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La Russia e la Cina, due BRICS che vengono da lontano

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In questo breve testo, che prende spunto dai temi della maturità del 2013, si prenderanno in esame le storie parallele e intrecciate della Russia e della Cina nel ‘900 e sino ad oggi, sottolineando gli elementi di continuità e di discontinuità, le somiglianze e le differenze, al fine di mettere a fuoco la fisionomia di questi due Stati estremamente importanti sia dal punto di vista geopolitico che geoeconomico nel panorama del mondo attuale. In tale analisi, conformemente a quanto richiesto dalla prova d’esame, l’accento verrà posto sulle vicende politiche novecentesche russe e cinesi.

Dalla Russia alla Russia

La Russia agli inizi del ‘900 è un grande impero continentale, le cui spinte espansionistiche, specie verso il declinante impero ottomano, sono state contenute dalle potenze europee (guerra di Crimea, Congresso di Berlino). Partendo da una condizione di forte arretratezza, specie nelle campagne, il Paese si sta modernizzando con lo sviluppo di grosse isole industriali, nel cui ambito cresce una accesa conflittualità, e l’insediamento di partiti di sinistra di orientamento rivoluzionario, incluso il partito bolscevico creato e guidato da Lenin. A fine ‘800 l’espansionismo russo si indirizza verso l’Estremo Oriente con l’occupazione della Manciuria e l’annessione di Port Arthur, in linea con il costante tentativo della Russia, superpotenza nordica e continentale, di avere uno sbocco su mari sempre navigabili.

Sono conquiste che avvengono a spese della Cina, in piena crisi politica, e che provocano la reazione del Giappone, unico Stato non europeo – occidentale che è riuscito a dar vita ad un forte sviluppo economico-industriale. La guerra russo-giapponese del 1904 – 5, conclusasi con la sconfitta della Russia, nonostante le dimensioni militari circoscritte, ebbe una grande portata politica e simbolica. Per quest’ultimo aspetto bisogna tener conto che la Russia dell’epoca era percepita, molto più dell’URSS e della Russia attuale, come una potenza europea: si trattò quindi della prima sconfitta di un Paese occidentale da parte di uno Stato extraeuropeo.

Le conseguenze politiche interne all’impero zarista furono immediate e deflagranti, dando il via alla rivoluzione russa del 1905, una sorta di prologo generale di quella del 1917. Il superamento, momentaneo, della crisi rivoluzionaria avvenne attraverso le repressione politica e l’incentivazione dello sviluppo economico (ad opera del primo ministro Stolypin), secondo un modello che sarà riproposto, divenendo una costante della storia russa (e cinese) lungo il ‘900 e sino a oggi. La svolta decisiva avvenne con la Prima guerra mondiale, in cui la Russia intervenne a fianco della Serbia, un alleato tradizionale per motivi politici e culturali, reggendo gran parte dello scontro con le forze austro-tedesche.

La guerra causò uno sconvolgimento radicale ponendo fine al millenario impero zarista e consentendo alle forze radicali di sinistra di prendere il potere, attraverso il duplice passaggio delle rivoluzioni del febbraio e dell’ottobre del 1917. In primo piano emersero i partiti operai di ispirazione marxista e i cosiddetti “soviet” (consigli) che daranno il nome al nuovo Stato: Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS). In realtà tutto il potere era concentrato nel Partito comunista (bolscevico) russo e nel suo leader: V. I. Lenin, che attraverso le tempeste della Guerra civile (1918 – 1921) riuscì a edificare uno Stato del tutto nuovo e senza precedenti storici;  si trattava infatti di una formazione politica interamente costruita su basi ideologiche – dottrinarie, senza un’identità nazionale definita, anche se indubbiamente l’elemento russo vi occupava una posizione centrale.

La proiezione mondiale del nuovo impero russo-comunista era garantita dal grande seguito che il Paese del socialismo, assunto a mito salvifico, aveva in ogni angolo della terra, presso i ceti popolari e molti strati intellettuali.  Un mito non inficiato dalla reazione opposta che si manifestò sia in Europa che negli Usa sotto forma di paura per il “pericolo rosso”.  L’impatto della rivoluzione russa e della presa del potere da parte di Lenin fu così forte che sembrò delinearsi una vera e propria “guerra civile mondiale”. E’ in questo clima che prendono forma i totalitarismi europei.

