Nella seduta della Camera del martedì 7 aprile 1970, sei deputati liguri (Giorgio Bini, Sergio Ceravolo e Giuseppe D’Alema per il PCI, Stefano Carrara Sutour e Giorgio Canestri per il PSIUP e Ermido Santi per il PSI) presentano all’allora ministro della pubblica istruzione Misasi tre interpellanze. Tutte e tre chiedono al ministro “ se sia a conoscenza dei gravissimi atti di repressione recentemente verificatisi all’Istituto magistrale Lambruschini di Genova-Sampierdarena, sotto lo specioso pretesto dell’applicazione di un regolamento fascista, che risale al 1925, e in una linea di intimidazione e di violenza contro tutti coloro che, professori e studenti, rifiutano la scuola caserma”.Le interpellanze proseguono poi con un breve resoconto degli avvenimenti e concludono chiedendo al ministro “s e in particolare sia a conoscenza del grave provvedimento di sospensione dalle lezioni, sino al termine dell’anno scolastico, di uno studente, per aver dato lettura di un documento elaborato dall’assemblea degli studenti, in cui erano contenute le seguenti parole « di un preside come lei non sappiamo cosa farcene » evidentemente prive di qualsiasi intento offensivo perché esprimono un giudizio sull’operato di questo preside e che in ogni modo derivando da una elaborazione collettiva non potevano comunque essere attribuite, se non strumentalmente, alla responsabilità del singolo”.
Quegli avvenimenti, consegnati grazie ai sei deputati liguri alle cronache parlamentari, marcarono una svolta radicale e decisiva nella mia vita.
Lo studente sospeso ero io. Ero stato, per esser precisi, “ espulso senza possibilità di iscrizione in nessuna altra scuola italiana fino alla fine dell’anno scolastico in corso per offese al corpo insegnante nella persona del preside ”, come testualmente recitava la lettera con cui mi era stato notificato il provvedimento disciplinare.
Ero arrivato al Lambruschini di Sampierdarena qualche mese prima, nell’ottobre del 1969, approdato lì dopo aver abbandonato due anni prima il seminario diocesano e poi il Mazzini di Pegli dove l’anno prima avevo frequentato il quarto anno di liceo classico. Mi ero iscritto direttamente all’ultimo anno delle magistrali dopo aver sostenuto un esame di ammissione in settembre. Il diploma magistrale apriva un accesso rapido al mercato del lavoro, mentre con la maturità classica il passaggio per università e laurea era obbligatorio. E io non avevo nessuna voglia di aspettare quattro anni in più per andar via di casa.
Anche se a Genova il sessantotto aveva assunto un tono minore rispetto a altre città come Torino, Milano o Roma, c’era comunque nell’aria un incontenibile desiderio di utopia, la voglia forte di strappare, lì e subito, la camicia di forza che immobilizzava la società, di sconquassare la ripartizione dei ruoli e degli statuti, non solo fra padroni e operai, ma anche fra sessi e generazioni. Il tratto che accomunò ovunque le masse di giovani che quell’anno si riversarono nelle strade e nelle piazze del mondo, e che rappresentò la radice più profonda delle proteste sessantottesche, fu la contestazione dell’autoritarismo. La scossa antiautoritaria aveva attraversato scuole e università, fabbriche e uffici, ma anche comparti della società che parevano inespugnabili per natura quali la chiesa e soprattutto la famiglia.
Fino a due anni prima ero stato uno studente modello, dalle elementari alla 4a liceo classico avevo collezionato borse di studio e complimenti degli insegnanti, ma l’onda d’urto del ’68 non stava solo scuotendo e incrinando le forme della rappresentazione politica e delle relazioni sociali, aveva mandato gambe all’aria anche il conformismo tranquillo della mia vita di adolescente di periferia.
I ricordi che mi restano del ’68 a Genova sono confusi, più che fatti e persone ricordo appunto un clima, una sorta di tensione, di accumulo di energia nell’aria, la sensazione che il campo del possibile si stesse dilatando.
