Indice
Il potere ai bacini idrografici
La scarsità di acqua di buona qualità in quantità sufficiente per un adeguato sviluppo civile e sociale, e il dissesto idrogeologico hanno le loro comuni radici nella mancanza di una politica unitaria del territorio.
Dai tempi dell’alluvione del Polesine (1951) a quelli dell’alluvione di Firenze (1966) e di tutte le altre frane e alluvioni, in occasione di tutti i gravi episodi di mancanza di acqua e di inquinamento, gli studiosi hanno chiaramente indicato che la gestione del territorio poteva essere affrontata in modo corretto soltanto riconoscendo che il bacino idrografico è l’unica unità di riferimento ecologicamente sensata. Le parole degli studiosi sono rimaste inascoltate: infatti ben pochi bacini idrografici hanno confini che coincidono con quelli amministrativi per cui la gestione per bacini idrografici avrebbe richiesto un coordinamento, una solidarietà fra regioni vicine, il confronto fra linee politiche ideologicamente anche diverse, la spartizione di poteri amministrativi e di finanziamenti.
Soltanto nel 1989 il Parlamento ha emanato una “legge per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo” che di fatto riscrive la geografia politica e amministrativa del nostro paese. La “centottantatre”, riconosce che la difesa del suolo e delle acque richiede azioni di “pianificazione” (è proprio usato questo termine di suono “bolscevico”) da svolgere nell’ambito dei bacini idrografici, suddivisi in nazionali, interregionali e regionali.
La pianificazione deve avvenire sulla base di “piani di bacino” elaborati da “autorità di bacino”, in cui sono presenti i rappresentanti delle amministrazioni locali ma che, secondo lo spirito e la lettera della legge, dovrebbero coordinare e mediare interessi contrapposti, anche politicamente contrapposti. Nei quindici anni trascorsi sono state costituite le autorità di bacino, raramente sono stati fatti piani di bacino che rispettassero le indicazioni della legge (l’art. 17 è molto preciso a questo proposito), raramente sono state fatte le indagini che pure la legge prescrive e che dovrebbero indicare i flussi di acqua, le presenze umane, produttive, agricole e zootecniche, i flussi di rifiuti che finiscono negli affluenti e nei fiumi principali di ciascun bacino, lo stato delle coste che pure sono influenzate dal trasporto solido delle acque di ciascun bacino.
Per lo più lo spirito della legge è rimasto sulla carta: sono stati fatti dei finti “piani di bacino” limitati ad elenchi di fabbisogni finanziari; spesso stralci per spendere i soldi che arrivavano ad ogni emergenza, di siccità o alluvioni, e molti soldi sono stati anche spesi, ma in molti casi sono stati “spartiti” fra le Regioni vicine, fra le zone vicine, al di fuori di un piano e di un coordinamento.
La soluzione dei problemi idrici, idrogeologici ed ecologici di ciascuna parte d’Italia dipende dalla volontà degli amministratori, delle forze produttive (lavoratori e imprenditori) e delle forze intellettuali, di affrontare radicalmente la gestione del territorio per bacini idrografici secondo lo spirito della legge 183.
L’approvvigionamento idrico per le città, le industrie, l’agricoltura, potrà essere assicurato con lo sguardo rivolto alle generazioni future, non solo depurando le acque usate, ma modificando i cicli produttivi agricoli, industriali e zootecnici, realizzando bacini di raccolta e opere di trasporto dell’acqua, attraverso interventi di difesa del suolo con il rimboschimento e la ricostruzione della copertura vegetale, attraverso il ricupero delle terre marginali e la difesa degli alvei, delle golene e degli argini dei fiumi, attraverso una politica di coordinamento degli enti preposti alla distribuzione dell’acqua – da quelli acquedottistici ai consorzi di bonifica – attraverso interventi tecnici e una politica tariffaria che scoraggino gli sprechi. Tutte queste e altre iniziative sono ben chiaramente indicate fra i compiti di pianificazione assegnati alle autorità di bacino dalla legge 183.
Mi rendo conto della difficoltà del lavoro da fare; molti enti locali dovranno rinunciare ad una parte del proprio potere, dovranno imparare a lavorare con altri soggetti amministrativi, economici e sociali. Ci sono stati quindici anni di tempo, finora sprecato, per arrivare al coordinamento fra i bacini idrografici, geograficamente ben definiti, anche se la legge prevede accorpamenti al fine di non dispiacere regioni vicine, e a bacini di utenza ai fini della raccolta e della distribuzione dell’acqua potabile. Ma l’efficacia delle opere di approvvigionamento e distribuzione dell’acqua potabile rischia di essere vanificata se tali opere non tengono conto delle dimensioni ed estensioni dei bacini idrografici.
La pianificazione per bacini idrografici offre l’occasione anche per attuare una diversa maniera di valutare costi e investimenti. Se si misurasse il costo, per la collettività italiana, delle distruzioni di beni – fertilità dei campi, abitazioni, strade e fabbriche, per non parlare del costo delle vite umane e del patrimonio storico-culturale distrutto, che non ha prezzo – dovute a frane, alluvioni e siccità, si vedrebbe che il costo delle opere di attuazione di quanto disposto per la difesa del suolo risulterebbe di gran lunga minore. Però manca ancora una cultura amministrativa capace di confrontare i costi evitati futuri con i costi da affrontare oggi.
Il successo della nuova maniera di amministrare il territorio dipende anche da una azione educativa da fare nelle scuole e nelle Università; non basta raccomandare il risparmio dell’acqua – alcuni, pochi enti acquedottistici lo fanno – o fare dell’”ecologia”. Occorre diffondere una “cultura” dell’acqua e dei bacini idrografici, capace di aiutare le nuove generazioni a ragionare in termini di moto delle acque, di erosione del suolo, di uso razionale e parsimonioso dell’acqua nelle città, nelle fabbriche, nei campi, capace di sollecitare una domanda di processi di depurazione delle acque contaminate. A mio parere sarebbe di grande importanza la diffusione e la crescita di uno spirito di solidarietà e appartenenza non ad una regione amministrativa, ma ad un bacino idrografico; un abitante di Cremona non “appartiene” alla Lombardia, ma al bacino idrografico del Po, essendo inquinato dagli scarichi che avvengono a Torino ed essendo fonte di inquinamento per gli abitanti del Polesine; un abitante di Barletta non “appartiene” alla Puglia, ma al bacino idrografico dell’Ofanto che si stende in Campania e Basilicata oltre che in Puglia. Ho sempre sognato che nelle scuole venisse distribuita una cartina geografica d’Italia in cui al posto dei confini regionali fossero segnati i confini dei bacini idrografici.
Il premio per chi vorrà affrontare questo compito sarà da una parte la possibilità di evitare i costi dovuti alla riparazione dei danni delle future – certe – frane e alluvioni, dei danni dovuti alla scarsità di acqua (si pensi alla perdita di presenze turistiche e di raccolti agricoli), dei danni dovuti all’inquinamento del suolo e dei fiumi; dall’altra parte la possibilità di creare nuovi posti di lavoro e maggiore ricchezza grazie al ricupero proprio delle terre oggi esposte ad erosioni e frane.
Dai bacini idrografici passa, forse, un “New Deal” economico (anche Roosevelt nel 1933 basò il suo programma politico su una serie di opere di regolazione del corso dei fiumi e di difesa del suolo contro l’erosione) e una nuova voglia di solidarietà e di fare politica nel senso nobile della parola.
La fabbrica della natura
La natura come fonte di materie prime, merci ed energia
Per tutta la loro lunga storia gli esseri umani hanno tratto alimenti, merci e materiali da costruzione dalla natura. Attraverso una lenta e attenta opera di scelta, i nostri predecessori hanno identificato, per tentativi ed errori, le piante nutritive, quelle curative e aromatiche, quelle che erano in grado di fornire merci sempre più raffinate e diversificate come combustibili, prodotti chimici industriali, coloranti, fibre tessili, pellami, legnami per case, navi e ponti, eccetera.
Nella biosfera sono presenti milioni di specie vegetali e animali, la cui massa ammonta a miliardi di tonnellate, con un continuo processo di rinnovamento attraverso i cicli chiusi dei produttori?consumatori?decompositori e con una produzione primaria netta, sulle sole terre emerse, di circa cento miliardi di tonnellate di materia secca all’anno.
Nonostante questa grandissima varietà e ricchezza della natura, le specie di piante e animali di interesse “economico” sono limitate a poche centinaia e sono aumentate di poco anche dopo la scoperta, da parte degli Europei, di “nuovi mondi”: il continente americano, quello africano e i paesi dell’oriente asiatico.
L’importanza commerciale di alcuni dei prodotti offerti dalla natura ha fatto crescere la curiosità per i loro caratteri e composizione: si può ben dire che “la chimica” è nata come chimica delle sostanze naturali. A mano a mano che aumentava la richiesta di merci e per rompere il monopolio che di esse avevano alcuni paesi che possedevano le colonie da cui tali merci venivano, è nato un vasto movimento scientifico per la riproduzione artificiale di molte di tali merci e per l’invenzione di “surrogati”.
La “rivoluzione sintetica” si può far cominciare nei primi decenni del XIX secolo dopo la scoperta che alcuni idrocarburi, alcoli, acidi, presenti nei sottoprodotti della cokizzazione del carbone fossile e della carbonizzazione del legno e nel petrolio, potevano essere trasformati in moltissime nuove sostanze di interesse commerciale.
È ben noto il successo di questa rivoluzione: oggi, ad eccezione dei prodotti alimentari, si può stimare che almeno l’ottanta per cento degli oltre dieci miliardi di tonnellate di merci consumate ogni anno sulla Terra sia di origine “non biologica” (anche se le materie prime fossili, a rigore, sono di pur lontana origine biologica).
Le condizioni geopolitiche ed i conflitti che hanno escluso alcuni paesi dall’accesso ad alcune materie prime (si pensi all’autarchia nei periodi sovietico, fascista e nazista); o le occasionali eccedenze di prodotti agricoli (nel periodo della grande crisi negli Stati Uniti); o il temporaneo aumento di prezzo e scarsità di alcune materie prime (durante la “crisi petrolifera” degli anni settanta del Novecento), hanno indotto di tanto in tanto a riesaminare le risorse biologiche fomite dall’agricoltura, dalle foreste e dall’allevamento del bestiame, come fonti di materie prime, di merci e di energia. Un ormai raro volume, “Crops in peace and war”, The Yearbook of Agriculture 1950-51, Washington, U.S. Department of Agriculture, 1951, contiene una rassegna delle ricerche e realizzazioni agro-industriali negli Stati Uniti durante la II guerra mondiale.
Il grande scrittore americano Lewis Mumford (1895-1990), nel capitolo conclusivo del suo libro “Tecnica e cultura” del 1934, aveva scritto: “La più completa integrazione della macchina con i bisogni e i desideri umani rimarrà a caratterizzare la fase neotecnica, e ancor più quella biotecnica, i cui segni già si annunciano all’orizzonte”.
Fra tutti gli studiosi sono stati forse quelli di Merceologia che hanno prestato maggiore attenzione alle utilizzazioni economiche e commerciali non-alimentari delle materie prime agricole e zootecniche e dei loro prodotti di trasformazione: derivati dell’amido, destrine, zucchero, alcole etilico, esteri degli acidi grassi, canapa, jojoba, guayule, chitina, amminoacidi, eccetera, anche alla luce dell’attraente bilancio energetico delle merci derivate e del limitato impatto ambientale dei sottoprodotti della produzione e del consumo di tali merci.
Una rassegna della merceologia dei prodotti organici naturali mostra che nel corso degli ultimi decenni si sono perdute conoscenze tecniche, sementi, colture batteriche, per cui diventa sempre più difficile una resurrezione di iniziative industriali basate su molte materie e tecniche che erano importanti in passato. Tali tecniche sono rimaste marginali, o sono scomparse, di fronte ai successi della chimica organica industriale sintetica basata sul petrolio; essa ha consentito la produzione di grandissime quantità di merci molto omogenee a basso prezzo, relegando l’agricoltura e la zootecnia principalmente alla “fabbricazione” di alimenti.
In questo inizio del XXI secolo ci si trova di fronte ad una popolazione in aumento, soprattutto nei paesi del Sud del mondo, e ad un prevedibile aumento della domanda di materie prime e merci, alimentari e non alimentari, nei prossimi decenni, e si osservano con sempre maggiore attenzione i segni della irreversibile scarsità delle principali materie prime, soprattutto petrolio e gas naturale, necessarie per la produzione della maggior parte delle attuali merci non-alimentari, e i segni degli effetti ambientali negativi delle attuali merci.
Molte merci sintetiche derivate dal petrolio, salutate, alla loro comparsa, come mezzi per “liberarsi” dalla schiavitù della natura, ritenute progettabili e modificabili a piacere, non sono biodegradabili, restano a lungo inalterate dopo l’uso e creano problemi di smaltimento; molte altre merci sintetiche (coloranti, pesticidi, additivi), pur “perfette” nelle applicazioni commerciali, proprio per il loro carattere chimico di “estraneità” ai grandi cicli biologici si sono rivelate dannose per la salute umana e per gli ecosistemi naturali.
Al punto da indurre l’abbandono dei “nuovi” prodotti per tornare ai prodotti naturali. Uno dei casi più noti è quello dell’insetticida sintetico DDT, che aveva soppiantato i pesticidi a base di derivati del piretro e che, dopo alcuni anni, è stato a sua volta soppiantato dal ritorno in commercio degli stessi derivati del piretro.
Va anche notato che la produzione delle merci sintetiche è possibile soltanto in impianti ad alta tecnologia e concentrazione di capitale e di conoscenze, quali sono disponibili soltanto nei paesi industrializzati. Tali merci sono accessibili ai paesi del Sud del mondo soltanto se essi accettano una posizione neocoloniale dominata dal capitale internazionale.
Vi sono segni di una crescente insofferenza verso questa prospettiva e di una crescente attenzione per le merci che possono essere ottenute dalle grandi risorse naturali di origine biologica e agricola, continuamente rinnovabili, risorse che molti paesi del Sud del mondo possiedono, e che possono essere trasformate con impianti costruiti e funzionanti sul posto. Le pubblicazioni della FAO e di altri organismi internazionali indicano chiaramente questa tendenza.
La fantasia della natura
A favore della nascita o della rinascita di una industria biotecnica basata sull’agricoltura sta il fatto che dei milioni di specie vegetali e animali esistenti in natura, soltanto alcune centinaia di migliaia sono state osservate e caratterizzate scientificamente e hanno ricevuto un “nome” e soltanto di poche centinaia sono stati esplorati a fondo i caratteri botanici, zoologici e chimici in relazione al loro uso come fonti di materie prime e merci.