Ma la realtà interna dello Stato russo-sovietico era ben diversa da quella che seguaci e avversari si costruivano e proiettavano nelle loro dispute, tanto accese quanto oggi quasi incomprensibili. La crisi dell’impero zarista era derivata, molto di più che dall’azione dei rivoluzionari di professione, dal rifiuto della guerra da parte del mondo contadino, il cui peso era preponderante sia in Russia che negli altri Paesi dell’impero. Così come nel caso della Cina e nel resto del mondo extraeuropeo,  nel corso del ‘900 i movimenti e gli orientamenti delle anonime, imperscrutabili, masse contadine avranno un peso politico decisivo, dando vita ad un singolare paradosso, che dovrebbe essere al centro di ogni teoria della modernizzazione, visto che nella stragrande maggioranza dei casi l’atteggiamento prevalente di tali masse è schiettamente apolitico.

Resta il fatto che i bolscevichi sia con Lenin che con Stalin dovettero fare i conti con la resistenza passiva e le violente, disperate, reazioni di quella che era stata la base sociale effettiva della rivoluzione e della loro dittatura. In tutte le fasi di formazione e di consolidamento del potere sovietico, oltre al terrore nei confronti degli avversari politici, la lotta principale e i colpi più duri vennero indirizzati contro i contadini, concepiti come l’incarnazione ontologica dell’arretratezza. La guerra che il potere sovietico rivolge contro il proprio popolo non risparmia nessuna categoria sociale ma le campagne sono il bersaglio preferito, l’ostacolo da scalzare e superare per fare dell’URSS lo Stato più industrializzato e potente del mondo.

L’altro grande problema con cui il potere sovietico divette fare i conti in tutto l’arco della sua esistenza concerne la questione nazionale. L’URSS era uno Stato plurinazionale con l’ambizione di creare un nuovo tipo di cittadino sovranazionale, ma in effetti l’ambizioso e utopico traguardo non fu raggiunto e Stalin, come altri leader comunisti, si impegnò piuttosto a giocare le nazionalità una contro l’altra e a colpire con estrema durezza le nazionalità ribelli.

Tenendo conto di quanto accennato non è tanto sorprendente che a partire dall’89 il regime sovietico sia imploso bensì che sia durato così a lungo, estinguendosi per dinamiche interne e cogliendo alla sprovvista la gran parte degli analisti, il cui fallimento non depone certo a favore di coloro che si autodefiniscono “scienziati sociali”. Un elemento di spiegazione si può trovare considerando quanto è avvenuto con la Seconda guerra mondiale, allorché, dopo la parentesi sconcertante e in realtà perfettamente in linea con la concezione staliniana della “realpolitik” del patto Molotov-Ribbentrop,  Hitler decise di attaccare l’URSS. Con costi umani enormi, facendo ricorso alle risorse profonde della nazione la Russia-URSS riuscì a resistere e poi a rovesciare le sorti della guerra, arrivando sino a Berlino.

La vittoria fece acquisire a Stalin un grande prestigio internazionale e gli consentì di rinsaldare il suo potere dispotico. Solo dopo la sua morte iniziò un lento processo di disgelo poi arrestatosi sotto forma di sclerosi burocratica. La parabola sovietica si è chiusa in modo pacifico, ma bisogna tener conto che nei decenni precedenti la popolazione aveva subito salassi spaventosi, quantitativamente senza eguali.

Per capire le dimensioni effettive della potenza russa, al di là della sua attuale relativa marginalizzazione nello scacchiere mondiale, bisogna tener conto che le catastrofi politiche a cui è andata incontro, prima con le mire imperialiste zariste poi con le imposizioni ideocratiche sovietiche, non le hanno impedito di primeggiare sul piano intellettuale, sia letterario che scientifico, di diventare una superpotenza militare, di superare prove difficilissime grazie ad un grande patrimonio culturale e a immense ricchezze naturali.

E’ necessario quindi vedere, nella trama della sua storia, oltre alle fortissime discontinuità, gli elementi di continuità che nel bene e nel male innervano la Russia e ne fanno un mondo a parte, in instabile equilibrio tra Occidente e Oriente. Dopo l’epilogo sovietico del ’91  e una crisi economica gravissima, la Russia, smentendo ancora una volta le previsioni, non ha adottato il modello liberaldemocratico occidentale, ma una forma attenuata di dispotismo, in cui il nazionalismo è servito da collante per tenere assieme la tradizione russa, pezzi dell’eredità sovietica, e l’adozione delle forme più vistose di capitalismo globalizzato.

La Cina piattaforma manifatturiera del mondo

Il Novecento in Cina si apre con la rivolta del “boxers” (1900-1901) soffocata dall’intervento militare delle potenze europee, degli Usa e del Giappone, che sottopongono il gigante cinese ad una forma di sfruttamento economico e dominio politico che prevede il mantenimento in vita della dinastia imperiale, ridotta ad un puro ectoplasma. E’ l’ultimo atto della molteplice invasione subita nel corso dell’800 dalla Cina da parte di una serie di Stati stranieri:  Gran Bretagna, Russia, Francia, Germania, Giappone.