Abitavo con la mia famiglia a Voltri e andavo a scuola a Pegli. Andare a Genova o anche solo a Sampierdarena era già andare altrove, quasi in un altro mondo. Ed era là -nelle piazze del centro, appunto- che tutto accadeva: le manifestazioni, le riunioni, le scadenze culturali, la vita vera insomma.
L’iscrizione alle magistrali, avvicinandomi al momento in cui avrei potuto lavorare e quindi affrancarmi dalla tutela familiare, mi permetteva da subito di essere laddove il movimento si costruiva e viveva.
La mia esperienza politica era assai limitata. Di formazione cattolica (avevo lasciato il seminario nel 67), ero approdato su invito d’una amica a Mani Tese, nascente associazione cattolica di ispirazione terzomondista che si proponeva di “sostenere la parte più povera dell’umanità nella lotta di liberazione da ingiustizie e disuguaglianze”,così almeno recitava il suo atto costitutivo. Un programma ambizioso, ma che nella pratica si traduceva nel farci raccogliere carta e stracci da rivendere per finanziare progetti di aiuto nei paesi del terzo mondo. Erano gli anni del dissenso cattolico, e la sede di Mani Tese, in Piazza Paolo da Novi, era un luogo di incontro e di interminabili dibattiti che accoglieva non solo giovani cattolici ma anche giovani con qualche vaga simpatia comunista. Fu in Mani Tese che partecipai per la prima volta all’organizzazione di una manifestazione. Il 9 maggio 1969 furono trucidati in Biafra nove tecnici italiani che lavoravano nei campi petroliferi dell’ENI. Governo e stampa fecero a gara nello stilare proclami sdegnati contro i “selvaggi” (la parola terrorista non era ancora entrata nell’uso corrente) che avevano commesso la strage. Per noi di Mani Tese invece il tragico avvenimento era l’esempio stesso delle assurdità a cui inevitabilmente conduceva l’appetito delle multinazionali che, andando a spogliare i popoli del terzo mondo, esponevano i loro impiegati a feroci rappresaglie. Fu quindi l’occasione per schierarsi con i popoli del terzo mondo e contro l’imperialismo. Occupammo dunque piazza De Ferrari con cartelli, striscioni, panini, bottiglie di vino, chitarre e sacchi a pelo. Era un sabato pomeriggio di fine maggio e tirammo avanti fino al mattino. Per qualche ora De Ferrari divenne zona liberata, un momento di incontro e di dibattito, dove chiunque poteva confrontarsi e discutere. Oggi la cosa sembra banale, ma allora fu una grande novità, qualche centinaio di persone si fermò a discutere, alcuni fecero mattino con noi. Fu lì che incontrai per la prima volta dei militanti comunisti rivoluzionari. Erano ex iscritti alla FGCI, figli di partigiani e ferventi maoisti, avevano dato vita a Sturla a un circolo marxista-leninista che rivendicava una marcata simpatia per il PCd’I (M-L). Mi invitarono alle loro riunioni. Si riunivano in una cantina, i partecipanti avevano l’aria di carbonari, ma si limitavano a leggere i testi classici del leninismo e a farne una puntigliosa esegesi. Devo confessare che non ci capivo un granché e lasciai presto perdere, ma per il semplice fatto di aver partecipato ad alcune di quelle riunioni finii anch’io per considerarmi un militante rivoluzionario. Fu così che all’inizio del nuovo anno scolastico, nell’ottobre del 1969, cominciai a frequentare il GOS di Sampierdarena e ad animare il movimento studentesco del Lambruschini. Ricordo che la nostra analisi politica era assai sommaria: la scuola era un’articolazione del sistema capitalistico, lo strumento di cui i padroni si servivano per formare la forza lavoro da sfruttare e il luogo che aveva il compito di trasmettere i valori borghesi dell’individualismo, dell’arrivismo e della competizione. Nostro compito era bloccarla, impedirle di realizzare gli obiettivi che il potere le aveva affidato e per quanto possibile farne luogo di sperimentazione di vita collettiva, di scambio dei saperi, di creatività rivoluzionaria. Cominciammo con rivendicare l’abolizione dei voti e imponemmo i compiti in classe collettivi. Lo scontro con la direzione fu frontale e finì appunto con la mia sospensione.
