Ambiente Tecnica Società. Rivista digitale fondata da Giorgio Nebbia

Le armi, “merci oscene”, distruttive dell’umanità e degli ecosistemi

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La storia oscura delle “merci oscene”

Giorgio Nebbia, il grande ecologista fondatore con Pier Paolo Poggio, venticinque anni fa, del Centro di storia dell’ambiente della Fondazione Luigi Micheletti e di questa rivista, trattando la sua materia di studio e di ricerca, la merceologia, ha sempre definito le armi “merci oscene”1. Infatti, se in generale tutte le merci contengono in varia misura un certo tasso di violenza (verso l’ambiente, in termini di prelievo di risorse e di scarico di rifiuti, e verso l’uomo, in termini di sfruttamento) le armi ne portano all’eccesso questo lato oscuro, in particolare quelle chimiche e nucleari.

Innanzitutto perché le armi hanno fin dalla progettazione e produzione l’obiettivo di distruggere vite umane nonché gli ambienti artificiali e naturali. Qui sta la differenza rispetto alle altre merci, la cui relativa violenza per lo meno viene giustificata dall’obiettivo di soddisfare in diversa misura bisogni dell’uomo, effettivamente essenziali o ritenuti tali anche se in realtà nel Nord ricco spesso superflui. Dunque alla loro intrinseca violenza, già presente fin dalla nascita, si aggiunge la devastazione prodotta dal loro impiego, innanzitutto, ma anche soltanto dal loro smaltimento, qualora non venissero usate sui campi di battaglia. In sostanza, dal punto di vista dell’umanità e delle sue prospettive di vita sul Pianeta, sono merci clamorosamente suicide, che riducono drasticamente il “futuro comune”. E a maggior ragione ciò vale per le armi chimiche e nucleari.

Ebbene questo tema ha sempre occupato uno spazio centrale fin dalle origini dell’avventura di “Altronovecento”. Come abbiamo in altre occasioni ricordato, il sodalizio di Pier Paolo Poggio con Giorgio Nebbia iniziò attorno alla vicenda dell’Acna di Cengio, fabbrica chimica produttrice, tra l’altro, proprio di esplosivi bellici: esattamente trent’anni Nebbia offriva il suo contributo sulla storia produttiva dell’Acna in una giornata di studio a Cortemilia il 19 giugno 1994, che poi verrà pubblicato nel saggio sull’Acna curato da Pier Paolo Poggio nel 19962. Inoltre, sempre in quell’anno, il 19 marzo 1996, Pier Paolo Poggio, con il fondamentale apporto di Giorgio Nebbia, organizzava a Brescia il primo convegno di storia dell’ambiente, che avrebbe posto le basi del successivo Centro, Tecnologie e ambiente nell’età dell’industrializzazione. E su suggerimento di Nebbia, pugliese d’adozione, in quell’occasione venne presentata da Vito Antonio Leuzzi una relazione esemplare sulla devastazione delle “merci oscene”, Secondo conflitto mondiale e contaminazione chimica in Puglia3.

Ero presente a quella relazione e ne fui particolarmente colpito. Come è noto, il secondo conflitto mondiale era da tutti previsto come guerra chimica, oltre che aerea. Nella realtà per la prima volta prevalse la deterrenza e gli enormi arsenali chimici accumulati dagli opposti schieramenti non vennero utilizzati, neppure da Hitler, ad eccezione nei campi di sterminio contro gli inermi ebrei.

La deterrenza invece non funzionò per le bombe atomiche che vennero sganciate su Hiroshima e Nagasaki dagli usa, perché questi ne detenevano l’esclusiva e quindi non temevano ritorsioni.