Il principio dell’economia tradizionale che spinge a utilizzare soltanto le materie che assicurano una elevata resa di “denaro” per unità di superficie coltivata o per unità di peso, ha provocato un graduale impoverimento delle varietà vegetali e animali utilizzate. Tale impoverimento è stato trasferito anche nei paesi sottosviluppati del Sud del mondo da cui vengono tratte molte delle materie di interesse commerciale. Gran parte del lavoro delle moderne biotecnologie è stato dedicato a sviluppare varietà più efficienti economicamente, con dispersione e perdita del patrimonio genetico e conoscitivo di un gran numero di altre specie vegetali e animali apparentemente “meno economiche”.
Se ci si ferma davanti agli scaffali di una biblioteca in cui sono contenuti i trattati di chimica dei carboidrati, dei lipidi, delle proteine, degli steroli, eccetera, si resta stupefatti dalla grandissima quantità di sostanze elencate, dalla ricchezza delle informazioni strutturali e chimico-fisiche e dalla povertà di informazioni sulle proprietà tecniche di tali sostanze.
Ugualmente, se si prende l’edizione del 1936 del ben noto “Dizionario di Merceologia” di Vittorio Villavecchia (1859-1937), o l’edizione degli anni venti del Novecento della classica “Enzyklopädie der technischen Chemie” dello studioso tedesco Fritz Ullmann (1875-1939), è facile costatare quante merci di origine vegetale e animale siano letteralmente “scomparse”, surrogate da altre in genere meno costose, in termini monetari, talvolta di qualità migliore, spesso peraltro accompagnate da trappole tecnologiche che appaiono sempre più spesso, con l’aumentare della consapevolezza per i problemi ambientali.
L’esplorazione dei trattati di merceologia e di tecnologia chimica scritti nella prima metà del Novecento, prima dell’esplosione della merceologia dei prodotti petroliferi, offre moltissime informazioni su processi e materie che possono, mutate le condizioni, tornare utili ancora oggi e nei prossimi decenni.
L’abbandono, per motivi di prezzo, di molte merci di origine agricola e naturale ha provocato un impoverimento della diversità biologica e la scomparsa di specie di animali da allevamento, di piante da fibra (si pensi al declino della canapa) e di altre utilizzate come fonti di coloranti e di medicinali, eccetera. Come è ben noto, il vasto dibattito sulla conservazione della “biodiversità” ha motivazioni non solo ecologiche, ma soprattutto merceologiche, perché un numero crescente di piante a animali si stanno perdendo quando la loro coltivazione o il loro allevamento non risulta più “economico”.
Un motivo di ottimismo si può peraltro trovare nella ripresa dell’uso merceologico di molte risorse biologiche e agricole, grazie alla grandissima varietà di molecole che esse contengono: un altro aspetto interessante per la resurrezione dell’interesse scientifico per le sostanze naturali sta nel fatto che la produzione commerciale di prodotti, soprattutto alimentari, nei paesi industriali comporta l’utilizzazione di tecniche di trasformazione e conservazione che generano grandi quantità di sottoprodotti ricchi di molecole organiche che spesso creano problemi di smaltimento e sono fonti di inquinamento. Si pensi ai sottoprodotti e scarti dell’industria delle conserve, dell’industria lattiero-casearia, dell’industria della macellazione e trasformazione della carne, eccetera.
Si può calcolare che, ogni due kilogrammi di materia organica secca di origine biologica che entra negli attuali cicli agroalimentari, almeno un kilogrammo finisca negli scarti o addirittura nei rifiuti. Una più attenta conoscenza della composizione chimica e fisica e dei caratteri di tali scarti potrebbe consentire di recuperare grandi quantità di merci usando come “materie seconde” tali sottoprodotti.
Verranno qui esaminate, anche sulla base delle esperienze del passato, alcune strade che meritano di essere battute da chi vuole produrre nuove merci e dare vita ad attività agricole e agroindustriali importanti ed utili sia per il Nord, sia per il Sud del mondo, e alcune considerazioni su alcune materie di origine biologica che presentano interesse commerciale.
Carboidrati
Circa il 60% della biomassa vegetale è costituita da carboidrati come zuccheri, cellulose, amidi, che sono poi i primi materiali che si formano nel processo di fotosintesi. Un esame attento dei caratteri di tali carboidrati mostra la grandissima varietà di combinazioni con cui la natura “fabbrica”, con tre soli atomi – carbonio, idrogeno e ossigeno – e con il solo gruppo funzionale alcolico OH, materie diversissime adatte alla soluzione di numerosissimi problemi biologici: talvolta come sostanze nutritive, gli amidi, accumulate per la prima fase di sviluppo dei semi, talvolta come materiali da costruzione, le cellulose e le lignine, capaci di trasportare acqua e sali inorganici dal suolo a decine di metri di altezza.
Di questa grande fantasia naturale viene utilizzata soltanto una piccola parte a fini umani. L’industria della carta, che assorbe ogni anno, nel mondo, molte centinaia di milioni di tonnellate di materiali lignocellulosici, va a cercare le proprie materie prime sulla base della necessità di ottenere della “cellulosa” standard adatta per i suoi cicli produttivi.
L’industria tessile utilizza un numero molto limitato di fibre cellulosiche, principalmente cotone, rispetto alla grande varietà di materiali fibrosi offerti dalla natura. L’industria chimica produce, talvolta faticosamente, per sintesi molecole che sono state e possono essere ottenute per via microbiologica dai carboidrati.
Nei primi anni della ricerca di fibre tessili artificiali, fra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, l’attenzione dei chimici è stata rivolta ai derivati chimici della cellulosa e si è così visto che i vari gruppi funzionali alcolici erano suscettibili di trasformazione in numerose sostanze, per la maggior parte poi abbandonate per il loro scarso interesse economico come fibre tessili. Sono sopravvissuti alcuni acetati come fibre artificiali o materie per pellicole, di limitata produzione, e la nitrocellulosa utilizzata come ingrediente per esplosivi. Il successo delle pellicole di polimeri sintetici ha spazzato via l’interesse per quelle di cellulosa rigenerata (tipo cellophane) che pure presentano importanti proprietà di permeabilità ai gas, ai liquidi e di biodegradabilità.
Le lignine, che accompagnano la cellulosa in ragione di circa una parte per ogni due o tre parti di cellulosa, sono, dal punto di vista dell’industria della cellulosa, un sottoprodotto indesiderabile, utilizzato al più come combustibile interno del ciclo produttivo della carta. Eppure possiedono una grande varietà di gruppi aromatici e funzionali poco studiati. Una migliore conoscenza dei materiali lignocellulosici potrebbe dare un contributo a nuove forme di utilizzazione della carta e dei cartoni usati, di fronte ad una crescente difficoltà delle operazioni per la loro trasformazione in nuovi prodotti cartotecnici.
Le altre importanti macromolecole della classe dei carboidrati sono gli amidi, sostanze con diversissima composizione e peso molecolare, variabili da una specie vegetale all’altra. La presenza, in media, di tre gruppi alcolici esterificabili per ogni unità di glucosio, rende gli amidi suscettibili di trasformazione in molti derivati, finora ben poco studiati.
Per idrolisi chimica o microbiologica degli amidi si formano numerosissime sostanze, “le destrine”, molto variabili come caratteristiche chimiche e fisiche e usate solo limitatamente. La relativamente recente attenzione per le ciclodestrine mostra come sia possibile dalle destrine ottenere molte nuove merci di interesse tecnico e pratico.
Simili considerazioni valgono per molti zuccheri, dai monosaccaridi come il glucosio, ai disaccaridi, agli zuccheri “più rari”, presenti numerosi in grandi quantità in natura. Molti di questi sono suscettibili, grazie alla presenza dei gruppi funzionali alcolici OH, aldeidici CHO, chetonici CO, di fornire derivati, alcuni dei quali noti dal punto di vista chimico, ma finora poco o niente studiati dal punto di vista delle proprietà tecniche che aprirebbero probabilmente le porte a molti impieghi pratici ed economici.
Proteine e amminoacidi
Le sostanze proteiche, come è noto, rappresentano le pietre fondamentali per tutti i fenomeni biologici. Il loro esame mostra l’infinita fantasia con cui la natura, partendo da un limitato numero di amminoacidi, costituiti dai quattro elementi carbonio, idrogeno, ossigeno e azoto, ha predisposto i comuni materiali da costruzione per organi vitali tanto diversi fra loro.
Dalle pareti cellulari delle foglie, o del sangue animale, alle ali delle farfalle, troviamo sostanze diversissime come caratteri e funzioni e tuttavia formate da pochi amminoacidi; la diversità deriva dalle proporzioni in cui sono presenti tali amminoacidi e della loro successione. Per decenni, pur riconoscendo la presenza, in ciascuna molecole proteica, dei principali amminoacidi noti, è stato praticamente impossibile avere informazioni sulla loro “sequenza” e sui rapporti fra tale sequenza e le proprietà biologiche e tecniche delle proteine. Soltanto strumenti, ancora delicati e costosi, permettono l’analisi delle successioni di amminoacidi, analisi peraltro applicata soltanto a un limitato numero di proteine.
Nonostante la varietà delle proteine esistenti in natura soltanto pochissime hanno ricevuto attenzione merceologica, al di fuori degli usi alimentari e di quelli dell’industria conciaria e tessile. I caratteri della lana e della seta sono stati studiati prevalentemente in relazione alle operazioni elementari di filatura, tessitura, colorazione.
Poche sostanze proteiche (quelle della caseina, della zeina del mais, dell’arachide) sono state utilizzate per la produzione di fibre artificiali, oggi abbandonate. Le gelatine recuperate dai sottoprodotti delle operazioni conciarie hanno un campo di applicazione relativamente limitato.
Eppure ogni anno, nel mondo, milioni di tonnellate di proteine vegetali, o presenti nei residui dell’estrazione dei grassi, o derivati dal siero del latte, o presenti negli scarti della macellazione e delle operazioni conciarie, eccetera, vengono destinate ad usi merceologicamente modesti, come l’alimentazione del bestiame, o la concimazione dei terreni, quando addirittura non sono buttate vie costituendo fonti di inquinamento. Molte di queste proteine sono di origine animale, ricche di amminoacidi essenziali, e potrebbero essere utilizzate per l’integrazione degli alimenti biologicamente “poveri”, come quelli che stanno alla base della nutrizione di molti paesi del Sud del mondo.
Lipidi, steroli e altri composti
Le stesse considerazioni sulla fantasia della natura valgono per i lipidi che pure sono prodotti, per via industriale, soprattutto per l’alimentazione umana, in quantità di poco meno di 100 milioni di tonnellate all’anno. Anche in questo caso ci si trova di fronte a combinazioni (esteri) di acidi grassi e glicerina disposti con rigoroso ordine dalla natura, ordine e combinazioni diversi in ciascun tessuto vegetale e animale: eppure le conoscenze sulla struttura dei trigliceridi sono state approfondite soltanto in pochissimi casi, per esempio nel tentativo di riconoscere l’origine di alcuni grassi nelle miscele per svelare frodi commerciali.
Il successo dei tensioattivi sintetici e della glicerina sintetica ha ridotto il campo di applicazione industriale dei grassi naturali: anche qui le considerazioni “ecologiche” hanno riportato in vita, nella detergenza domestica, sia pure limitatamente, alcuni tipi di saponi grazie alla loro biodegradabilità. Fra i derivati chimici dei grassi un ruolo importante hanno gli esteri con l’alcol metilico, ingredienti del “biodiesel” di cui si parlerà fra poco.
Si può solo dire, in questo breve spazio, che vi sono molte strade aperte per l’utilizzazione, con successo, di coloranti naturali, delle resine e dei terpeni, di molte vitamine e degli steroli, soprattutto in tutti quei casi in cui le proprietà di interesse commerciale sono associate a strutture chimiche abbastanza complicate, fornite abbastanza “facilmente” dai processi viventi agricoli e biologici e non riproducibili per via sintetica.
A puro titolo di curiosità, e come esempio della potenziale ricchezza di moltissimi prodotti spontanei o agricoli quasi sconosciuti del Sud del mondo, si può ricordare la storia della produzione, nel 1951, da parte dell’industria messicana Syntex, del cortisone dalla diosgenina ricavata dalla radice dell’igname messicano; lo stesso gruppo di chimici americani e messicani, operando nel Messico, preparò, sempre nel 1951, dal testosterone il contraccettivo orale noretisterone, “la pillola” (è questo il titolo di un libro di Carl Djerassi, pubblicato da Garzanti, che racconta tutta questa avventura) che avrebbe fatto diminuire il tasso di crescita della popolazione mondiale e rivoluzionato i costumi sessuali di miliardi di coppie. Si tratta di un esempio di come la rivoluzione della biomassa potrebbe far crescere nel Sud del mondo nuove industrie e attività di ricerca e produzione basate su materie locali.
Una chimica troppo difficile
Nelle brevi considerazioni precedenti ho usato la terminologia tradizionale impiegata nella classificazione dei principali componenti dei prodotti agricoli e zootecnici, vegetali ed animali. In realtà nelle cellule viventi non esistono singoli componenti – carboidrati, zuccheri, proteine, lipidi, steroli, eccetera – ma le diverse componenti sono chimicamente combinate fra loro sotto forma di “complessi”, un termine che aiuta a nascondere la limitatezza delle nostre conoscenze.
Si potrebbe dire che la chimica delle sostanze naturali è troppo complicata per la nostra maniera di ragionare: numerosi fenomeni di interesse pratico e commerciale sono dovuti alle proprietà di sostanze su cui sappiamo troppo poco. Comportamenti apparentemente banali, come i fenomeni che si hanno nell’impasto e la cottura del pane, nella cottura delle paste alimentari, nella feltratura della lana, molte caratteristiche di permeabilità selettiva ai gas, ai sali e ai liquidi manifestate da membrane biologiche, eccetera, sono dovuti alla maniera in cui i vari ingredienti sono combinati fra loro come complessi amido-proteine, lipo-proteine, eccetera.
L’agricoltura come fonte di energia
L’aumento del prezzo del petrolio in questo primo decennio del XXI secolo, l’aumento della consapevolezza dei mutamenti climatici provocati dall’aumento della concentrazione nell’atmosfera dell’anidride carbonica proveniente dalla combustione dei combustibili fossili – carbone, petrolio e gas metano – continuamente estratti dalle riserve sotterranee e limitate del pianeta, ha fatto rinascere l’attenzione per la produzione di combustibili, ma soprattutto carburanti liquidi per autotrazione, dai prodotti presenti nella biomassa.