Le manifestazioni che seguirono, coinvolgendo gran parte delle scuole di Genova con migliaia di studenti in piazza per alcuni giorni e l’assemblea permanente con blocco illimitato delle lezioni al Lambruschini, finirono per far scendere ministro, provveditore e preside a più miti compromessi. A fine marzo, mi fu ufficialmente comunicato che -pur senza poter frequentare le lezioni- ero ammesso all’esame di maturità come alunno interno. Alla maturità fui promosso e nell’autunno del 1970 cominciai a lavorare come insegnante supplente nelle elementari.
Il clima politico negli ultimi mesi aveva subitamente perso il carattere festivo e scanzonato che aveva contraddistinto le lotte studentesche degli anni precedenti. Nel 1969, all’occasione dei rinnovi contrattuali, erano scesi in campo gli operai. A Torino in Corso Traiano, agli inizi di luglio, la polizia attacca un corteo di migliaia di operai e studenti che dalla Fiat si dirige verso i quartieri e le altre fabbriche. Gli operai Fiat con già alle spalle più di cinquanta giorni di blocco della produzione, resistono e danno battaglia. Le organizzazioni sindacali sono marginalizzate. A dicembre esplodono le bombe fasciste alla Banca dell’Agricoltura a Milano. Il 1970 segna la fine del movimento studentesco come entità autonoma, a Genova il GOS si dissolve, alcuni dei suoi militanti aderiscono alla FGCI, la maggioranza invece confluisce nelle varie organizzazioni rivoluzionarie che, come altrove in Italia, fanno in quel periodo la loro apparizione in città. Io optai per Lotta Continua. A Genova fui uno dei suoi primi militanti, all’inizio non eravamo più di una ventina, c’erano alcuni operai, degli studenti medi e universitari e qualche proletario del centro storico.
Più che una scelta ideologica aderire a LC fu per me una scelta istintiva, la sua pratica politica corrispondeva assai bene al mio carattere. Avanzare in gruppo, costruire l’organizzazione rivoluzionaria dal basso sulla pratica delle lotte, sentirsi liberi da dogmi di ogni tipo (compresi quelli della tradizione marxista), la voglia di far vivere il comunismo subito senza aspettare il giorno x della rivoluzione, il simpatico logo che simboleggiava un modo di essere e lottare insieme (raccolti come un pugno chiuso che avanza e che non conosce ostacoli visto che se ne va verso il cielo). E soprattutto c’era per me (ma credo per la gran parte dei suoi militanti) l’ineffabile sentimento di appartenenza al “branco”, il far parte di una banda. Le altre organizzazioni ci accusavano di “spontaneismo”, ma noi non ne avevamo cura e avevamo aderito proprio perché LC ci invitava a considerare il mondo intorno a noi come un immenso campo di sperimentazione.
Dato il mio percorso, in LC mi occupavo del settore scuola. Ero il responsabile genovese degli studenti di LC e in quanto tale facevo parte della Commissione Nazionale Scuola. In particolare mi occupavo dei CPS (Comitati Politici Studenteschi) che erano l’organizzazione di massa degli studenti. In effetti, malgrado il suo spontaneismo, LC coltivava una netta distinzione fra “avanguardie” e “organizzazioni di massa”. Le avanguardie eravamo noi, i militanti di LC, mentre nelle organizzazioni di massa ci stavano dentro tutti quelli che condividevano le nostre proposte sui settori di intervento che li concernevano: gli studenti stavano neiCPS, i militari in Proletari in divisa, i detenuti nei Dannati della Terra, chi si occupava o lavorava nei settori della cultura e dello spettacolo stava nei Circoli Ottobre, e via di seguito. I CPS erano presenti in quasi tutte le scuole di Sampierdarena e in molte del centro. In alcune, soprattutto a Sampierdarena, LC esercitava una certa egemonia politica (al Lambruschini, al Fermi, al Casaregis, all’Abba, all’Artistico, all’Agrario di Nervi), in altre dovevamo fare i conti con Potere Operaio (come al Chimico e al Mazzini). A me spettava il compito di coordinare l’intervento quotidiano nelle scuole cittadine e animare il dibattito politico nei rispettivi CPS.