Ma a Bari, il 2 dicembre 1943, le armi chimiche sfuggirono accidentalmente all’ombrello della deterrenza con un effetto disastroso sugli umani e sull’ambiente. Bari, dopo l’8 settembre del 1943, era diventata il più importante porto degli Alleati per alimentare l’offensiva nella nostra Penisola. Qui si erano concentrate decine di navi mercantili e da guerra statunitensi. Quel giorno tutto il potenziale presente in Italia di aerei Junker dell’aviazione tedesca, la Luftwaffe, scaricò centinaia di bombe sulle navi alla fonda e nel porto infliggendo il più grande disastro della marina americana dopo Pearl Harbour: in un’ora diciassette navi affondate e altre otto semidistrutte, e mille militari fatti a pezzi ed altrettanti civili colpiti a morte e molti altri coinvolti. Chi sopravvisse sentì nell’aria infuocata un odore di aglio. Tanti baresi cominciarono a manifestare strani sintomi di malessere, come bruciori agli occhi, vescicole sulle palpebre e sul corpo e gli ospedali si intasarono. Ma solo dopo una settimana il comando alleato rivelò che la loro causa era l’iprite, suggerendo gli interventi necessari. Una delle navi colpite portava infatti in pancia uno stock di bombe da 45 chili l’una di iprite, per un totale di 540 tonnellate, il letale gas mostarda, impiegato per la prima volta nella grande guerra in Francia. Quell’odore d’aglio era l’unico segnale della morte invisibile che stava colpendo ignari cittadini, provocando il più grave episodio di guerra chimica dopo la prima guerra mondiale. E le conseguenze sanitarie per molti cittadini in qualche modo contaminati erano destinate a manifestarsi anche dopo decenni. Ma questo fu l’episodio più clamoroso, anche se per tanto tempo opportunamente occultato: in realtà quella guerra chimica “mancata” ha lasciato nel nostro Paese (come negli altri belligeranti) una scia di veleni devastante nei siti industriali, mai bonificati, in cui quelle armi furono prodotte e sperimentate e nei fondali dei mari in cui vennero scaricate come sbrigativo sistema di “smaltimento”4.

Per queste ragioni Giorgio Nebbia dedicò più di un approfondimento al tema delle armi chimiche, che, come sappiamo, nonostante le tragiche lezioni della storia, continuarono a essere impiegate, purtroppo, anche nel secondo Dopoguerra fino ad oggi5.

La corsa agli armamenti dell’Italia e dell’Unione europea archivia la transizione ecologica

Dunque le guerre moderne oltre a minacciare il genocidio delle popolazioni civili producono un ecocidio devastante dei territori colpiti.

Ma l’attuale “terza guerra mondiale a pezzi”, con i conflitti in corso in Ucraina e Palestina, ha anche degli effetti indiretti altrettanto gravi per il futuro dell’umanità e del Pianeta.

La transizione ecologica, quella vera, richiede non solo l’impresa gigantesca di fuoriuscire dai fossili e costruire la civiltà solare, senza le scorciatoie ingannevoli del nucleare, ma anche la riduzione in generale dei prelievi di materiali dalla natura e l’abbattimento delle emissioni nocive e degli scarti che degradano l’ambiente, garantendo, nel contempo, il soddisfacimento dei bisogni essenziali a tutti i popoli, ovvero una sostanziale equità nella distribuzione delle risorse scarse del Pianeta.

Quest’ultimo aspetto non è un semplice orpello, ma una precondizione per poter immaginare una transizione ecologica praticabile per l’intero Pianeta, che non si riduca all’illusoria “ecologia dei ricchi”, che sostituisce la Tesla elettrica al SUV a combustione interna, imponendo una sorta di “colonialismo verde” gestito dalle multinazionali a chi se lo può permettere e lasciando una parte dell’umanità in preda all’indigenza e alla fame. Per rendere credibile la solidarietà con le generazioni, proclamata a Rio nel 1992, occorre dimostrare e praticare, innanzitutto, la solidarietà con le attuali generazioni, con tutte le donne e gli uomini che si arrabattano per vivere dignitosamente oggi. Una simile impresa, con tanta speranza, era stata prefigurata proprio cinquant’anni fa dall’onu, il 1º maggio 1974, con la Dichiarazione per la creazione di un nuovo ordine economico internazionale che avrebbe dovuto porre fine allo sviluppo ineguale del colonialismo e del neocolonialismo, alla competizione truccata dalla supremazia delle multinazionali, della grande finanza, degli armamenti che permetteva all’Occidente di estrarre a piacimento risorse naturali dal Sud del mondo, strangolandolo nel contempo con il gap tecnologico e l’indebitamento strutturale6. Come sappiamo, la controrivoluzione neoliberista guidata dagli usa a partire dagli anni Ottanta si è sbarazzata sia del “nuovo ordine economico”, sia della “primavera ecologica” sbocciata nei primi anni Settanta7.