Tali carburanti contengono “dentro di se” l’energia che il Sole ha fornito nel processo di fotosintesi; esso consiste, come è ben noto, nella combinazione di due molecole molto semplici – quella dell’anidride carbonica CO2 e quella dell’acqua H2O – presenti nell’atmosfera e nel terreno in grande quantità e del tutto gratuite; nelle foglie verdi (il colorante verde clorofilla funziona da catalizzatore della sintesi, sotto l’azione della radiazione solare si formano sostanze organiche più o meno complesse, attraverso varie strade, con immissione nell’aria di ossigeno O2 che è il sottoprodotto (in un certo senso il “rifiuto”) della reazione.
Alla fine, in seguito anche ad altre reazioni che comportano l’uso dell’azoto fornito dal terreno e di altri elementi, nei vegetali si forma un insieme di sostanze organiche ricche di energia. Si tratta, principalmente, di zuccheri, amido, cellulosa, lignine, sostanze proteiche, grassi, eccetera, quelle di cui si è parlato poco prima.
La quantità di energia solare che può essere fissata dalla vegetazione varia molto a seconda del tipo di piante, delle condizioni climatiche, eccetera. Inoltre la fotosintesi utilizza soprattutto la componente visibile della radiazione solare. Nelle zone in cui sono presenti colture ecologicamente stabili – come grandi foreste – è possibile recuperare, sotto forma di contenuto energetico delle sostanze organiche, circa l’uno per cento della radiazione solare totale incidente. Se si considera che le celle fotovoltaiche solari – fra i più efficienti dispositivi per l’utilizzazione dell’energia solare – trasformano in elettricità non più del 13% della radiazione incidente totale, si vede che un rendimento dell’uno per cento, senza macchine, si può considerare buono.
Nelle condizioni dell’Italia, dove la radiazione solare incidente è in media di circa 5.000 MJ/m2 all’anno, per un ettaro un rendimento dell’uno per cento corrisponde a circa 500 mila MJ all’anno di energia recuperata sotto forma di biomassa vegetale secca del peso di circa 30.000 kg. Se si considera che il potere calorifico dei prodotti petroliferi è di circa 40 MJ/anno, si può dire che un ettaro di terreno coltivato o di bosco rappresenta un pozzo inesauribile che fornisce l’energia equivalente a quella di circa 12 tonnellate di prodotti petroliferi all’anno.
La materia organica vegetale presente nella biomassa è, peraltro, una fonte di energia ben differente dal petrolio, dal carbone, dal gas naturale, dalla benzina. Si possono tuttavia trasformare le sostanze organiche vegetali in combustibili liquidi, oppure in materie prime o prodotti (come le materie plastiche) che, alternativamente, dovrebbero essere fabbricate usando petrolio. Le sostanze organiche della biomassa, ricche di amido e zuccheri, possono essere trasformate per fermentazione in alcol etilico; è la stessa operazione che si ha nel vino e nella birra. L’alcol etilico puro è un liquido combustibile che può essere miscelato con la benzina e può essere utilizzato, quindi, come carburante per autoveicoli.
Già in passato in vari paesi, e anche in Italia, negli anni trenta e quaranta del Novecento, l’alcol etilico di origine agricola, e, quindi, derivato dal Sole, è stato usato come carburante. Per molti decenni in Brasile l’alcol etilico ottenuto dallo zucchero di canna è stato usato come carburante con notevole risparmio di prodotti petroliferi; negli Stati Uniti è stato usato come carburante l’alcol etilico derivato dall’amido di mais.
I carboidrati derivati dall’amido e dal legno possono, sempre per fermentazione, essere trasformati, oltre che in alcol etilico, in alcol butilico, altro buon carburante miscelabile con la benzina o usabile direttamente nei motori a scoppio.
I materiali lignocellulosici per riscaldamento ad alta temperatura, possono essere trasformati in due gas – ossido di carbonio CO e idrogeno H2 – dai quali si può ottenere per sintesi alcol metilico, un liquido che può anch’esso essere usato in miscela con la benzina come carburante per autoveicoli.
In molte operazioni agricole si formano dei sottoprodotti che possono essere trasformati in metano CH4, un gas combustibile (anzi è lo stesso costituente del gas naturale) mediante processi semplici e noti. Si parla di “biogas” per indicare il metano ricavabile da sottoprodotti e scarti agricoli e zootecnici, quindi il metano “solare”.
I grassi presenti nei prodotti e sottoprodotti agricoli, soprattutto nei semi oleosi, come quelli del girasole, dell’arachide, della soia – in molti casi provenienti, quindi, da coltivazioni tipiche dei paesi del Sud del mondo – possono essere usati come carburanti nei motori progettati per funzionare col ciclo diesel, cioè con frazioni petrolifere più “pesanti” delle benzine. Gli stessi grassi possono essere trattati con alcol metilico, in un processo chiamato esterificazione, e possono essere trasformati in esteri metilici degli acidi grassi, adatti ancora meglio come carburanti per motori diesel. È questo il cosiddetto “biodiesel” che ormai viene prodotto industrialmente in molti paesi e anche in Italia.
I combustibili derivati dalla biomassa, quando vengono bruciati, restituiscono, come calore, l’energia che il Sole ha messo a disposizione per la loro sintesi; nel corso della combustione si forma, naturalmente, anidride carbonica che ritorna nell’atmosfera senza peraltro contribuire all’effetto serra; infatti l’anidride carbonica che si forma durante la combustione del carbone, del petrolio e del gas naturale, si aggiunge a quella già esistente nell’atmosfera e altera quindi il flusso di energia solare diretta verso la Terra, innalzandone lentamente, appunto per “effetto serra”, la temperatura superficiale. Nel caso dei combustibili e carburanti di origine agricola, biologica, viene immessa nell’atmosfera, dopo la combustione, la stessa anidride carbonica che era stata prelevata pochi mesi o anni prima, durante la fotosintesi. La concentrazione complessiva dell’anidride carbonica atmosferica resta, quindi, grazie all’uso energetico della biomassa, costante e si evita un ulteriore contributo ai mutamenti climatici.
Per una società biotecnica
Sempre più spesso si parla di “coltivazioni” o “piantagioni energetiche” per indicare colture agricole o forestali progettate proprio per ottenere combustibili o materie alternative a quelle ricavate dal petrolio. Il recupero produttivo a fini energetici dei tre milioni circa di ettari abbandonati in Italia fornirebbe un’importante frazione dei prodotti petroliferi consumati ogni anno in Italia (circa 100 milioni di tonnellate nel 2006), con vantaggi per le minori importazioni, con aumento dell’occupazione, della ricchezza interna, con vantaggi per la difesa del suolo, eccetera.
Su scala mondiale la diffusione di una agricoltura rivolta alla produzione di merci e carburanti alternativi a quelli petroliferi aprirebbe le porte ad una società meno inquinata, meno soggetta ai rischi di scarsità e alla dipendenza di tanti paesi dai pochi che possiedono le attuali risorse di petrolio e gas naturale. Non a caso l’attenzione per merci e carburanti dalla biomassa sta crescendo negli Stati Uniti che vedono declinare la loro sicurezza nell’approvvigionamento di fonti interne di combustibili fossili, con riserve in lento continuo declino.
A maggior ragione l‘avvio verso una società basata sui prodotti e sottoprodotti agricoli avrebbe importanza per liberare tanti paesi oggi arretrati, del Sud del mondo, dalla dipendenza da materie e tecnologie oggi monopolio delle grandi potenze del Nord del mondo.
L’avvento di quella “società biotecnica” auspicata da Lewis Mumford presuppone, peraltro, una rinascita della chimica e merceologia delle sostanze organiche naturali. A differenza dell’attuale tendenza della merceologia, la cui attenzione è rivolta alle risorse alimentari, ai minerali, ai combustibili fossili e ai relativi problemi ambientali, lo sguardo verso il futuro dovrebbe indurre a prestare maggiore attenzione alle sostanze organiche presenti negli organismi vegetali ed animali, sia alla luce dei crescenti vincoli ambientali, sia in vista della produzione di nuove merci e nuovi materiali commerciali, dovrebbe indurre gli studiosi ad esaminare le prospettive di nuovi cicli produttivi e merci nel settore agroindustriale.
I merceologi, i chimici e le imprese dei paesi industrializzati potrebbero utilmente collaborare a creare nuove merci, processi e occasioni di occupazione e di impresa, con vantaggio sia per il Sud sia per il Nord del mondo, ricordando anche che molte soluzioni sono già state trovate e poi sono state abbandonate, con un impoverimento del patrimonio di conoscenze, un processo simile alla perdita del patrimonio di biodiversità.
A tal fine sarebbe di grande utilità un ”dizionario”, un inventario, tecnico-scientifico – e storico – dei prodotti industriali ottenuti in passato e attualmente e ottenibili in futuro dalla biomassa. Un ruolo importante dovrebbe avere lo studio dell’utilizzazione delle grandi quantità di sottoprodotti e residui agricoli e zootecnici, attraverso processi agro-industriali nei quali un ruolo importante avrebbe la microbiologia industriale, quella scienza che sa come “mettere al lavoro” i microrganismi – innumerevoli e solo in parte noti – che la natura ha predisposto per trasformare ed elaborare i “propri” prodotti vegetali e animali.
Alcuni rilevano che l’utilizzazione di coltivazioni agricole e forestali per fini merceologici potrebbe sottrarre terre fertili alla produzione di alimenti essenziali per il Sud del mondo o potrebbe comportare la distruzione di foreste indispensabili per gli equilibri ecologici planetari futuri, o potrebbe assorbire esorbitanti quantità di acqua. Che ciò non avvenga dipenderà dalla capacità dei governanti di “pesare” adeguatamente vantaggi e costi, monetari, sociali ed ecologici, nell’offrire una risposta alla domanda di beni materiali dei loro governati.
“Agri-Cultura. Terra Lavoro Ecosistemi”, Quaderno n.2, EMI editore, 2006
La chimica di morte. Le armi chimiche
Fra tutte le armi, strumenti di morte, merci oscene, le peggiori di tutte sono quelle chimiche, sostanze spesso ottenibili a basso prezzo e con strutture industriali abbastanza rudimentali, che sono state e sono causa di forme orribili di morte, di dolori indescrivibili. L’uso di agenti chimici per mettere fuori combattimento gli avversari è iniziato durante la prima guerra mondiale come sottoprodotto del successo dell’industria chimica. Nella seconda metà del 1800 erano già note numerose sostanze dotate di proprietà irritanti, asfissianti e velenose; nel 1812 si era scoperto che, dalla reazione del cloro con l’ossido di carbonio, si forma fosgene, un liquido volatile molto irritante e tossico.
L’industria chimica alla fine dell’Ottocento produceva già su larga scala il cloro, un gas soffocante. Ugualmente noto e prodotto industrialmente era il solfuro di dicloroetile, destinato ad una drammatica notorietà come Yprite, dal nome della città belga in cui è stato usato per la prima volta in guerra. Nonostante la voglia di guerra che ha attraversato l’Europa per tutto l’Ottocento, lo spettro della guerra chimica ha spaventato sempre le grandi potenze, al punto da indurle a riunirsi all’Aja, nel luglio 1899, e a firmare un accordo che le impegnava “a non usare proiettili il cui unico scopo è quello di spandere gas asfissianti o deleteri”. L’accordo vietava in particolare l’impiego di “veleni o armi avvelenate” e di “armi, proiettili o sostanze capaci di provocare dolori superflui”.
Nonostante questo solenne impegno, le navi giapponesi lanciarono contro le navi russe delle granate contenenti gas asfissianti durante la battaglia di Tsushima, nel 1905; il fatto spinse le grandi potenze a riunirsi di nuovo e a firmare, il 18 ottobre 1907, una seconda convenzione dell’Aja nella quale si mettevano nuovamente al bando le armi chimiche (per inciso la convenzione vietava anche l’impiego dell’aeroplano in guerra); la convenzione però non fu firmata da cinque delle potenze che si sarebbero affrontate pochi anni dopo sui campi d’Europa; anzi la prima guerra mondiale fu, fin dall’inizio, il vero banco di prova della guerra chimica. Nell’ottobre del 1914 i francesi avevano fatto un limitato impiego di gas lacrimogeni, adducendo che non si trattata di sostanze “soffocanti o tossiche” e che quindi il loro uso non violava il trattato dell’Aja. Come ritorsione il 22 aprile 1915 nella regione di Ypres, in Belgio, i francesi, sottoposti da alcune ore ad un violento bombardamento, videro avanzare una nube di gas giallo-verdastro, il terribile cloro, che precedette l’avanzata dei fanti tedeschi. Due giorni dopo, sempre nella stessa zona, il cloro fu lanciato dai tedeschi contro le truppe canadesi: questo primo saggio di guerra chimica costò la vita a diecimila soldati.
Da allora si ebbe un uso sempre più frequente e intenso di armi chimiche; l’industria chimica offrì agli eserciti sostanze sempre più tossiche capaci di provocare lacrimazioni, di togliere il respiro, di uccidere quasi istantaneamente. Nello stesso tempo furono cercati e inventati dei sistemi di protezione, a cominciare dalle “maschere antigas”, vere e proprie maschere nelle quali l’aria esterna contaminata passava attraverso appositi filtri prima di arrivare ai polmoni. Vivere, muoversi e combattere con le maschere antigas era una sofferenza grandissima; si faceva fatica a respirare ed era difficile disporre di filtri capaci di filtrare tutti i diversi agenti chimici di guerra, tanto più che sono diecine e che non si sa quale sarebbe stato usato dal nemico.
Se ne accorsero i combattenti della prima guerra mondiale che dovettero affrontare, da entrambe le parti, attacchi, oltre che con cloro, con bromuro e cloruro di cianogeno, con acido cianidrico (usato dai francesi nel 1916), con fosgene – che provoca dapprima tosse, poi cianosi e infine, nel corso di poche ore, asfissia – e infine con yprite, usata per la prima volta a Ypres dove i Tedeschi avevano già usato il cloro.
Il solfuro di dicloroetile, o gas mostarda – l’yprite appunto – ebbe effetti devastanti perché provoca irritazione e cecità e, ad alta concentrazione, anche la morte. Molti combattenti sul fronte francese, anche se sono sopravvissuti, hanno portato per tutta la vita i segni della terribile sostanza. Sempre durante la prima guerra mondiale fu impiegato come agente asfissiante la lewisite, un prodotto arsenicale irritante. Complessivamente il peso dei gas di guerra impiegati durante la prima guerra mondiale ammontò a 13 milioni di kilogrammi.