Essendo un militante a tempo pieno, ero però disponibile per ogni altro tipo d’intervento. Avendo abitato a Voltri, partecipavo e animavo la sezione che LC aveva aperto lì e in questa veste fui uno degli organizzatori dell’occupazione delle case al CEP di Palmaro. L’occupazione del CEP fu a Genova una delle poche realtà, se non l’unica, in cui riuscimmo a far sì che un’iniziativa di lotta avesse una vera e propria adesione popolare e finisse anche per ottenere una modesta vittoria permettendo ad un certo numero di famiglie di migliorare la propria condizione ottenendo una casa salubre. Erano famiglie che venivano da Cornigliano, abitavano in case fatiscenti costruite a ridosso dell’Italsider, i muri delle stanze erano ricoperte da uno strato di fuliggine marrone e le condizioni di igiene e di salute legati all’inquinamento erano insopportabili. L’occupazione del CEP rimase comunque un fatto isolato, neppure quella lotta riuscì a diventare un catalizzatore capace di favorire il nascere di un fronte più ampio, se non di insubordinazione anti-capitalistica almeno di rimessa in discussione dell’immobilismo regnante in città. Anzi, il CEP finì per divenire un luogo di scontro, a tratti anche fisico, fra Lotta Continua che fu l’iniziatrice dell’occupazione e Lotta Comunista che cercò in un secondo tempo di dirigerla politicamente.
Genova, malgrado la sua fama di ribelle, restava una città abbastanza impermeabile ai richiami dell’insubordinazione radicale alla logica capitalistica. Era una città presa in tenaglia da tre poteri conservatori e pareva incapace di sottrarsene: quello industriale dominato dalle famiglie Costa e Garrone; quello del Partito comunista, che nel 1968 era diventato il primo partito della città e che, con la sua rete di sezioni, circoli Arci e appendici sindacali esercitava un controllo capillare su ogni possibile iniziativa politica nei quartieri e nelle fabbriche; quello della Curia del cardinale Giuseppe Siri che con il suo fitto tessuto di parrocchie e associazioni caritative capeggiate dalla democristiana Ines Boffardi gestiva lo sconfinato acquitrino del clientelismo cittadino. Per i gruppi rivoluzionari lo spazio d’intervento era esiguo. La classe operaia genovese non si è mai azzardata in quegli anni a scendere sul terreno dell’antagonismo radicale ed è sempre rimasta infeudata al PCI e al sindacato.
Certo, ci sono stati qua e là conflitti e lotte, ma mai veramente significativi, malgrado che i gruppi rivoluzionari, primo fra tutti LC, ne amplificassero artificialmente portata e senso. Esistere politicamente in città era difficile, allora era grande la tentazione di usare tutti i mezzi, forza compresa, per cercare di imporre la propria egemonia sul quel poco di antagonismo che la città riusciva talvolta a esprimere. Lo scontro fu talvolta particolarmente duro fra Lotta Continua e Lotta Comunista, ma anche fra ciascuna delle organizzazioni rivoluzionarie e il PCI, soprattutto nelle fabbriche del ponente. La battaglia di tutti contro tutti per affermare la propria egemonia politica in città riassume bene il groviglio di contraddizioni in cui si dibattevano i militanti rivoluzionari in quegli anni, l’arena politica era un crogiolo in cui generosità e miserie degli uni e degli altri, analisi intelligenti e opportunismi ottusi si sono spesso mescolati e confusi. Soprattutto quando, a cavallo fra il 1972 e il 1973, il dibattito sulla presa del potere cominciò a farsi strada, anche se in maniera confusa e approssimativa, e con lui tutta la problematica sull’uso della violenza.