Ma in questo mezzo secolo, che ha visto la caduta del blocco comunista e l’illusione del trionfo incontrastato dell’Occidente e della globalizzazione, dell’unum imperium e, quindi, della “fine della storia”, da almeno un decennio si è aperta una fase del tutto inedita, con il cosiddetto nuovo Sud globale, costituito dai brics, Brasile, Russia, India e Sud Africa, cui si sono aggiunti Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Egitto ed Etiopia. Questi rappresentano oggi il 27 per cento della ricchezza, il 41 per cento della popolazione e il 42 per cento della produzione petrolifera mondiale e vogliono rendersi protagonisti del proprio destino, svincolarsi dalla subalternità all’Occidente e affermare un multipolarismo alla pari. Paradossalmente, oggi, vi sarebbero le condizioni strutturali per concordare un “nuovo ordine internazionale” fondato sulla cooperazione paritaria e sulla solidarietà per affrontare le sfide epocali comuni, la crisi ecologica e l’eradicamento della fame e della povertà.

Purtroppo sembra che l’Occidente e il G7, ovvero i presunti sette grandi, non intendano prendere atto della realtà, illudendosi di poter mantenere il proprio dominio sul mondo grazie alla superiorità del proprio “complesso industriale-militare”, che forse possono ancora vantare e che stanno mettendo pericolosamente alla prova nelle due guerre, Ucraina e Palestina, in corso in teatri geopolitici strategici.

Ebbene, se la competizione economica è di per sé ostile alla prospettiva di un mondo pacificato con l’ambiente e tra gli umani, il conflitto armato ne è il nemico mortale, producendo inevitabilmente addirittura una regressione difficilmente arrestabile e di proporzioni potenzialmente catastrofiche.

Ed è impressionante come da parte di diversi leader europei si parli apertamente di possibile guerra atomica e di quasi inevitabile guerra fra nato e Russia in Europa, a cui dobbiamo prepararci. Incredibilmente, d’acchito e con noncuranza, si smentisce la ragione fondativa dell’Unione europea, quella per decenni ripetuta, non senza sacralità, ai popoli del Vecchio continente, in particolare agli euroscettici, ovvero la definitiva archiviazione della guerra e la costituzione di un’area di pace perpetua. Di fronte a questo “tradimento” è ancor più stupefacente la timida reazione dell’opinione pubblica europea e nazionale. Anche di quella più avveduta. Giustamente è stato fatto notare da alcuni come nelle commemorazioni dello scorso 25 aprile questo tema dovesse essere centrale, prevalente se non unico. Invece ci si è appassionati per un appello alla presidente del governo Meloni perché si dichiari esplicitamente antifascista, negando la sua identità e la sua storia. Massimo Cacciari ha fatto notare l’illogicità di tale richiesta, che trova solo un senso nella speranza di poter ridurre il consenso di cui gode la premier, smascherata per il suo insuperabile anti-antifascismo. Poca cosa, a mio parere, rispetto alle nubi cariche di morte che oscurano il nostro orizzonte. In quel 25 aprile, il governo e tutti i partiti andavano incalzati sul rispetto dell’articolo 11 della Costituzione, un articolo che impone il divieto a fornire armi sia all’Ucraina che a Israele, paesi in guerra e non legati da patti internazionali, e a condurre una missione militare nel Golfo del tutto illegale, in quanto non autorizzata dall’onu; un articolo che invece indica la trattativa come via per risolvere le controversie internazionali.

Al contrario la strada scelta dall’Europa e con ancor più convinzione dal nostro Pese è stata quella di accodarsi agli usa nella prova di forza militare, ancorché indiretta e per procura, con le nuove potenze emergenti estranee all’Occidente, la Russia e l’Iran, anche per testarne la tenuta dei legami e delle alleanze con il nuovo Sud globale.

Nel frattempo un primo effetto disastroso si sta realizzando: l’Europa che in passato aveva cercato di proporsi come leader mondiale della transizione ecologica ha rapidamente rimesso nel cassetto i propri programmi concentrando le risorse sulla corsa alle armi.

È d’obbligo segnalare, a questo proposito, l’ebook messo in rete il 2 maggio scorso da Sbilanciamoci e Greenpeace su Spesa militare e industria delle armi in Europa e in Italia8, con una bella prefazione di Carlo Rovelli, nel quale leggiamo:

Nel 2023 la spesa per gli armamenti nei Paesi ue della nato ha raggiunto i 64,6 miliardi di euro (+168% nel decennio); la Germania ha triplicato la spesa, raggiungendo i 13 miliardi di euro; l’Italia ha raggiunto i 5,9 miliardi; la Spagna i 4,3 miliardi. Le importazioni di armi della ue (in base ai dati del sipri) hanno subito un’impennata e sono triplicate tra il 2018 e il 2022; la metà di tutte le importazioni proviene dagli Stati Uniti9.