Su questo sfondo prendono corpo le istanze nazionalistiche e antimperialistiche che trovano il loro leader in Sun Yat-sen, medico cantonese profondamente influenzato dalla cultura progressista occidentale. Sotto la sua guida nel 1912 viene proclamata, contemporaneamente all’abdicazione dell’ultimo imperatore, la nascita della repubblica cinese, che però è molto debole e divisa, subendo le spinte centrifughe dei cosiddetti “signori della guerra”. La ripresa del movimento nazionalista e gli esordi di quello comunista avvengono dopo la Prima guerra mondiale. Il principale bersaglio della lotta di liberazione diventa il Giappone che grazie al trattato di Versailles aveva ereditato le posizioni e i privilegi tedeschi in Cina.

Nel 1921 viene fondato il Partito comunista cinese che in questa fase è alleato con i nazionalisti di Sun Yat-sen, organizzati nel partito del Kuomintang.  Dopo la morte di Sen, il capo militare del Kuomintang, Chiang Kai-shek si scontra duramente con i comunisti (1927) cercando di eliminarli dalla scena cinese. In questa fase comincia ad emergere la figura di Maozedong che propugna la creazione, nelle campagne della Cina meridionale, di “basi rosse”, in contrasto con la linea ufficiale del Partito e dell’Internazionale comunista.

Sconfitti sul piano militare dalle truppe di Chiang Kai-shek, i comunisti di Mao si rifugiano, con una “lunga marcia” (1934-36), nella Cina nordoccidentale (zona di Yenan). Intanto il Giappone decide di invadere la Cina (1937) cercando di farne una colonia vera e propria. In un primo momento nazionalisti e comunisti uniscono le loro forze per combattere contro l’invasore ma gli sviluppi successivi vedono l’affermarsi progressivo dei comunisti che, secondo la linea di Mao, riescono a guidare la resistenza contadina nei villaggi della Cina settentrionale e centrale. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, si sviluppa la guerra civile tra i comunisti e il Kuomintang, che pur godendo dell’appoggio degli Usa, non riesce a resistere all’offensiva comunista che dilaga dalle campagne verso le città. I nazionalisti si rifugiano a Taiwan e il 1° ottobre 1949 viene proclamata la Repubblica Popolare Cinese.

Tutto il potere è nelle mani del Partito comunista che ha una struttura e delle finalità politiche analoghe a quelle del Partito comunista russo (poi dell’Unione Sovietica).  Pur con la peculiarità di far leva sull’elemento contadino piuttosto che su quello operaio, Mao è molto vicino alla linea politica e ai metodi di Stalin, non a caso non condivide la politica di destalinizzazione e disgelo di Chruscev, sino alla rottura, di grande portata strategica, tre le due potenze comuniste, sviluppatasi, con reciproche scomuniche, a partire dai primi anni ’60.

La gestione politica di Mao è caratterizzata da un grande radicalismo volto a modernizzare e sviluppare la Cina in tempi rapidissimi con esiti catastrofici specie per i costi umani di tali tentativi, i cui momenti culminanti sono segnati dal Grande Balzo in avanti (1958-61) e dalla Grande Rivoluzione Culturale Proletaria lanciata nel 1966. A differenza che nel caso russo-sovietico il gioco politico cinese è però complesso e raffinato. La linea di Mao appare flessibile se non ondivaga per la presenza di forze interne al partito che fanno da contrappeso, tipica in tal senso l’azione di leader come Liu Shaoqi e Zhou Enlai. Quest’ultimo in particolare riuscì a recuperare il pragmatico Deng Xiaoping, caduto in disgrazia durante la Rivoluzione culturale, e a traghettarlo verso il potere.

Dopo la morte di Mao (1976) e per tutti i decenni successivi , sino alla sua scomparsa (1997), Deng è stato il dominus della politica cinese, pur mantenendosi in una posizione apparentemente defilata occupando solo la carica di capo della Commissione militare centrale del Pcc.  A  lui si deve l’invenzione della formula che ha avuto un imprevedibile e straordinario successo, ovvero l’instaurazione di un mix tra dittatura politica del partito ed economia capitalistica di mercato.

I trionfi economici della Cina, successivi alla repressione della rivolta di Tien an men (1989), guidata da Deng, sono noti, sino a farne la prima economia manifatturiera al mondo, seppure ancora lontana dagli Usa per quanto riguarda gli armamenti, le tecnologie più avanzate e i servizi; le radici di tali successi e della stessa apparente solidità del Partito comunista cinese, richiedono una analisi e uno sguardo che non si limitino all’attualità e alle sole vicende novecentesche.

