cooperazione per il bene comune; realizzare la pace ovunque (oltre che, ovviamente, trattandosi di un’enciclica pontificia, riconoscere i valori spirituali supremi e Dio che ne è la sorgente e il termine).
Vengono poi indicati i modi di fruizione dei beni terreni. In particolare, al par. 23 si legge: “La proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato ed assoluto. Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario. In una parola, il diritto di proprietà non deve mai esercitarsi a detrimento dell’utilità comune, secondo la dottrina tradizionale dei padri della chiesa e dei grandi teologi. Ove intervenga un conflitto tra diritti privati acquisiti ed esigenze comunitarie primordiali, spetta ai poteri pubblici adoperarsi a risolverlo, con l’attiva partecipazione delle persone e dei gruppi sociali”, bandendo le speculazioni egoiste e assicurando una crescita equilibrata a ogni individuo.
L’enciclica guarda con favore allo sviluppo dell’industria [par. 25], espressione dell’ingegno umano, ma mette in guardia contro i pericoli di un capitalismo privo di regole [par. 26], ricordando come l’economia debba essere uno strumento al servizio dell’uomo. Il liberismo sfrenato è la causa prima del sottosviluppo dei paesi sfruttati: “ciò significa che la legge del libero scambio non è più in grado di reggere da sola le relazioni internazionali. I suoi vantaggi sono certo evidenti quando i contraenti si trovino in condizioni di potenza economica non troppo disparate: allora è uno stimolo al progresso e una ricompensa agli sforzi compiuti. Si spiega quindi come i paesi industrialmente sviluppati siano portati a vedervi una legge di giustizia. La cosa cambia, però, quando le condizioni siano divenute troppo disuguali da paese a paese: i prezzi che si formano liberamente sul mercato possono, allora, condurre a risultati iniqui. Giova riconoscerlo: è il principio fondamentale del liberalismo come regola degli scambi commerciali che viene qui messo in causa” [par. 58].
Altri due elementi ostacolano poi la realizzazione di un mondo migliore e più giusto: il nazionalismo (che “isola i popoli contro il loro vero bene”) e il razzismo, “un fermento generatore di divisioni e di odio nel seno stesso degli stati, quando, in spregio dei diritti imprescrittibili della persona umana, individui e famiglie si vedono ingiustamente sottoposti a un regime d’eccezione, a causa della loro razza o del loro colore”.
Auspicando la solidarietà e la fraternità fra i popoli [par. 43-48] e il superamento di relazioni asimmetriche tra paesi ricchi e paesi poveri [par. 56], l’enciclica non rinuncia a considerazioni pragmatiche, con l’indicazione, quasi politica, della giusta via da percorrere. Al par. 30 si comprende perfino, pur senza giustificarlo, il ricorso alla violenza: “Si danno certe situazioni la cui ingiustizia grida verso il cielo. Quando popolazioni intere, sprovviste del necessario, vivono in uno stato di dipendenza tale da impedire loro qualsiasi iniziativa e responsabilità, e anche ogni possibilità di promozione culturale e di partecipazione alla vita sociale e politica, grande è la tentazione di respingere con la violenza simili ingiurie alla dignità umana”. La rivoluzione non è intesa come rimedio ai mali dei popoli oppressi, anche se è ammessa (par. 31) “in caso di tirannia evidente e prolungata che attenti gravemente ai diritti fondamentali della persona e nuoccia in modo pericoloso al bene comune del paese”.
Molte sono le riflessioni che si potrebbero fare su questo testo eccezionale. Tra le tante possibili, citiamo l’influenza palese della svolta antropologica propria della teologia novecentesca, che qui trova una delle sue espressioni più evidenti. Oppure il fatto che la Teologia della Liberazione, la cui nascita effettiva si può individuare nella Conferenza episcopale dell’America latina organizzata a Medellin tra il 24 agosto e il 6 settembre 1968, trovi in questo documento un fondamento imprescindibile; è più che evidente, infatti, la convergenza tra il magistero romano e le elaborazioni – teologiche ma anche, e nel contempo, politiche – suscitate dalle profonde trasformazioni sociali in atto nel continente sudamericano in quegli stessi anni. Infine, si devono registrare le reazioni scomposte degli ambienti conservatori e reazionari. All’indomani della pubblicazione dell’enciclica, il quotidiano del MSI, Il Secolo d’Italia , esce con un titolo piuttosto polemico: “Avanti Populorum!“. Il pontefice viene accusato, in sostanza, di avere determinato nella chiesa cattolica una decisa virata ideologica a sinistra. Indubbiamente è così, e per fortuna, aggiungiamo noi! L’autentico messaggio di Cristo è rivoluzionario, e troppo presto la sua chiesa ha fatto pace con il mondo. La speranza è che con papa Francesco, dopo il salto all’indietro dei pontificati di Giovanni Paolo ii e Benedetto xvi, si ritrovi un po’ di quello spirito innovatore, che ha permeato il Concilio vaticano ii e ispirato l’enciclica che ora celebriamo (e purtroppo non sono in molti ad averlo fatto).