Nel marzo del 1972 le BR sequestravano il dirigente della Siemens Macchiarini a Milano e Feltrinelli moriva su un traliccio a Segrate. In quello stesso periodo gli attentati fascisti si ripetevano con la loro scia di morti e le voci di colpo di stato imminente parevano ogni giorno più verosimili. La situazione politica in Italia era gravida di foschi presagi. Il dibattito sulla lotta armata comincia allora a traversare il movimento e il golpe cileno del 1973 finirà poi per legittimarne tragicamente l’attualità.
Vista la piega che hanno preso in seguito gli avvenimenti e la fine fatta dal movimento antagonista in Italia è facile, a posteriori, indossare gli abiti dei moderati e perdersi in distinguo morali, ma allora era mia ferma convinzione, e non solo mia, che la lotta armata fosse l’unica strada praticabile per la presa del potere e me ne sentivo confortato proprio dalle prese di posizione dell’organizzazione a cui appartenevo. Lotta Continua era passata dalla parola d’ordine del “prendiamoci la città” del congresso del 1971 a quella dello “scontro generale”. Nessuno di noi ebbe la minima perplessità, anzi ben al contrario, quando Sofri nel suo documento preparatorio al congresso di Rimini tenutosi nella primavera del 1972, ci invitava a “prepararsi e preparare il movimento a uno scontro generalizzato, con un programma politico che ha come avversario lo stato e che ha come strumento l’esercizio della violenza rivoluzionaria, di massa e di avanguardia”, e tutti nei cortei cantavamo con convinzione “cosa vuoi di più, compagno, per capire che è suonata l’ora del fucile?”.
Lotta contro il caro-pane al Lagaccio, mercato rosso nel centro storico, occupazione del CEP, lotta contro il caro-vita con sciopero delle bollette in centro storico e in Valpolcevera, interventi sugli autobus per organizzare lo sciopero del biglietto, lotta per la salvaguardia del quartiere di via Madre di Dio dalla demolizione, lotta per il salario garantito in porto: il biennio 1972/1973 fu per noi militanti di LC senz’altro il più prolifico e il più creativo. Preparare lo Scontro Generale voleva dire per noi intensificare gli sforzi per radicarsi sul territorio e far nascere spazi autonomi di autogestione e libertà. Ma non solo.
Molti di noi consideravano che, in quanto avanguardie, avevamo il dovere di cominciare a riflettere su forme di organizzazione più efficaci e capaci di proteggersi non solo dalla repressione statale e dagli attacchi fascisti, ma che avessero anche una funzione di esemplarità. Il servizio d’ordine cominciò a strutturarsi allora come corpo specializzato all’interno dell’organizzazione e acquisì anche una più ampia latitudine di intervento autonomo.
Quando nel maggio del 1974 l’ennesima bomba fascista scoppiò a Brescia facendo otto morti e 94 feriti, il servizio d’ordine di LC a Genova, come altrove, si sentì legittimato a rispondere. Il giorno dopo era stato indetto un corteo unitario di protesta a Genova da sindacati, ANPI e forze di sinistra. Durante il comizio, che si tiene a De Ferrari, il servizio d’ordine di LC attaccò la sede della CISNAL (il sindacato fascista) in vico San Matteo: la porta venne sfondata e mobili e archivi furono lanciati dalla finestra e per le scale. La riposta ci parve però ancora troppo limitata e nel pomeriggio si decise d’attaccare i fascisti in uno dei loro abituali luoghi di ritrovo, spianata Castelletto. Dovevamo essere una ventina o forse anche più, con passamontagna calati in volto e spranghe in mano. Quando siamo sbucati sulla Spianata, i fascisti hanno estratto le pistole e hanno cominciato a spararci addosso. Abbandonammo immediatamente l’impresa e ripiegammo.