Il peso della storia

Nel caso della Russia e della Cina vale doppiamente l’indicazione che per capire un fenomeno storico bisogna riuscire a contestualizzarlo nella lunga durata e a osservarlo con distacco e contemporaneamente con interesse. E’ successo invece che per la portata degli eventi che caratterizzano la storia novecentesca di tali Paesi, facendo assumere loro un significato universale, fautori  e critici si siano fatti guidare più dalle loro passioni e opzioni ideologiche che dalla ricerca della verità attraverso l’interpretazione dei fatti. Secondo una movenza che è tipica della nostra epoca, all’eccesso di coinvolgimento ha fatto seguito il disinteresse, con la conseguenza di trascurare fenomeni e realtà che hanno e avranno un grande influsso sulla nostra vita. E’ necessario ricordare quanto dipendiamo dalle fonti energetiche russe ? Ovvero quali minacce e opportunità derivino dai nostri rapporti con l’economia cinese ?

Gli svolgimenti avvenuti dopo il passaggio cruciale del 1989 hanno finito con il far prevalere le differenze apparentemente incolmabili tra la Cina e la Russia rispetto all’Occidente, assieme ad affinità di fondo tra i due Paesi, piuttosto che la confluenza in un unico modello di portata universale capace di imporsi ovunque, segnando così la fine della storia per come l’abbiamo conosciuta. Sia pure con segno politico rovesciato tale profezia era concettualmente affine all’universalismo materialista a cui si ispiravano l’URSS e la Cina comunista.  In ogni caso veniva sottovalutato o annullato un dato di enorme importanza, vale a dire la vitalità di un’eredità culturale formidabile, che qui possiamo solo evocare parlando di civiltà russa e civiltà cinese. Solo tenendo presente l’incidenza di questo sfondo storico del tutto operativo si può capire, ad esempio, come sia possibile la ripresa attuale del confucianesimo in Cina.

L’altro aspetto molto rilevante concerne la confutazione della tesi secondo cui la vigenza di una medesima base materiale, definita dal modo di produrre e dalla tecnologia, comporterebbe l’esistenza di assetti politico-culturali corrispondenti e omogenei. Si tratta evidentemente di una visione molto superficiale della società, inconsistente dal punto di vista sociologico e smentita dall’intero corso della storia. Di sicuro la vicenda storica di Russia e Cina, particolarmente nel ‘900, presenta un forte interesse dal punto di vista intellettuale, oltre che difficoltà derivanti da differenze culturali che non si lasciano sbrigativamente liquidare. I grandi abbagli presi dagli intellettuali occidentali sul comunismo russo e cinese sono lì ad ammonire circa i rischi di semplificazioni e costruzioni immaginarie.

D’altro canto proprio la storia tormentata e tragica di questi due Paesi, specie nel secolo passato, ci consiglia di non sopravvalutarne la diversità e compattezza. Per un verso si sono dimostrati molto permeabili alle due forze principali dell’Occidente: l’ideologia e la tecnologia. Dall’altro il loro assetto dispotico e monolitico è la maschera di un potere che vive nella paura dei nemici esterni e del riemergere di  vecchie e nuove faglie di frattura, sul piano sociale, identitario, territoriale.

La forza attuale della Cina, e in misura minore della Russia, risalta maggiormente per effetto della crisi economica che ha colpito prima gli Stati Uniti e poi, molto più duramente, l’Europa, mettendone in discussione l’unità sul piano economico e politico. La Cina ha approfittato delle difficoltà dell’Occidente per sviluppare una politica economica molto aggressiva nei vari continenti, acquisendo grandi estensioni di terre in Africa e America Latina e aziende di primo livello anche negli USA. La Russia di Putin, uscendo dalla crisi economica gravissima degli anni ’90, ha riacquistato un peso geopolitico rilevante, sia con l’uso della forza, come in Cecenia, sia attraverso l’azione diplomatica, come nel caso della Siria.

Si tratta di antiche civiltà e potenze che è piuttosto riduttivo e superficiale classificare semplicemente sotto l’etichetta effimera di “Brics”. Esse si muovono come spregiudicati attori globali in una scena internazionale instabile, malamente regolata dagli interessi economici configgenti, a fronte di un palese deficit di progettualità e visione politica, esito inevitabile della generalizzazione dell’economia ad ogni ambito della società e della vita.

Postilla marzo 2014:

Non è possibile entrare nel merito dell’ attuale crisi Ucraina, si può solo dire che risulta del tutto incomprensibile se non si tiene conto del contesto storico, anche di lungo periodo, in cui si colloca.

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