Chi rilegge a distanza le cronache di tale guerra, su tutti i fronti, ha una chiara idea dell’impressione lasciata dagli attacchi con armi chimiche; tutti i paesi avrebbero dovuto, a rigore, unirsi per mettere al bando tali armi, per distruggere gli arsenali esistenti. Effettivamente un tentativo di nuovo accordo si ebbe con la conferenza di Ginevra del 1925; il 17 giugno fu firmato un accordo (in vigore dal 1929) che, pur con certe ambiguità, proibiva l’uso in guerra di “gas asfissianti, tossici e simili e di tutti i liquidi, materiali e dispositivi analoghi”, stabilendo che il divieto era esteso anche a tutti i tipi di guerra batteriologica. Gli Stati Uniti non firmarono l’accordo del 1925.
La Società delle Nazioni indisse qualche anno dopo una nuova conferenza. Il 15 gennaio 1931 vari paesi (Regno Unito, Romania, Jugoslavia, Cecoslovacchia, Giappone, Spagna, Unione Sovietica, Cina, Italia, Canada e Turchia) dichiararono che, secondo loro, l’accordo del 1925 doveva comprendere il divieto dell’uso in guerra di gas lacrimogeni e di altri prodotti chimici irritanti. Nonostante le dichiarazioni della diplomazia, nel dicembre 1935 il generale Graziani ordinò l’uso dell’yprite contro le truppe etiopiche durante la conquista dell’Africa orientale e i giapponesi usarono gas asfissianti nella campagna contro la Cina fra il 1937 e il 1943.
Del resto nei venti anni fra le due guerre, più o meno segretamente, sono state sviluppate e potenziate molte nuove sostanze adatte per la guerra chimica; nei corsi universitari italiani di chimica c’era addirittura un insegnamento di “Chimica di guerra”.
Nel 1940 certamente tutti i paesi avevano delle grandi riserve di potenti armi chimiche. Fortunatamente, e in maniera abbastanza sorprendente, però, durante la seconda guerra mondiale nessuna delle potenze in lotta volle farvi ricorso. Anzi nel giugno 1943 il presidente americano Roosevelt condannò l’uso delle armi “inumane” e dichiarò che gli Stati Uniti – che pure non avevano firmato la convenzione di Ginevra del 1925 – non le avrebbero mai usate per primi. Ne avevano però a disposizione, tanto è vero che la nave americana Harvey carica di proiettili all’yprite fu bombardata da aerei tedeschi nel porto di Bari, esplose, si incendiò e il suo carico finì nel porto e poi nell’Adriatico.
Anche se non in guerra, negli anni cinquanta e sessanta agenti di guerra chimica sono stati impiegati dalle truppe britanniche per sedare le rivolte a Cipro, nella Guiana ex-britannica e altrove; armi chimiche sono state impiegate nella guerra civile dello Yemen e, più recentemente, nella guerra Iran-Iraq negli anni ottanta del Novecento.
A rigore sono agenti di guerra chimica anche gli erbicidi, ben noti e di diffuso impiego in agricoltura, lanciati su larga scala dagli Stati Uniti nel Vietnam per distruggere vaste zone di foresta tropicale nella quale si rifugiavano i partigiani Vietcong. Alla fine degli anni sessanta la notizia sollevò un grande scandalo tanto più che gli erbicidi usati in guerra erano materiali greggi e poco costosi ed erano contaminati da diossina (un sottoprodotto della loro fabbricazione); questa diossina ha provocato morti e malattie sia fra la popolazione civile sia fra i combattenti, per cui una associazione di reduci ancora oggi fa causa al governo americano per le ferite riportate a causa dei defolianti usati nel Vietnam.
Il 5 dicembre 1966 l’assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato una nuova risoluzione nella quale sono state condannate le azioni contrarie allo spirito dell’accordo di Ginevra del 1925.
L’attenzione per le armi chimiche scoppiò di nuovo nell’aprile 1968, quando si scoprì che in una valle dello Utah, uno stato degli Stati Uniti, vasto e poco abitato, improvvisamente oltre seimila pecore erano morte in modo misterioso. Le forze armate americane dovettero ammettere, dopo molte reticenze, che l’incidente era dipeso dal fatto che agenti paralizzanti di guerra erano fuoriusciti accidentalmente, a 50 kilometri di distanza, dal campo sperimentale di Dungway, dove venivano studiate. Improvvisamente l’opinione pubblica mondiale si rese conto di quali progressi la guerra chimica avesse fatto e nuove terribili sigle sono entrate nel vocabolario della morte.
La sostanza chimica che aveva ucciso le pecore dello Utah divenne noto come agente VX, un composto appartenente alla classe degli esteri fosforici, sviluppati principalmente e apertamente come insetticidi, ma le cui proprietà militari sono subito apparse evidenti: gli esteri fosforici agiscono sul sistema nervoso inibendo, in grado maggiore o minore, l’azione dell’enzima colinesterasi che presiede alla trasmissione degli impulsi nervosi. In generale gli esteri fosforici possono anche non essere letali, ma provocano disturbi alla respirazione, oppressione, cefalea, sudore, nausea, vomito, effetti paralizzanti. Alla stessa classe appartiene il “tabun” (GA), inventato dai tedeschi intorno al 1937, il “sarin” (GB), inventato anch’esso dai tedeschi nel 1938, il “soman” (GD), inventato dai tedeschi intorno al 1940 – un liquido con leggero odore di frutta.
Altri agenti irritanti sono il CN, o omega-cloroacetofenone, una polvere bianca studiata come agente di guerra fin dagli anni trenta del Novecento, l’agente DM, o adamsite, un derivato arsenicale, il CS (nome usato in Inghilterra; il nome francese è CB), orto-cloro-benzalmalonitrile, “inventata” nel laboratorio segreto militare inglese di Porton come agente lacrimogeno da usare per domare le rivolte.
L’elenco delle sostanze di guerra chimica è molto più lungo. Un utile articolo anche in italiano (con molta bibliografia) si trova nella sempre utile enciclopedia Wikipedia: http://it.wikipedia.org/wiki/Armi_chimiche.
Il pericolo delle armi chimiche deriva dal fatto che, a differenza delle armi atomiche, esse possono essere fabbricate con mezzi tecnici relativamente rudimentali, addirittura a fianco di altre sostanze per usi civili, come gli antiparassitari agricoli, usando le stesse materie prime e gli stessi impianti. È quindi corretto denunciare tali armi come “le atomiche dei poveri”.
Un secondo aspetto riguarda la difficoltà della loro eliminazione, una volta che sono state fabbricate. Nel 1993, dopo lunghe discussioni, è stato firmato un accordo (entrato in vigore nel 1997) che vieta la costruzione e l’uso delle armi chimiche e impone la loro distruzione, una operazione non facile.
La prima idea è stata quella di buttarle nel mare; dopo la seconda guerra mondiale gli inglesi hanno disperso almeno centomila tonnellate di armi chimiche in disuso al largo delle coste dell’Irlanda; addirittura non si conosce neanche più il posto esatto dell’affondamento dei relativi fusti. Anche una parte delle armi chimiche tedesche, dopo la guerra, è finita nel mare: decine di migliaia di fusti dell’agente “tabun” sono stati gettati in fondo al Mar Baltico. Il fatto che finora non sembra si siano verificati avvelenamenti su larga scala del mare o degli organismi marini – o che non se ne sia venuti a conoscenza – non esclude la follia di questo modo di procedere.
Ma anche altri sistemi – interramento, incenerimento, idrolisi – sono insoddisfacenti, come dimostrano i numerosi tentativi fatti in questi anni. Una documentata descrizione tecnica dei mezzi per distruggere le armi chimiche si trova in Internet nel “sito”: http://en.wikipedia.org/wiki/Destruction_of_chemical_weapons
C’è lavoro per molti chimici.
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, n.1, 2013
Merceologia del riciclo
“Rifiuti”: poche parole vengono ripetute con maggiore frequenza anche da ciascuno di noi, a proposito delle proteste per i sacchetti di immondizie che si accumulano nelle strade, contro le discariche o gli inceneritori o a proposito della raccolta differenziata. I rifiuti sono il risultato inevitabile di qualsiasi operazione di produzione agricola o industriale e di consumo delle merci. Per limitarci ai rifiuti solidi, in Italia si tratta di circa 180 milioni di tonnellate all’anno. 32 di rifiuti urbani, 50 di rifiuti industriali, 70 di rifiuti delle attività di cave, miniere e residui di costruzioni, 28 di altri rifiuti. Nel complesso la vita quotidiana di ogni italiano comporta la produzione, ogni anno, di circa 500 chili di rifiuti urbani, di circa 3000 chili di rifiuti totali, pari a cinquanta volte il peso di ciascuno di noi.
Per evitare l’uso inquinante delle discariche o degli inceneritori ai cittadini viene chiesto di effettuare una raccolta differenziata dei propri rifiuti domestici in modo da separare le componenti che potrebbero essere riciclati con minore effetto ambientale negativo, anzi con recupero di materiali economici, di “merci riciclate”, che altrimenti richiederebbero nuove materie prime tratte dalla natura. In generale però non viene adeguatamente spiegato in che cosa consiste il riciclo, un insieme di attività che coinvolge centinaia di aziende e decine di migliaia di lavoratori, tecnologie talvolta raffinate e un grande giro di affari. Ciascuna delle frazioni di rifiuti, raccolti in maniera differenziata, viene dapprima ritirata da alcune imprese che effettuano una selezione per eliminare le componenti estranee: purtroppo infatti spesso molti cittadini, pur volonterosi, mettono alcuni rifiuti nel cassonetto sbagliato, rendendo talvolta impossibile il riciclo dell’intero contenuto.
Ciascuna frazione, abbastanza omogenea, di rifiuti (vetro, plastica, metalli, carta, eccetera) viene venduta (proprio così, esiste un vero commercio come se si trattasse di qualsiasi altra materia prima o merce) alle industrie che trasformano i rifiuti differenziati in nuove merci. Nella Comunità Europea ciascun rifiuto, dalla lampadina bruciata, alla bottiglia della conserva di pomodoro, al camion fuori uso destinato alla rottamazione, è classificato con un codice numerico CER (Catalogo Europeo dei Rifiuti, consultabile nel Testo Unico ambientale, il decreto 152 del 2006). Un rifiuto viene avviato allo smaltimento o al riciclo proprio sulla base di questo codice CER. Il riciclo è effettuato da industrie specializzate di cui sarebbe bene conoscere i processi se si vuole fare una raccolta differenziata veramente efficace.
Proprio in aprile una speciale commissione della Confindustria, l’associazione degli industriali, ha pubblicato lo studio: “Verso un uso più efficiente delle risorse” il cui testo è disponibile in Internet e che potrebbe essere utile in molti corsi universitari, dal momento che molte fasi della caratterizzazione e del riciclo dei rifiuti richiedono controlli chimici e fisici, in qualche caso molto delicati. Dal documento citato appare, per esempio, che nella produzione vitivinicola si forma oltre un milione di tonnellate di sottoprodotti dai quali potrebbero essere ottenuti gas combustibili o alcol etilico. Degli oltre sei milioni di tonnellate della carta e dei cartoni raccolti in maniera differenziata in Italia ogni anno, solo cinque entrano nei processi di produzione di nuova carta e in tali processi di riciclo si formano altri rifiuti: 400 mila tonnellate all’anno: fanghi di disinchiostrazione e di altro tipo, che finiscono nelle discariche o negli inceneritori.
Fra le materie più difficili da riciclare ci sono le materie plastiche; quelle in commercio sono di molti tipi diversi, ciascuna con composizione chimica e ingredienti diversi, per cui una gran parte della plastica, anche raccolta negli appositi cassonetti, finisce nelle discariche (1,6 milioni di tonnellate) o negli inceneritori spesso con effetti inquinanti dell’atmosfera. Le attività di demolizione degli edifici e delle costruzioni producono ogni anno circa 50 milioni di tonnellate di residui che, in gran parte, finiscono nelle discariche. La rottamazione e il riciclo delle varie componenti dei veicoli fuori uso comporta delicati problemi tecnici ed ecologici perché le varie parti dei veicoli delle varie marche hanno composizione chimica differente; comunque, nella rottamazione, oltre il 25% del peso del veicolo finisce in un rifiuto, detto “fluff”, costituito da una miscela di materiali metallici come ferro e alluminio, materie plastiche, gomma, vetro, fibre tessili, vernici, di difficile smaltimento.
Gli inceneritori/termovalorizzatori dei rifiuti urbani, che tanto piacciono a molte amministrazioni locali, lasciano come residuo circa il 30% di ceneri, in parte da smaltire in discariche speciali che non esistono in Italia, per cui devono essere esportate in Germania. Per farla breve: qualsiasi processo di trattamento e di riciclo dei rifiuti si lascia dietro inevitabilmente altri rifiuti e inquinamenti: lo stesso riciclo dei rifiuti richiede la soluzione di problemi chimici, tecnici, commerciali, argomenti di una vera e propria “Merceologia del riciclo”, il cui insegnamento e le cui conoscenze consentirebbero agli amministratori e agli imprenditori scelte meno costose e, a loro volta, meno inquinanti, capaci di creare nuova duratura occupazione. Infatti, siate certi, la massa dei rifiuti da trattare aumenterà sempre.
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, n.1, 2013
Gli oceani, bene comune
Ogni estate, quando fa gran caldo, ci spiegano che esso deriva dalla circolazione anomala di grandi masse di aria da un continente all’altro, anche a causa dell’“effetto serra” dovuto all’inquinamento atmosferico che nessun accordo internazionale è finora riuscito a rallentare. Forse se si vuole capire qualcosa bisogna passare dall’osservazione dei continenti, che sono appena il 30 percento dalla superficie terrestre, a quella di ciò che succede nell’altro settanta percento costituito dalla superficie degli oceani, l’enorme massa di acqua in continuo movimento.
Nella cultura europea si fa fatica a considerare gli oceani che sono lontani, abituati come siamo a piccoli mari interni praticamente chiusi, quasi dei laghi come l’Adriatico, lo stesso Mediterraneo, il Mar Nero; eppure i grandi oceani della Terra bagnano le lunghissime coste delle Americhe, dell’Asia, dell’Africa, appena appena le coste dell’Europa settentrionale. Con la loro grande superficie e la loro massa di acqua salina di 1400 milioni di miliardi di metri cubi, gli oceani rappresentano il più grande collettore di energia solare; il diverso riscaldamento solare alle varie latitudini tiene in moto le acque degli oceani; quelle calde delle zone tropicali scorrendo verso le zone fredde assicurano un clima più dolce a zone che altrimenti sarebbero freddissime. Nello stesso tempo anche piccole variazioni di temperatura delle acque oceaniche fanno sentire i loro effetti sui continenti facendo aumentare o diminuire, anche sotto forma di tempeste, le piogge che rendono fertili foreste e pianure, anche se talvolta provocano lungo le coste sconvolgimenti sotto forma di tornado o di alte onde anomale.