Le reazioni all’interno di LC furono tutt’altro che favorevoli e la durezza che caratterizzò il dibattito che seguì sorprese la maggior parte di quelli che avevano partecipato all’azione. Più che sull’opportunità dell’azione stessa, la critica si focalizzò sulle conseguenze in termini d’immagine, e probabilmente anche giudiziarie, che ne sarebbero derivate nel caso che uno dei nostri fosse stato colpito dai fascisti, visto che nella fattispecie eravamo noi gli aggressori. Il dibattito, che in un primo tempo aveva opposto favorevoli e contrari a quel tipo di iniziative, finì per cristallizzarsi intorno all’uso della violenza nella lotta politica e divenne rapidamente scontro fra posizioni inconciliabili. Malgrado l’intervento della direzione nazionale che cercò di ricucire lo strappo, dando ragione agli uni senza poter dare torto agli altri, la crisi nella sede genovese di LC si rivelò insanabile ed ebbe come conseguenza immediata la fuoriuscita di un certo numero di compagni. Io fui uno di loro, e con me lasciarono l’organizzazione anche quasi tutti gli studenti medi e una parte degli universitari.
Nei mesi seguenti diedi vita al COS (Coordinamento Operai-Studenti), organismo che raggruppava fuoriusciti da LC, militanti di Avanguardia Operaia e militanti dei CPS. L’esperienza fu di corta durata, tanto che alla fine del 1975 era già conclusa, estinta per mancanza di prospettive. Avevo solo venticinque anni e d’un tratto vedevo l’orizzonte offuscarsi. Dal 68 in poi la vita mi era parsa seminata di incroci con così tante strade che s’aprivano davanti a me che avevo solo l’imbarazzo della scelta. Di colpo avevo invece la sensazione che il campo delle scelte possibili si fosse ristretto drasticamente. Lo slogan “né con lo Stato, né con le BR” che, rivendicando una improbabile neutralità, rivelava la difficoltà di molti militanti a trovare una collocazione nello scontro in atto, fece la sua apparizione qualche anno più tardi, nel 1978, dopo la morte di Aldo Moro. Per me l’alternativa se stare da una parte o dall’altra si presentò già allora, agli inizi del 1976, e non tenni neppure conto dell’ipotesi della neutralità, probabilmente perché non era nel mio carattere, ma anche e soprattutto perché la cultura politica di cui ero intriso la escludeva d’ufficio. Entrai nelle BR, perché -paradossalmente- mi sembrò la sola scelta ragionevole. Consideravo in effetti che la scelta non fosse fra le BR e lo stato, ma fra la possibilità di continuare a dare un senso alla mia vita e la piatta accettazione dello “stato di cose presente”.
Non impiegai molto però a rendermi conto dell’incompatibilità che c’era fra il grigiore della pratica politica quotidiana di un’organizzazione clandestina e quella che mi faceva immaginare la mia voglia di rivoluzione. Il dibattito politico nelle BR era striminzito, povero, episodico; incontravo sempre lo stesso compagno ed è con lui che discutevo di tanto in tanto; che fine facessero le mie proposte, i miei dubbi, i miei eventuali disaccordi non ne avevo la minima idea. La gran parte del tempo la si passava a discutere di obiettivi da preparare, di inchieste in vista di azioni future, a leggere corposi e indigesti documenti aziendali per capire chi tirasse le fila nelle singole imprese della ristrutturazione industriale e chi ne occupasse i posti di comando. Si era in una logica impiegatizia, con poco spazio per gli entusiasmi, in fondo si entrava nelle BR come in un ordine religioso, il comunismo era come il paradiso, per dopo. Ero stato in seminario ed ero vaccinato per l’eternità contro quel tipo di logica, che era per me decisamente poco seducente.