Va aggiunto che la Commissione propone come unico debito comune quello per la Difesa, ovvero per la spesa in armamenti, sul modello dell’eccezionale precedente dell’emergenza Covid. Un doppio scandalo anche questo apparentemente assorbito come ineluttabile: vergognoso è accostare le armi, strumenti di morte, ai provvedimenti emergenziali per salvare vite umane, come è a dir poco sorprendente la tardiva riscoperta di Keynes votata unicamente al riarmo, mentre il debito pubblico comune continua ad essere escluso per il welfare e per la transizione ecologica, dove il neoliberismo rimane imperante.

Va da sé che, se si concentrano le risorse pubbliche sugli armamenti, la transizione ecologica può slittare alle calende greche. Basta porre attenzione al sistema massmediatico di questi tempi di guerra e appare evidente come la questione ecologica e con essa la questione sociale siano uscite di scena.

Si tratta di un effetto collaterale tremendo della guerra che ci dovrebbe richiamare tutti – ambientalisti, antifascisti, democratici, “uomini e donne di buona volontà”, conservatori con la testa sulle spalle – a porre come centrale il tema della pace, quindi del cessate il fuoco e della ricerca di soluzioni negoziali nei conflitti in corso. Sapendo che in prospettiva bisogna operare perché l’Occidente si incammini verso una “coesistenza pacifica” con i Paesi emergenti nel segno della cooperazione alla pari, rinunciando definitivamente alle pretese di supremazia sul resto del mondo ed affrontando insieme le grandi emergenze dell’umanità, quella ecologica e quella sociale.

1 G. Nebbia, Le merci e i valori, Fondazione Luigi Micheletti-Jaca Book, Brescia-Milano 2002, p. 27.

2 G. Nebbia, L’industria chimica in valle Bormida, Giornata di studio, Cortemilia 19 giugno 1994, in P. P. Poggio (a cura di), Una storia ad alto rischio. L’ACNA e la Valle Bormida, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996, pp. 33‐50.

3 La relazione sarebbe successivamente diventata un volume: V. A. Leuzzi, Inferno su Bari. Bombe e contaminazione chimica. 1943-1945, Edizioni Dal Sud, Bari 2013.

4 Si veda una ricostruzione approfondita di questa brutta storia: G. Di Feo, Veleni di Stato, Rizzoli, Milano 2009.

5 G. Nebbia, La chimica di morte, https://www.musilbrescia.it/minisiti/la_chimica_in_italia/contenuti/racconti_di_chimica_in_Italia_e_nel_mondo/4.La_chimica_di_morte_Nebbia.pdf.

6 G. Garavini, Basta colonialismo. Col Sud si dialoghi, in “Il Fatto quotidiano”, 1° maggio 2024.

7 Per la “primavera ecologica” si rinvia ai documenti pubblicati nei dossier della rivista “Altronovecento”, dedicati la 1970 e al 1972: M. Ruzzenenti (a cura di), Dossier 1970. Sboccia la “primavera ecologica”. Un passato che può essere prologo per un nuovo inizio, in “Altronovecento. Ambiente Tecnica Società”, n. 43, 1 dicembre 2020, https://altronovecento.fondazionemicheletti.eu/dossier-1970-sboccia-la-primavera-ecologica-un-passato-che-puo-essere-prologo-per-un-nuovo-inizio/; M. Ruzzenenti (a cura di) , 1972. L’anno lungo dell’ecologia, in “Altronovecento. Ambiente Tecnica Società”, n. 46, 20 dicembre 2022, https://altronovecento.fondazionemicheletti.eu/1972-lanno-lungo-dellecologia/; Dossier 1972, in “Altronovecento. Ambiente Tecnica Società”, n. 47, 1° luglio 2023, https://altronovecento.fondazionemicheletti.eu/editoriale-n47/.

8 Sbilanciamoci, Greenpeace, Economia a mano armata 2024. Spesa militare e industria delle armi in Europa e in Italia, Roma 2 maggio 2024, scaricabile gratuitamente https://sbilanciamoci.info/fermiamo-la-nostra-corsa-alle-armi/.

9 Ivi, p. 19.

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