Vi sono poi variazioni periodiche della temperatura degli oceani che contribuiscono ai mutamenti del clima sui continenti, in aggiunta a quelli determinati dall’inquinamento atmosferico. Ma gli oceani hanno molti altri aspetti importanti ai fini della vita; pesano migliaia di miliardi di tonnellate gli esseri viventi che abitano gli oceani; oltre cento miliardi di tonnellate quelli che si formano e muoiono ogni anno, dalle alghe fotosintetiche unicellulari ad animali di tutte le dimensioni, legati fra loro da catene alimentari (quelle che nel parlare comune vengono descritte con la banale frase: “il pesce grande mangia il pesce piccolo”) con una diversità e ricchezza che conosciamo soltanto in piccola parte. Una parte di questi esseri viventi marini è oggetto della pesca oceanica che fornisce ogni anno circa 100 milioni di tonnellate di alimenti agli esseri umani.
Gli oceani sono una grande via di comunicazione; diecine di miliardi di tonnellate di merci ogni anno si spostano lungo gli oceani; sulle coste oceaniche si trovano i grandi porti, i grandi cantieri navali, le grandi raffinerie e industrie. Gli oceani sono anche la grande pattumiera dei rifiuti di tutto quanto avviene non solo lungo le loro coste, ma anche a grande distanza all’interno dei continenti. I gas delle attività industriali, trascinati dalle piogge, fanno aumentare l’acidità delle acque oceaniche e il loro potere corrosivo sulle barriere coralline. I rifiuti solubili in acqua prima o poi finiscono nei fiumi che portano negli oceani sostanze organiche, veleni, sostanze radioattive, pesticidi. A questo inquinamento si aggiunge quello dovuto al traffico e alle attività marittime, dalle perdite di petrolio, ai rifiuti gettati dalle grandi navi passeggeri e mercantili. La grande massa delle acque oceaniche è in grado di trasformare per via chimica e microbiologica molti dei rifiuti; ma molti altri, non degradabili come le materie plastiche, restano a lungo e anzi finiscono per galleggiare e addirittura si aggregano in grandi masse che coprono larghi tratti della superficie degli oceani, come quella specie di isola galleggiante di plastica osservata a nord delle isole Hawaii nell’Oceano Pacifico.
Col progressivo impoverimento delle riserve di petrolio e di idrocarburi sui continenti le compagnie petrolifere si spingono a perforare il fondo degli oceani a distanze sempre maggiori dalle coste, a profondità sempre maggiori. In questa avida ricerca di petrolio e gas si verificano incidenti come l’incendio del golfo del Messico dell’aprile 2010 o il recente incendio di gas naturale al largo della costa africana, e continue perdite di idrocarburi non biodegradabili. Molte delle offese provocate agli equilibri chimici e ecologici degli oceani hanno la loro origine nel fatto che gli oceani non sono di nessuno e quindi, al di fuori di una ristretta zona di mare vicino alle coste, che “appartiene” al paese che vi si affaccia, chiunque può farci quello che vuole: nel corso di centinaia di anni non è stato possibile formulare un diritto che consenta di usare senza violenza il più grande “bene comune” esistente.
A noi, che pure ne siamo così lontani, anche culturalmente, gli oceani e i loro problemi dovrebbero interessare perché qualunque cosa avvenga sul pianeta Terra, casa comune di tutti noi esseri umani, ci riguarda; poi anche perché circa la metà delle merci che usiamo, dalle automobili, al petrolio, ai minerali, ai giocattoli, a frutta e verdura, a cereali, ci arriva dopo aver varcato gli oceani; e infine perché ogni estate ci raccontano che dalle mitiche isole Azzorre, in mezzo all’Oceano Atlantico, potrebbe arrivare un po’ di fresco per mitigare la gran calura.
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, n.1, 2013
Per un Corpo nazionale di difensori del territorio
Francamente sono stufo di scrivere due volte all’anno un articolo sul dissesto idrogeologico; almeno due volte all’anno le piogge intense, magari imputabili al cambiamento climatico che surriscalda il pianeta, tanto per dare la colpa a qualcuno, fanno uscire l’acqua dagli argini di fossi, torrenti, fiumi, sulle colline e nelle pianure, allagano e distruggono sottopassi, strade con i tombini che esplodono, campi coltivati con i loro faticati raccolti, fabbriche e abitazioni, strade e ferrovie. La risposta delle autorità è sempre la stessa: si invoca lo stato di calamità naturale, il che vuol dire chiedere allo stato qualche soldo, che arriva sempre in ritardo, per ricostruire nello stesso posto, le stesse cose che sono state spazzate via dalle acque, per rimborsare le perdite dei beni alluvionati o dei raccolti perduti.
I lettori di questo giornale sanno bene, sulla propria pelle, di che cosa parlo. Nessuno, cittadini, alluvionati, governanti, prende in considerazione che non c’è niente di “naturale”; si continua ad autorizzare costruzioni nelle lame, sulle rive dei fiumi, sul fianco delle colline, dove fa comodo ai proprietari dei suoli i quali non pensano che le loro stesse proprietà andranno in rovina, un anno o l’altro. Ogni anno nel nord e al centro e nel sud d’Italia, le alluvioni fanno danni da trent’anni a questa parte. I governanti emanano e correggono continuamente farraginose leggi sulla difesa del suolo, creano agenzie che assicurano appalti per opere che saranno spazzate via uno o dieci anni dopo.
I più fantasiosi chiedono investimenti di diecine di miliardi di euro per programmi di difesa del paesaggio e della bellezza d’Italia. Io credo che chi propone o approva o modifica leggi, non sia mai andato con gli stivaloni nel fango a spalare detriti, non sia mai sceso sul greto di un torrente, altrimenti avrebbe osservato che le alluvioni sono figlie di una chiara violenza contro la natura e richiedono soluzioni altrettanto chiare. L’acqua da miliardi di anni ha “l’abitudine” di scendere dall’alto al basso lungo le strade di minore resistenza; quando trova un ostacolo lo aggira e si crea delle vie di scorrimento più comode, oppure lo sposta e lo porta in basso, siano sabbia, pietre, piante.
D’altra parte la forza delle acque è rallentata e frenata dalla vegetazione spontanea, e così nei millenni le acque hanno “disegnato” le valli e hanno creato le pianure che sono poi diventate fertili, attraversate da fiumi che portano incessantemente al mare il loro carico di sostanze solide disciolte o in sospensione. Purtroppo il fondo delle valli e le pianure, là dove corrono le acque, sono stati e sono gli spazi più appetibili economicamente e là sono sorti villaggi e poi paesi e poi città, con le loro strade e “ponti” e sottopassaggi, con i loro “fiumi sotterranei” di fogne. Tutto guidato dalle leggi “economiche”, cioè si è costruito dove c’erano interessi e proprietà privati o dove le opere costavano meno o erano più comode.
Con l’aumento della popolazione e del “benessere” le presenze umane hanno invaso gli spazi dove scorrevano le acque, hanno distrutto, con quartieri e strutture “sportive”, la vegetazione che rallentava il moto delle acque, ogni intralcio agli affari e al “progresso”. E le acque si vendicano, sono diventate più aggressive e veloci, è aumentata la erosione del suolo, sono diminuiti gli spazi per il libero scorrimento delle acque e queste, ad ogni pioggia più intensa si espandono e allagano le zone circostanti. Le fotografie e le immagini cinematografiche delle alluvioni sono più eloquenti di un trattato di geografia: guardate come i torrenti sono stati imprigionati in stretti canali, come il diboscamento ha lasciato esposte all’erosione grandi superfici delle valli.
Eppure i rimedi sono noti. Il primo è sradicare la dannosa idea che, pur di “portare a casa” qualche soldo nei comuni e nelle regioni, pur di favorire imprese private, si possano autorizzare costruzioni e opere che intralcino il moto “naturale” delle acque. La seconda ricetta consiste nel mettere al lavoro delle persone che puliscano i fossi e i torrenti eliminando almeno i principali ostacoli al moto delle acque per permettergli di scorrere nelle loro “naturali” vie, che svolgano la funzione di “sentinelle” delle acque. La prima cosa che Roosevelt fece quando divenne, nel 1933, presidente di un’America in piena crisi, piena di disoccupati, con il territorio devastato, fu la creazione dei corpi civili giovanili per la difesa del suolo, costituiti da giovani disoccupati, appartenenti a famiglie disagiate, col compito di svolgere proprio le operazioni di cui parlavo prima. Pochi anni dopo anche l’economista Ernesto Rossi (1897-1987) nel libretto “Abolire la miseria” (1946), auspicava l’istituzione di un “esercito del lavoro” costituito da giovani compensati con pubblico denaro e impegnati a svolgere “servigi pubblici gratuiti”. E quale “servigio” più utile della guerra alle alluvioni? La proposta fu ripresa in vari scritti dall’economista Paolo Sylos Labini (1920-2005).
Ho letto con interesse che una recente proposta di legge dei deputati Gianni Melilla e altri, del Gruppo SEL (“E” sta per “ecologia”), propone l’istituzione di un “Corpo giovanile per la difesa del territorio”. Per pagare questi giovani lavoratori nella pulizia dei torrenti, nel rimboschimento, nella vigilanza del moto delle acque occorrono dei soldi pubblici, che sarebbero bene spesi. Si pensi che 3 milioni di euro, la cifra richiesta in una delle tante recenti alluvioni per parziale rimborso dei danni sofferti dagli alluvionati, potrebbero assicurare un salario per un anno a duecento “sentinelle” delle acque. Con l’effetto che l’anno dopo, due anni dopo, dieci anni dopo, si eviterebbero dolori e danni e distruzioni che costerebbero, alla comunità, ben più di quella cifra. Spero che qualcosa si muova, un giorno o l’altro.
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, n.1, 2013
Fogne e depuratori
Dopo quarant’anni di passione ecologica e di sviluppo sostenibile, basta una pioggia più intensa per far esplodere i tombini nelle città perché le fogne sono insufficienti ad accoglierle. Ma anche dove le fogne esistono si continua ad assistere al flusso di acque maleodoranti che invadono i terreni o finiscono nel mare; pensiamo alle frequenti denunce che appaiono anche su questo giornale. All’origine di questi sgradevoli fenomeni sta il fatto che i paesi e le città sono cresciuti con sistemi fognari pensati per una popolazione e per “consumi” di acqua molto minori degli attuali.
L’aumento della disponibilità di acqua nelle città è stato un grande successo, ma troppo poca attenzione è stata posta su quello che avviene quando l’acqua esce e scende dai lavandini, vasche, lavatrici, e gabinetti. Intanto va abolita la parola “consumo di acqua” perché l’acqua non si consuma ma “si usa” per qualche tempo e non scompare ma continua la sua circolazione della casa alla fogna ai depuratori (dove esistono) al sottosuolo, ai fiumi, al mare.
Una famiglia di tre persone “usa” in Italia, in media, ogni giorno poco meno di mille litri di acqua “potabile”, quella che ci arriva in casa attraverso gli acquedotti; qualche litro viene usato per bere o per cuocere gli alimenti, ma la maggior parte è usata per l’igiene personale, per lavare le stoviglie e i panni e per “portare via” da casa gli escrementi. In ciascuna di queste operazioni la quantità di acqua resta praticamente la stessa, prima e dopo l’uso, ma l’acqua usata risulta addizionata di detersivi, sporcizia, escrementi, residui di cibo, grassi. L’acqua usata che esce da ogni abitazione finisce sotto terra in qualche tubazione che la trasporta nelle fogne, altre tubazioni sotterranee, spesso costruite decenni fa. In molte zone, anche nelle grandi città, le abitazioni non sono collegate alle fogne e le acque usate finiscono in una “fossa” da cui vengono periodicamente prelevate da imprese che le portano (speriamo) nei depuratori delle città.
Le fogne dovrebbero essere collegate con depuratori che dovrebbero separare le sostanze sospese sotto forma di fanghi, poi dovrebbero decomporre le sostanze rimaste in soluzione trasformandole in composti gassosi o in sali innocui. Anche in questo caso ci troviamo spesso di fronte a depuratori costruiti anni fa, di insufficiente capacità o privi di tecnologie adeguate, o che si limitano ad una grossolana filtrazione di alcune delle fonti di inquinamento; le acque che ne fuoriescono finiscono nelle falde sotterranee, e da qui nei pozzi, oppure nei fiumi o nel mare, ancora cariche di sostanze indesiderabili se non nocive, quando addirittura non contengono residui di medicinali, di stupefacenti, di solventi.
Il “fiume” invisibile sotterraneo di acque usate, in una città di centomila abitanti, ha una portata di circa dieci milioni di metri cubi all’anno; inoltre sulla superficie di una tale città cadono, ogni anno, circa 100 milioni di metri cubi di acque piovane che scorrono sulla superficie dei tetti e delle strade e finiscono, attraverso i tombini (dove ci sono e quando sono puliti), nelle fogne e anche loro nei depuratori. È una corsa fra città che crescono come abitanti e come estensione e adeguamento delle fognature, opere costose che richiedono interventi profondi sulle strade.
Ancora peggio: le costruzioni abusive, i quartieri sorti al di fuori dei piani regolatori, spesso non sono collegate alle fognature e ai depuratori e la loro esistenza aggrava i problemi di inquinamento. Eppure una attenta politica e gestione dei “fiumi sotterranei” di acque usate, oltre a difendere la salute, avrebbe importanti ricadute positive ed economiche. Intanto fra i rifiuti organici che finiscono nelle fogne ci sono molte sostanze che potrebbero essere utilizzate in agricoltura. Victor Hugo dedica l’intero secondo libro della quarta parte de “I miserabili” ad una lunga e dettagliata analisi che figurerebbe bene in un trattato di merceologia o di ecologia. “Parigi – egli scrive – butta nell’acqua venticinque milioni (di franchi dell’epoca) all’anno, giorno e notte” di sostanze organiche che potrebbero essere utilizzate come concime per aumentare la produzione dei campi, l’“oro-concime, l’incalcolabile elemento di ricchezza che abbiamo sotto mano e che finisce nel mare. Tutto l’ingrasso umano che il mondo perde, restituito alla terra invece d’essere buttato nell’acqua, basterebbe a nutrire il mondo”.