Nel giugno del 1976, dopo sei mesi di militanza nella colonna genovese, dovetti rispondere alla chiamata di leva e i legami con l’organizzazione divennero allora episodici e limitati a qualche incontro sporadico. Quando nell’aprile del 1977, dopo il congedo, ritornai a essere operativo, cominciai rapidamente a meglio misurare la distanza che si era installata fra la mia concezione della lotta politica e quella che presiedeva alle pratiche dell’organizzazione. Dalla “propaganda armata” si stava passando alla “guerra guerreggiata”, durante la mia assenza a Genova in particolare il livello dello scontro si era alzato di colpo con l’esecuzione del procuratore capo Coco. Pur non avendo evidenti disaccordi di analisi sulla situazione politica, sentivo un fastidioso sfasamento con la pratica politica delle BR. Ne parlai al compagno con cui avevo ripreso a far lavoro politico e convenimmo che era meglio che prendessi un tempo di riflessione. I miei rapporti con l’organizzazione finirono quel giorno, la regola della clandestinità era inflessibile, non lasciava spazio per altro tipo di relazioni.
Anche se si potrebbe esser tentati di qualificare la mia militanza nelle BR come un incidente di percorso, essa marcò in maniera indelebile il resto della mia vita. Arrestato nel blitz del giugno 1979 dai carabinieri di Dalla Chiesa, come i miei sedici coimputati fui anch’io assolto al processo e rimesso in libertà nel giugno del 1980 dopo un anno di galera. La storia è nota: gli uomini di Dalla Chiesa avevano sparato nel mucchio affidandosi al caso e costruendo false accuse sostenute da falsi testimoni. Nel frattempo però la figura del pentito aveva fatto la sua apparizione. Quattro mesi dopo, grazie a una di quelle anime belle, ero di nuovo ricercato e sfuggii di un soffio all’arresto sgusciando via dalle mani di una pattuglia dei NOCS un attimo prima che mi chiudessero le manette ai polsi. Erano passati dieci anni da quella assemblea del Lambruschini in cui la lettura di un documento in assemblea mi era valsa un’espulsione e gli onori delle cronache parlamentari.
Lasciai l’Italia nei mesi seguenti per rifugiarmi in Francia. Dopo un iter giudiziario dei più tortuosi, in cui i processi si susseguivano ai processi, le condanne alle assoluzioni, per finire con sentenze della Corte di Cassazione che invitava a ricominciare tutto da capo in altre città, alla fine degli anni ’80 arrivò la sentenza definitiva. Fui condannato a otto anni per partecipazione a banda armata e per il ferimento del segretario regionale della Democrazia Cristiana Angelo Sibilla. Il cumulo di misure di indulto e le mini-amnistie erogate durante gli anni ’80/90, ridusse la pena da scontare a meno di cinque anni. Nel 1997, al termine di quattordici anni di latitanza e dopo aver scontato 2 anni e 3 mesi di prigione e un anno di affidamento ai servizi sociali, ho finalmente chiuso il contenzioso con la giustizia italiana e riacquistato la mia libertà di movimento.
Ripercorrendo con la memoria quel decennio, cavalcato con foga sull’onda lunga del 68, continuo a chiedermi -senza veramente trovare risposte- perché ho seguito quel percorso piuttosto che un altro e una sorta di vertigine mi invade al pensiero di ciò che avrei potuto essere e che non sono stato. Gli anni del 68 hanno colorato tutto il resto della mia vita, le hanno dato un senso e non hanno mai smesso di abitarmi, prolungandosi nei ricordi. Perché vivere è ostinarsi a portare a compimento un ricordo, scriveva Réné Char. A pensarci bene, non c’è niente di più mutante del passato proprio perché il presente non cessa di riorganizzarlo a proprio profitto, i nostri ricordi non cessano di trasformarsi e di trasformarci mentre noi tentiamo di farli rimontare alla superficie, di rituffarci dentro e di dar loro un senso.
Parafrasando Elliot potremmo dire che la fine è il luogo da dove partiamo e la fine di tutte le nostre esplorazioni sarà probabilmente arrivare laddove siamo partiti e di conoscere il luogo per la prima volta. Perché questo luogo da cui partiamo è ogni giorno un luogo nuovo e questo posto ogni giorno nuovo ricolora l’inizio, il luogo da dove siamo partiti, e noi lo riscopriamo ogni volta per la prima volta.
Parigi, 22 novembre 2016