A un secolo e mezzo di distanza oggi sono (sarebbero) disponibili tecniche non solo per la raccolta razionale delle acque usate, sia di quelle “nere”, contenenti escrementi, sia di quelle “bianche” meno inquinate, sia di quelle piovane che scorrono sulle strade; sono disponibili tecniche raffinate per la depurazione delle acque usate in modo da recuperare i gas combustibili che si formano nel processo, il cosiddetto “biogas” contenente oltre il 50% di metano combustibile, sarebbe possibile recuperare sostanze fertilizzanti per i terreni e addirittura recuperare acqua depurata adatta per irrigazione. Senza contare che, secondo le leggi che impongono un servizio idrico integrato (distribuzione, dell’acqua, fognature e depurazione delle acque usate), ciascuno di noi già paga, nella bolletta dell’acqua, anche tali servizi e ha quindi il diritto di esigere che siano assicurati in maniera adeguata.
La diffusione delle informazioni sulla storia naturale delle acque, questo prezioso “bene comune”, attraverso le città consentirebbe di risparmiare soldi, di controllare come vengono spesi e di avere un ambiente migliore.
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, n.1, 2014
Il ciclo dell’acqua
Stiamo appena risanando alla meglio le ferite apportate al nostro paese da alcune settimane di tempeste fuori dell’ordinario, con terre allagate, case, campi e fabbriche invase dal fango, e dolori e disagi di migliaia di persone e danni monetari e morti. Fenomeni che ci hanno resi fratelli di milioni di altre persone colpite da tempeste e alluvioni, nel corso di questo 2013, in tante altre parti della Terra. Sono (abbastanza) note le cause di tali disastri per quanto riguarda i continenti: erosione del suolo dovuta a diboscamento e a colture intensive, mancanza di manutenzione dei fiumi e torrenti, costruzioni in luoghi non adatti di edifici, strade e ponti che hanno ostacolato lo scorrere naturale delle acque, eccetera.
Minore attenzione viene invece rivolta al ruolo che il mare ha in questi eventi così gravi; il mare, la cui superficie è oltre il doppio di quella delle terre emerse, è un gigantesco collettore dell’energia solare che scalda la superficie degli oceani (il più grande è quello Pacifico, seguito da quello Atlantico e dall’Oceano Indiano) e dei tanti mari, alcuni dei quali, come il Mediterraneo, sono poco più che grandi laghi all’interno dei continenti. L’acqua di mare è caratterizzata da una temperatura variabile a seconda della latitudine e della stagione e che risulta “in media” di circa 15 gradi Celsius, e da un contenuto medio di sali di circa 35 chilogrammi per metro cubo di acqua, anche questo variabile a seconda della vicinanza delle foci dei grandi fiumi di acqua dolce o della vicinanza dei ghiacciai polari.
Il flusso della radiazione solare scalda gli strati superficiali dei mari e fa evaporare una parte dell’acqua che si disperde nell’atmosfera, il terzo protagonista del grande ciclo dell’acqua sulla Terra. Il vapore acqueo caldo sale nella massa dell’atmosfera e si dirige verso zone della Terra più fredde, nelle quali si separerà dall’atmosfera in forma liquida ricadendo sui mari e sulle terre emerse sotto forma di piogge. Questo spostamento delle masse di vapore acqueo nell’atmosfera contribuisce a generare quelli che chiamiamo venti, il quarto protagonista del grande spettacolo che si svolge sul palcoscenico della natura. Le variazioni di temperatura della superficie terrestre e dei mari, i venti e i continui movimenti degli strati superficiali del mare hanno un ruolo benefico per l’esistenza umana: scaldano le parti fredde della Terra, rendono abitabili le zone calde e portano piogge nelle zone aride.
Qualche volta la natura esagera; per motivi poco noti certe volte “piove troppo” e altre volte le piogge ritardano e provocano siccità. L’analisi delle forze che governano le grandi circolazioni di acque e aria sul pianeta, spiega che le normali bizzarrie climatiche si sono aggravate, in questo ultimo secolo, per il lento aumento della temperatura dell’atmosfera, e quindi della superficie dei mari, dovuto alla modificazione della composizione chimica dell’atmosfera per colpa degli inquinamenti umani. L’IPCC, il gruppo di scienziati di diversi governi che studiano i mutamenti climatici, ha di recente completato il quinto aggiornamento sul clima planetario che ha confermato il rapporto fra attività umane e peggioramento del clima. Mediante l’uso di modelli matematici adesso si capisce qualcosa di più sull’origine delle tempeste che devastano sempre più spesso tante parti del pianeta con una frequenza e violenta che non si ricordavano da decenni o secoli.
Che fare? Le opere di rimboschimento o la protezione del verde esistente consentono di rallentare il flusso delle acque sul terreno e l’erosione. Soprattutto occorre cercare di prevenire le conseguenze che tali bizzarrie avranno sulle terre emerse, tenendo liberi da ostacoli gli alvei di torrenti e fiumi, “le strade” in cui le piene improvvise possano scorrere liberamente verso il mare. Questo richiede più rigorose norme che vietino le costruzioni vicino o lungo le strade dell’acqua e occorrono sistemi di vigilanza continua sui fiumi, torrenti e fossi: delle sentinelle idrologiche che informino continuamente le autorità responsabili sullo stato delle acque. Ma ci sono anche dei possibili preallarmi delle condizioni climatiche anomale.
Uno è costituito dalla misura della temperatura delle acque costiere, in genere in aumento quando si avvicinano piogge particolarmente intense. Mi chiedo quanti amministratori pubblici sappiano che l’Ispra (l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) ha un proprio sito Internet www.mareografico.it, nel quale sono riportati, per numerose stazioni costiere, istante per istante, i caratteri fisici del mare: temperatura, acidità, salinità le informazioni essenziali per conoscere lo stato dei mari e il suo mutamento. Per la Puglia le stazioni sono a Bari, Tremiti e Vieste, tutte sull’Adriatico. Il prof. Antonio Lupo mi ha scritto che alcuni quotidiani del Friuli pubblicano ogni giorno i dati del mare misurati dai locali Istituti Nautici.
Mi auguro che anche la Gazzetta del Mezzogiorno voglia inserire un piccolo notiziario “del mare” per una regione che, con i suoi ottocento chilometri di coste, è esposta a siccità e tempeste che, in parte, possono essere previste proprio da tali dati. Questa vigilanza offre una nuova occasione di “servizio” alla comunità civile per le università e gli Istituti tecnici regionali, e per le autorità civili e militari del mare. Oggi è certo, infatti, che è il mare il vero grande protagonista e responsabile degli eventi da cui dipendono la vita e l’economia.
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, n.1, 2014
Il ritorno della gomma guayule
Ritorna, dopo oltre mezzo secolo, la gomma naturale ottenuta dal guayule, una pianta coltivabile in paesi dal clima temperato, come alternativa, anche ecologica, alla gomma naturale che si ottiene oggi quasi esclusivamente dagli alberi di Hevea brasiliensis, coltivati nei paesi a clima tropicale.
La produzione industriale e l’uso commerciale della gomma naturale sono cominciati all’inizio del 1800 dopo la scoperta che la corteccia di alcuni alberi della foresta tropicale contengono un lattice, un succo da cui, per coagulazione, si separa una materia elastica, insolubile in acqua, costituita dalla macromolecola poli-isoprene, che si presta alla fabbricazione di tubi, rivestimenti di fili elettrici, pneumatici per veicoli e innumerevoli altri oggetti. La produzione della gomma, diventata essenziale per l’economia e l’industria, è stata monopolio del Brasile fino alla seconda metà dell’Ottocento quando i semi della preziosa pianta sono stati portati nelle colonie inglesi, francesi e olandesi asiatiche e africane.
Gli Stati Uniti e la Russia, che dipendevano dalle importazioni di gomma, hanno cercato altre piante che contenessero nel loro fusto dei succhi da cui ricavare la gomma. In Russia ci sono state coltivazioni di kok-saghiz (Taraxacum kok-saghyz), e negli Stati Uniti quelle di guayule (Parthenium argentatum), arbusti spontanei. Fu un lavoro che interessò anche l’Italia, anzi proprio la Puglia. Nel 1933 l’Italia dipendeva completamente per le importazioni di gomma dalle piantagioni di Hevea del Brasile e del sud-est asiatico, nelle mani delle grandi potenze coloniali, con le quali il governo fascista pensava o progettava di scontrarsi un giorno.
Il governo fascista mandò alcuni tecnici negli Stati Uniti presso la Intercontinental Rubber Company che coltivava piante di guayule in California e produceva gomma da tali piante, per vedere se fosse possibile coltivare il guayule in Libia o in Sardegna o in Basilicata o in Puglia. La Intercontinental inviò in Italia un suo addetto che visitò le varie regioni e ne studiò le condizioni agronomiche; fu così stipulato un contratto (per alcune diecine di milioni di lire, che allora erano tanti soldi) secondo cui la società americana avrebbe inviato semi e piantine di guayule e collaborato alla loro messa a dimora. L’intera storia è contenuta in un bel libro: “SAIGA. Il progetto autarchico della gomma naturale. Dalla coltivazione del guayule alla nascita del polo chimico di Terni”, scritto da un giovane storico, Alberino Cianci, e pubblicato qualche anno fa dalla piccola casa editrice Thyrus, di Arrone (Terni) (www.edizionithyrus.it).
L’autore ha potuto ricostruire una pagina dimenticata della storia dell’industrializzazione italiana, nel turbolento periodo dell’autarchia fascista, perché ha avuto modo di mettere le mani su un prezioso archivio salvato fortunosamente da un dipendente diligente e lungimirante. Il libro contiene la storia dei tentativi di coltivazione, in Italia o nelle colonie italiane del tempo, di piante da guayule. Nel 1937 fu creato un “Ente gomma guayule” e fu costituita, dalla Pirelli e dall’IRI, la SAIGA (Società Anonima Italiana Gomma Autarchica); fra i consulenti e gli amministratori figuravano nomi illustri come i chimici Giuseppe Bruni, Giulio Natta, Francesco Giordani e il finanziere Enrico Cuccia, futuro presidente di Mediobanca.
Falliti i tentativi di coltivazioni del guayule in Libia, il clima del Tavoliere risultò sufficientemente arido e asciutto per la coltivazione degli arbusti di guayule e nel 1938 furono acquistati alcuni terreni a sud di Cerignola dove fu creato un vivaio. Furono piantate, nella primavera del 1940 (poco prima che l’Italia entrasse nella seconda guerra mondiale), 25 milioni di piantine di guayule, ottenute con i semi selezionasti fatti venire dalla California; ci si aspettava una produzione di mille chili di gomma per ettaro e il progetto prevedeva di ottenere 10.000 tonnellate all’anno di gomma, un terzo del consumo italiano del tempo. Negli anni successivi, la guerra fece cessare la collaborazione con gli Americani; la mancanza di carburante, di personale, di macchinari, portò lentamente al fallimento e all’abbandono delle piantagioni foggiane di guayule. Nel 1944 i terreni destinati alla produzione della gomma furono occupati dagli Alleati e riconvertiti a cereali. Le proprietà della SAIGA a Cerignola furono vendute all’Opera Nazionale Combattenti e nel 1947 la SAIGA fu messa in liquidazione.
A partire dagli anni cinquanta del Novecento il mercato della gomma è stato occupato in proporzioni crescenti dalla gomma sintetica ottenuta dal petrolio, anche se la produzione di gomma naturale da Hevea non si è estinta, anzi. Nel 2012 la produzione di gomma sintetica è stata di 15 milioni di tonnellate, ma quella della gomma naturale è ancora di circa 11 milioni di tonnellate. I tre principali paesi produttori di gomma naturale sono l’Indonesia, la Thailandia e la Malaysia. La ripresa dell’interesse per la coltivazione del guayule sta nel fatto che la gomma che se ne ottiene ha un contenuto di proteine inferiore a quello del lattice di Hevea per cui i manufatti, specialmente guanti, di lattice di gomma guayule non provocano quelle allergie che talvolta sono provocate dall’uso di manufatti di gomma Hevea, un vantaggio per la salute. Anche una resurrezione della gomma guayule pugliese?
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, n.1, 2014
La circolazione natura-merci-natura
I modi di produzione di merci e di servizi, anche quando si tratta di servizi apparentemente “immateriali”, hanno a che fare con beni fisici, materiali. A parte i servizi essenziali come cibo e acqua e indumenti, in cui gli oggetti sono indispensabili, il servizio “informazione” richiede reti elettriche di rame e macchinari di plastica e metallo o carta per libri e giornali; il servizio “trasporto” richiede autoveicoli, treni, carburante, elettricità; il servizio “illuminazione” richiede lampade e elettricità prodotta dai prodotti petroliferi o dal carbone o dal moto delle acque entro tubazioni di metallo e cemento; il servizio “salute” richiede edifici, strumenti di misura, letti, prodotti chimici, eccetera.
L’analisi dei modi di produzione dovrebbe presupporre una analisi dei diversi oggetti con cui è possibile soddisfare i bisogni e ciascun oggetto è ottenuto mediante un flusso di materia ed energia che parte dalle risorse della natura – minerali, acqua, combustibili, vegetali, animali – passa attraverso macchinari in cui la materia naturale viene “addizionata” con lavoro umano e conoscenze (cioè con la storia incorporata in ciascun gesto del lavoratore, così come si è evoluto e si modifica ogni giorno e ogni anno).
I macchinari producono oggetti, che sono merci, acquistabili con denaro nel sistema capitalistico, ma che in assoluto sono “cose”, aggregati di molecole di materia con la relativa energia “incorporata”, oggetti che scorrono da un settore all’altro della vita sociale. Alla fine le “merci” vengono usate nel settore della famiglia, del lavoro, dei servizi e, naturalmente, non si “consumano” ma ritornano alla natura sotto forma di gas, liquidi o solidi, esattamente con le stesse molecole uscite dalla natura che incorporano la stessa energia (se pure, quest’ultima, in forma termodinamicamente meno “pregiata”).
Siamo di fronte, quindi, ad una circolazione natura-merci-natura, o N-M-N. (Uso il termine “merce” nel senso di cose fisiche che fluiscono attraverso la produzione e il “consumo”). Le merci non sono neutrali rispetto ai bisogni che soddisfano, nel senso che lo stesso bisogno umano può essere soddisfatto con differenti merci (differenti alimenti o detersivi o autoveicoli) traendo, quindi, differenti materie dalla natura e restituendo differenti scorie alla natura.
L’analisi della circolazione natura-merci-natura mostra che la qualità, il “valore”, di ciascuna merce non sono descritti dal prezzo monetario il quale dipende dal modo in cui vengono ottenuti i beni della natura. A parità di servizio certe merci vengono prodotte perché i rapporti imperialistici consentono di ottenere a basso prezzo minerali o fonti di energia dai paesi poveri; se i rapporti commerciali internazionali fossero diversi lo stesso servizio potrebbe essere soddisfatto da merci prodotte in modo del tutto differente.
Lo stesso ragionamento vale per la quantità di scorie che si liberano nel soddisfare una “unità di servizio” (il chilometro percorso da una persona; il chilogrammo di biancheria lavata da una famiglia; il chilogrammo di proteine mangiate da una persona) o per la sollecitazione a cui è sottoposto un lavoratore.
Al fine di identificare altre scale di valori, in prima approssimazione si potrebbe cominciare a cercare di riconoscere in ciascuna cosa-merce il “contenuto di natura”: è molto maggiore il contenuto di “albero” in un chilogrammo di carta nuova che in un chilogrammo di carta ottenuta dalla carta straccia; il contenuto di “minerale” in un chilogrammo di alluminio ottenuto dalla bauxite rispetto a quello ottenuto dal riutilizzo dei rottami.
Analogamente va cercato il “contenuto di energia” di ciascun oggetto, definito, grossolanamente, come la quantità di energia necessaria per produrne la unità di peso o per ottenere la unità di servizio. È l’idea che ha affascinato decine di critici del capitalismo, con proposte talvolta bizzarre, come l’assegnazione di una moneta-energia uguale per ciascun individuo e commerciabile. (Per una stimolante storia di queste idee si veda il libro di J. Martinez-Alier, “Economia ecologica”, Garzanti, Milano, 1991). Infine, sempre in questa prima approssimazione, si dovrebbe cercare di riconoscere il “contenuto” di scorie che si formano nella fase di produzione e di “consumo” della solita unità di merce o di servizio, qualcosa come un “costo ambientale”.
I “costi” in materie prime, in acqua, in energia e in scorie – adesso le mode ambientaliste li chiamano “impronte” – sono indicati in unità fisiche, naturali così come il lavoro viene indicato in ore lavorative (che dovrebbero includere quelle effettivamente associate al lavoro, in cambio di un salario, e quelle “regalate” dal lavoratore al datore di lavoro sotto forma di tempo impiegato nel trasporto al posto di lavoro).
Indipendentemente dal prezzo in unità monetarie, in un pianeta di risorse naturali scarse, “vale” di più una merce che, sempre per unità di peso o di servizio svolto, richiede meno risorse naturali, meno acqua, meno energia e genera meno scorie.
Continuando con questo ragionamento dovrebbe “valere” di più una merce ottenuta da materie importate da paesi che lottano per la propria indipendenza, anche se le materie importate da paesi oppressori costano di meno. E poi dovrebbe valere di più una merce duratura rispetto ad una “a breve vita” (o del tipo usa-e-getta, come si suol dire) perché estrae meno risorse dalla natura e getta meno scorie nella natura, e così via.
Si tratta di un inizio di un cammino alla ricerca di nuove scale di valori da percorrere anche riscoprendo oscuri e dimenticati predecessori. Citerò solo un articolo del socialista ucraino Serhii Podolinski: “Il socialismo e l’unità delle forze fisiche”, apparso nella “rivista socialista” La Plebe di Milano, anno 14, numeri 3 e 4 del 1881. Anche lui concludeva il suo articolo dicendo che bisognava partire dal valore fisico e naturale della produzione. Abbiamo già perso 130 anni!
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, n.1, 2014
La fame e il ruggito del mondo
Da quando è stato eletto Papa, Francesco ha parlato almeno tre volte dello scandalo e della violenza della fame nel mondo, un tema del resto trattato sempre anche da tutti i suoi predecessori. Ma nell’ultimo intervento, del 9 dicembre, il Papa ha ripetuto la parola “scandalo” per il miliardo di persone che ancora oggi soffrono la fame quando “il cibo a disposizione nel mondo basterebbe a sfamare tutti”. Ha poi continuato con parole ancora più dure: ha invitato le istituzioni e ciascuno di noi “a dare voce a tutte le persone che soffrono silenziosamente la fame, affinché questa voce diventi un ruggito in grado si scuotere il mondo”. Un ruggito, capite? E ha continuato invitando a “diventare più consapevoli nelle nostre scelte alimentari, che spesso comportano lo spreco di cibo e un cattivo uso delle risorse a nostra disposizione”.
Le parole del Papa contengono anche una sfida tecnico-scientifica, merceologica e pedagogica. È vero che la natura offre una sufficiente quantità di calorie e proteine alimentari con le quali sarebbe possibile soddisfare i fabbisogni di cibo per i sette miliardi di esseri umani; tali ricchezze della Terra non arrivano ai poveri affamati per le regole economiche internazionali e per la “globalizzazione dei mercati” che distorcono la loro distribuzione. Al punto che nei paesi ricchi molti si ammalano per eccesso di cibo e incredibili sprechi, mentre molti dei beni alimentari non sono accessibili neanche a coloro che li hanno prodotti. Nei paesi ricchi, abitati da appena due dei sette miliardi di terrestri, il cibo che troviamo nel negozio arriva dopo un lungo cammino che comincia nei campi dove le piante elaborano, con l’energia solare, semi, tuberi, frutti, verdure appositamente coltivati a fini alimentari.
Una parte di questi alimenti viene distrutta dai parassiti per mancanza di adeguate strutture di conservazione, una parte deperisce rapidamente e va perduta prima di essere trasferita ai luoghi di conservazione e trasformazione. Una parte degli alimenti vegetali viene destinata all’alimentazione degli animali da allevamento, oltre un miliardo di bovini, suini, pollame che trasformano i prodotti vegetali in carne e latte e uova, contenenti proteine pregiate dotate di un valore nutritivo maggiore di quello delle proteine di origine vegetale. La zootecnia assorbe circa dieci unità di valore alimentare vegetale per produrre appena una unità di valore alimentare animale pregiato. Poiché in questa trasformazione i produttori di cereali e gli allevatori di bestiame guadagnano di più che se vendessero gli alimenti vegetali per uso diretto, nel nome del profitto di poche imprese, grandi quantità di alimenti prodotti nei paesi poveri, o che potrebbero essere utilizzati direttamente dai poveri del mondo, vengono dirottati verso i più redditizi allevamenti zootecnici.
Non solo: una parte dei vegetali importanti a fini alimentari, soprattutto cereali, viene trattata per produrre carburanti “ecologici” utilizzabili al posto della benzina e del gasolio, con forti incentivi di molti governi; hanno ragione coloro che sostengono che il mais viene tolto di bocca ai poveri affamati per far correre i “suv” dei paesi ricchi. Eppure si sa che carburanti alternativi al petrolio potrebbero ben essere prodotti usando materie vegetali non alimentari, quei sottoprodotti che si formano durante ogni coltivazione agricola e che finiscono nei rifiuti. Altre perdite si hanno nelle fasi successive del ciclo degli alimenti; nessun prodotto arriva sulla nostra tavola direttamente dai campi o dagli allevamenti; i prodotti dell’agricoltura e della zootecnia vengono trasportati, spesso a distanza di migliaia di chilometri, e poi trasformati, conservati, inscatolati dall’industria agroalimentare con elevate perdite di sostanze preziose dal punto di vista nutritivo. Si può stimare che ogni dieci unità di valore nutritivo forniti dall’agricoltura e dalla zootecnica soltanto due arrivino come cibo al “consumo” finale, con conseguente spreco di beni ambientali, di energia, di acqua e relativi inquinamenti.
Ma lo spreco di cui parla il Papa non è solo questo. Circa il 30 percento degli alimenti che entrano nelle famiglie, nei ristoranti, nelle mense delle comunità, va perduto come rifiuti nelle discariche. Sono vissuto in un tempo in cui si raccontava ai bambini l’ingenua favoletta di Gesù che scendeva da cavallo per raccogliere una briciola di pane caduta per terra. Oggi la massa di perdite e di sprechi del ciclo alimentare ammonta a diecine di miliardi di tonnellate all’anno: utili programmi di ricerca scientifica permetterebbe di verificare dove si trovano gli sprechi, da che cosa sono costituiti, come è possibile trasformare il rifiuto in ricchezza, come è possibile trarre cibo di buon valore alimentare da sottoprodotti o da piante finora trascurate. Sfortunatamente esistono alcuni, troppo pochi, centri di ricerche su questa “tecnologia della carità” e purtroppo il tema dello spreco alimentare è del tutto assente dai piani dei “saggi governanti”.
L’avvicinarsi del Natale ci offre una ubriacatura pubblicitaria di cibi sempre più sofisticati e raffinati e le regole economiche sollecitano il “dovere” di comprarne sempre di più perché, dicono, questo aiuta l’economia. Nessuno parla di comportamenti e scelte coerenti con quelli suggeriti dal Papa venuto dall’altra parte del mondo; speriamo che il ruggito del mondo povero ci scuota dalla nostra indifferenza.
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, n.1, 2014
Vladimir Vernadskij: un pioniere dell’ecologia
150 anni fa a San Pietroburgo, nella Russia zarista, nasceva Vladimir Vernadskij, una delle persone più significative nella storia dell’ecologia, un personaggio straordinario troppo poco conosciuto. Vernadskij, che aveva partecipato ai movimenti giovanili di protesta contro l’assolutismo degli Zar, dopo un periodo di studi in Germania, nel 1890 era diventato professore di geochimica, una giovane disciplina che studiava con strumenti chimici la composizione dei minerali. Per queste sue competenze era divenuto membro dell’Accademia russa delle Scienze ed era stato nominato presidente di una speciale Commissione per lo studio delle risorse naturali, incaricata di identificare i giacimenti di minerali di importanza economica sparsi nello sterminato impero russo. Vernadskij aveva studiato, in particolare, i minerali radioattivi che erano stati scoperti e descritti pochi anni prima dai coniugi Curie.
Dopo la rivoluzione bolscevica del 1917 Vernadskij aveva continuato i suoi studi e l’insegnamento. Non era membro del Partito Comunista, ma fu rispettato e apprezzato dal governo bolscevico e da Lenin, e poi da Stalin, che lo incaricarono di continuare a dirigere la Commissione per le risorse naturali e anzi di intensificarne l’attività. In un periodo della storia russa che molti descrivono come oscuro, violento, intollerante, questo non-comunista fu nominato presidente della prestigiosa Accademia delle Scienze dell’URSS, girava il mondo e passò alcuni anni, dal 1924 al 1926, a Parigi presso l’Istituto Pasteur.
A Parigi insegnò all’Università, mettendo a punto la nuova rivoluzionaria visione biogeochimica della grande unità di tutto il mondo biologico e inanimato, che sta alla base della moderna ecologia. Nel periodo di Parigi apparvero, prima in francese e poi in russo, due opere fondamentali di Vernadskij: “La geochimica” e “La biosfera”. Nella Parigi di quegli anni venti – l’“età dell’oro dell’ecologia”, come l’ha chiamata il biologo italiano Franco Scudo (1935-1998) – vivevano e insegnavano anche il grande matematico italiano Vito Volterra (1860-1940), che descrisse le leggi fondamentali della coesistenza delle popolazioni animali, e il russo Vladimir Kostitzin (1883-1963), emigrato dall’Unione Sovietica dopo un passato di rivoluzionario, a cui si devono altre opere fondamentali di biologia matematica.
Le lezioni di Vernadskij furono seguite dal gesuita francese Pierre Theilard de Chardin (1881-1955), che conduceva ricerche di paleontologia in Cina e a cui si deve il concetto di “noosfera”, la forma in cui la storia naturale dell’uomo si completerà come trionfo della mente (noos in greco).
Tornato nell’URSS, Vernadskij si batté con successo perché l’Accademia delle Scienze sovietica restasse indipendente dall’influenza politica del governo, e continuò le sue ricerche sui minerali strategici e radioattivi che avrebbero assicurato all’Unione Sovietica la produzione industriale e la vittoria contro il nazismo. Ma soprattutto Vernadskij va ricordato per aver elaborato, in forma compiuta, la grande visione unitaria della vita sul pianeta. Una vita che si basa sulla circolazione degli elementi dall’atmosfera alle piante, agli animali, al suolo, e poi di nuovo all’atmosfera e alle acque; di questi cicli vitali fanno, naturalmente, parte gli esseri umani.
Oggi sono stati inventati nuovi termini: si parla di visione “olistica”, unitaria, appunto, dell’ecologia, ma il concetto di unità bio-geochimica della vita sul pianeta nasce proprio con Vernadskij quasi novant’anni fa. Vernadskij descrisse chiaramente le alterazioni del clima dovute alla modificazione della composizione chimica dell’atmosfera, tanto che già nel 1926 era chiaro quello che oggi chiamiamo “effetto serra”. Vernadskij parlò del ruolo dell’ozono stratosferico come filtro delle radiazioni ultraviolette solari biologicamente dannose e delle conseguenze di quello che oggi chiamiamo il “buco dell’ozono”. Negli studi biogeochimici di Vernadskij erano descritti i danni dell’erosione del suolo e i pericoli di perdita di fertilità dei terreni a causa delle attività antropiche irrazionali.
Ma forse l’opera più interessante, quasi il testamento scientifico e spirituale, è il breve saggio, pubblicato nel gennaio 1945 nella rivista americana “American Scientist”, intitolato: “La biosfera e la noosfera”. Vernadskij usa il termine noosfera con un significato diverso da quello di Theilard de Chardin; per Vernadskij la “noosfera” è l’insieme delle modificazioni operate sulla biosfera dalle attività derivate dalla mente umana. Vernadskij spiega bene che tali modificazioni possono essere negative per i grandi cicli biogeochimici da cui dipende la sopravvivenza della stessa specie umana, ma nota che tali modificazioni – se dominate dalla mente umana, anziché dall’avidità di gruppi o singoli – possono anche contribuire al progresso umano attraverso l’uso razionale delle ricchezze della natura. Un messaggio di speranza che viene da uno scienziato che è passato, a testa alta e rispettato, attraverso lo zarismo e l’epoca sovietica, giustamente onorato in Russia tanto che a Mosca al suo nome sono intestati l’Istituto di Geochimica dell’Accademia delle Scienze, un grande viale e una stazione della metropolitana.
Il contributo di Vernadskij è poco noto sia perché molte delle sue opere sono state scritte in russo, sia perché c’è una specie di pigrizia, da parte di tanti, nei confronti delle radici culturali dell’ecologia. Soltanto nel 1999 l’editore Sellerio ha pubblicato un’ampia raccolta dei suoi scritti col titolo: “La biosfera e la noosfera”. E sarebbe utile che tali scritti fossero letti da chi dovrebbe occuparsi di ambiente nell’Italia odierna.
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, n.1, 2014
“Tua per sempre”: la violenza sulla natura
“Tua per sempre”. È il messaggio che ci arriva da ciascuna delle conseguenze negative, durature, di tante violenze ambientali cui sono esposte la nostra, e molte future generazioni. Molti anni fa negli Stati Uniti un gruppo di studiosi pubblicò un libro intitolato: “Il ruolo dell’uomo nel cambiare la faccia della Terra”, una storia delle modificazioni a lungo termine provocate dalle attività umane sulla natura, e quindi sulla salute e sul benessere umano. Diecimila anni fa gran parte della superficie del pianeta era coperta da foreste; i nostri antenati hanno imparato presto a trarre dal bosco legna per scaldarsi o per ricavare metalli dai minerali, per costruire solidi edifici o navi con cui solcare i mari e estendere i commerci.
L’impoverimento delle risorse forestali è stato tuttavia lento; ancora nel Medioevo era possibile andare da Roma a Parigi senza uscire mai dalle foreste; Federico II poteva andare a caccia nei boschi della Puglia. L’industrializzazione e l’aumento della popolazione e dei bisogni materiali hanno accelerato la distruzione di crescenti superfici dei boschi per conquistare campi coltivabili e per costruire grandi città; spazi di suolo sempre più grandi sono rimasti nudi, esposti alle piogge e all’erosione. Queste azioni sono la causa delle frane e alluvioni e dei relativi costi e dolori della nostra e delle future generazioni, eredità lasciataci da centinaia di generazioni del passato.
Peraltro non possiamo prendercela con i nostri predecessori perché (eccetto pochi filosofi o naturalisti inascoltati) non potevano prevedere la violenza a cui avrebbero condannato noi. Noi invece oggi sappiamo bene che molte nostre azioni avranno effetti negativi duraturi su quelli che verranno in futuro, eppure non smettiamo di compierle e anzi di aggravarle. Un breve elenco di queste violenze è contenuto in un recente numero della rivista “Resources”. Intanto continuiamo anche noi nella distruzione delle foreste per accedere ai preziosi minerali nascosti nel loro sottosuolo, o per avere spazi liberi da coltivare con una agricoltura intensiva, pur sapendo che questo modo di produrre piante economiche alimentari, o destinate alla trasformazione in carburanti “biologici”, provoca altre alluvioni, e sapendo che molti dei terreni strappati alle foreste, dopo poco tempo, diventano inadatti alla coltivazione di qualsiasi cosa da parte nostra e di chi verrà dopo di noi.
Altre modificazioni, durature nel futuro, della Terra sono provocate dall’inquinamento dell’atmosfera, dovuto al consumo di combustibili fossili e a molti processi industriali e responsabile del lento, inarrestabile riscaldamento globale; è questa la causa delle improvvise tempeste, dei periodi di freddi intensi, dell’avanzata dei deserti e di mesi di siccità, spesso nelle stesse zone che poco prima erano state afflitte da devastanti piogge. I governanti dei vari paesi del mondo si affannano nel proporre di rallentare tale inquinamento, cioè di inquinare ogni anno un po’ meno dell’anno precedente, facendo finta di dimenticare che i disastri climatici sono dovuti alla continua aggiunta di nuove masse di gas a quelli ormai esistenti e permanenti per secoli futuri.
Altri effetti e pericoli duraturi sono dovuti ai rifiuti solidi e liquidi che vengono immessi nell’ambiente; ci si scandalizza, giustamente, per quelli che bruciano all’aria aperta, ma si dimentica che altrettanto grave e inarrestabile è il danno potenziale anche di tutti i rifiuti che sono sepolti nel sottosuolo in innumerevoli luoghi sconosciuti, in Italia e in tutti i paesi; gli agenti chimici presenti, di cui nessuno conosce natura o composizione o quantità, lentamente si disperdono nelle acque sotterranee e finiscono nei fiumi e nelle falde idriche che forniscono acqua per l’irrigazione e per le città. Anche in questo caso i governi, dopo breve indignazione, propongono bonifiche che non vengono portate a termine, o neanche avviate, sia perché costano, sia perché richiederebbero analisi e trattamenti a cui le Università e le industrie sono impreparati. Si pensi soltanto che la mortale “diossina”, oggi sulla bocca di tutti, benché presente da secoli nell’ambiente, quarant’anni fa era quasi sconosciuta.
E fra i rifiuti una posizione specialissima, per i duraturi pericoli e danni futuri, hanno quelli radioattivi, i residui delle attività di preparazione dell’uranio e del plutonio impiegati nelle bombe nucleari e nelle centrali nucleari commerciali. Le oltre quattrocento centrali nucleari che nel mondo ogni anno producono 2600 miliardi di chilowattore, il 12% dell’elettricità totale, generano ogni anno come sottoprodotti centinaia di migliaia di tonnellate di elementi, radioattivi per secoli, che lasciamo come eredità a centinaia di future generazioni. Senza contare che sulle nostre teste il cielo è affollato da “spazzatura” costituita da pezzi dei satelliti artificiali che non funzionano più, e che spazzatura spaziale eterna, fino a quando non ci cascherà sulla testa, diventeranno in pochi decenni le migliaia di satelliti che oggi ci rendono felici con le trasmissioni televisive, o i collegamenti telefonici, o ci spiano anche quando andiamo a fare la spesa.
Voi direte che questo è il progresso, ma si potrà ben pensare un “progresso”, una “civiltà”, meno violenti per coloro che verranno. Se esiste (si fa per dire) una etica che impone rispetto del prossimo, vicino e contemporaneo, non sarà il caso di elaborare una etica che induca a rispettare il “prossimo del futuro”?
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, n.2, 2014
Geopolitica delle guerre
Ogni volta che qualche paese meno noto si affaccia nelle pagine dei giornali e nelle cronache televisive – dal Sahara, al Medio Oriente, al sud-est asiatico – potete stare certi che “dietro” c’è qualche materia che i grandi paesi industriali vogliono controllare.
Le guerre per le materie prime non sono certo nuove; gli antichi mercanti, quando trovavano dei venditori riottosi o avidi, non hanno mai esitato a conquistare con la forza le merci o le materie desiderate. La distruzione di Sodoma e Gomorra, le città divenute ricche per il loro monopolio nella produzione e nel commercio del sale, corrisponde probabilmente a un episodio di una delle tante guerre per le materie prime nell’antichità.
È tutta da scrivere una storia dell’umanità basata sulla violenza per conquiste geografiche: soprattutto con l’inizio della rivoluzione industriale del 1800 è facile riconoscere le guerre per la conquista dei giacimenti di nitrati nel Cile (la lunga guerra fra Cile, Bolivia e Perù, sobillata dagli europei); per la conquista della parte dell’Amazzonia ricca di alberi della gomma; quelle per mettere fine al monopolio siciliano dello zolfo; per i giacimenti dei fosfati, eccetera. Molte manifestazioni dell’imperialismo hanno le loro radici nella conquista di giacimenti di materiali preziosi: la guerra per i giacimenti di ferro della Lorena, la spinta nazista alla conquista del petrolio russo, la spinta giapponese alla conquista della gomma in Malesia, eccetera.
La seconda guerra mondiale, combattuta fra i paesi industriali, aveva mostrato che una guerra moderna si poteva vincere soltanto con il possesso di materiali strategici, in gran parte presenti nei paesi coloniali: ai vecchi materiali – petrolio, gomma, ferro – se ne aggiunsero altri come cromo, vanadio, uranio, semi oleosi, ecc. I paesi coloniali, a mano a mano che si sono resi conto dell’importanza dei rispettivi territori e delle loro risorse, hanno cominciato a esigere la liberazione dalla condizione coloniale, considerata non soltanto una oppressione dei diritti umani fondamentali, ma anche come una occasione per rapinare gratis i materiali indispensabili per i vecchi e nuovi imperi.
Con l’indipendenza, molti nuovi stati si sono trovati padroni, finalmente delle “proprie” materie prime strategiche, in grado di chiedere per esse prezzi equi. I paesi industriali, da parte loro, hanno incoraggiato guerre locali – si pensi alla guerra del Congo/Zaire/Katanga – per assicurarsi cromo, cobalto, uranio. Ma la conquista delle materie prime non richiedeva, necessariamente, delle guerre: ai paesi industriali bastava insediare dei governi fantoccio, assicurarsi il monopolio della vendita di macchinari, capitali, armi, infrastruttrure; bastava “educare” i cittadini dei paesi ex-coloniali nelle scuole e università occidentali per farne degli amici.
Questi rapporti cripto-coloniali assicuravano comunque ai due imperi – capitalistico e comunista – merci e materie a basso prezzo. Fino a quando i paesi del “terzo mondo”, come li aveva chiamati il geografo Sauvy, non hanno cominciato a organizzarsi per attenuare le molte iniquità.
Le guerre recenti delle materie prime sono cominciate, dopo la fine della seconda guerra mondiale, nel 1951 quando Mossadeq in Iran depose lo shah e procedette alla nazionalizzazione del petrolio, un pessimo segno per le multinazionali che risposero col colpo di stato del 1953. Il governo fantoccio dello shah tornò al potere, rimettendo “ordine imperiale” nei rapporti fra l’Iran e le multinazionali petrolifere, le “sette sorelle”, senza contare che quel gesto di prepotenza avrebbe innescato un irreversibile processo di crisi del potere economico dell’Occidente.
Infatti come risposta il 19 luglio 1955, Nasser, Nehru, Chu En-Lai e Sukarno si riunirono a Bandung gettando le basi di un accordo fra paesi non allineati, ormai in numero sufficiente per poter contare nell’assemblea delle Nazioni Unite.
Nel 1956, nell’ambito di questo ordine mondiale alternativo, fu nazionalizzato il Canale di Suez, un altro segno della ribellione dei paesi in via di sviluppo; un intervento armato di Francia e Inghilterra fu evitato per l’intervento del presidente degli Stati Uniti Eisenhower che ristabilì l’ordine, apparentemente in modo così saldo da indurre le multinazionali addirittura a imporre una diminuzione del prezzo del petrolio greggio. A questa iniziativa i paesi esportatori di petrolio risposero creando, nel 1960, una organizzazione, l’OPEC, col proposito di regolare produzione e prezzi in modo da attenuare lo strapotere delle “sette sorelle” del petrolio.
Per cercare di mettere ordine in una situazione turbolenta, e non solo nel mercato del petrolio, le Nazioni Unite decisero di creare, nel 1964, una “conferenza” permanente per il commercio e lo sviluppo, UNCTAD secondo l’acronimo inglese, con l’obiettivo di stabilire accordi sui prezzi delle materie prime tali da non danneggiare i mercati ricchi e da assicurare un qualche flusso, verso i paesi poveri, di almeno un po’ dei soldi necessari al loro sviluppo. La nuova agenzia ha tenuto una serie di riunioni in cui i paesi sottosviluppati hanno fatto sentire in modo crescente la propria voce.
Altre cose intanto stavano cambiando: nel 1964 il democristiano Frei fu eletto presidente del Cile, il principale produttore di rame, le cui miniere e raffinerie di rame erano nelle mani di poche grandi compagnie americane e occidentali. Frei avviò un processo di “cilenizzazione” delle miniere che venivano sottratte alle compagnie straniere; queste per estrarre rame dovevano pagare dei diritti, non molto elevati, dato che il governo cileno assicurò degli indennizzi per gli investimenti che esse avevano fatto nel corso dei decenni precedenti.
La fine degli anni sessanta del Novecento vede il mondo attraversato da una ventata di nuove aspirazioni, da quelle degli operai e degli studenti e quelle dei paesi del sud del mondo, anche alla luce della sconfitta che si stava delineando per gli Stati Uniti nel Vietnam.
Il 1 novembre 1969 Gheddafi salì al potere, con un governo militare, in Libia, col programma di assicurare al suo paese maggiori guadagni dalla vendita del petrolio fino allora estratto dalle sette sorelle e pagato prezzi bassissimi. Il 14 settembre 1970 la Libia aumentò il prezzo del petrolio di 50 centesimi di dollaro al barile; alla fine del 1970 il prezzo del petrolio era salito da due a tre dollari al barile.
Intanto il 3 novembre 1970 fu eletto nel Cile il governo socialista di Salvador Allende, con un programma di sviluppo economico e sociale e di “nazionalizzazione” delle attività del rame. Le compagnie straniere si erano ripagate in abbondanza degli investimenti fatti fino allora e Allende annullò gli indennizzi assicurati anni prima da Frei: le miniere di rame venivano “nazionalizzate” e restituite al popolo cileno. Le compagnie avrebbero potuto comprare il rame come qualsiasi altro cliente.
Le due ribellioni, della Libia e del Cile, ebbero un effetto devastante nei rapporti internazionali. I paesi del terzo mondo si resero conto che potevano, se solo lo avessero voluto, trattare da pari a pari con i due imperi – americano e sovietico e con i loro satelliti industriali europei e asiatici – imponendo prezzi più equi. I profitti dei paesi poveri avrebbero potuto essere utilmente impiegati per avviare un processo di istruzione, miglioramento delle condizioni igieniche, costruzione di nuove città – in una parola per uno “sviluppo” umano.
Non a caso la terza “Conferenza delle Nazioni Unite su Commercio e Sviluppo” (UNCTAD III) si tenne nel maggio 1972 a Santiago del Cile e si concluse con una serie di dichiarazioni in cui i paesi del terzo mondo chiedevano più equi prezzi, un contenimento della concorrenza che i paesi industriali potevano fare, con le fibre e la gomma sintetiche, alle materie naturali dei paesi sottosviluppati, eccetera.
La sfida non poteva essere tollerata e gli Stati Uniti, il paese guida delle economie capitalistiche, decisero di “punire” il governo socialista di Allende con il colpo di stato (11 settembre 1973) durante il quale Allende fu “suicidato” e fu insediato il governo fascista di Pinochet, che riaprì le porte alle multinazionali americane. Si trattava di un segnale per i paesi del terzo mondo: migliori condizioni commerciali si sarebbero potute avere non con le buone, ma con gli strumenti del mercato e con la lotta. Il 6 ottobre 1973 scoppiò la breve quarta guerra arabo-israeliana; il successivo 8 ottobre i paesi aderenti all’OPEC – paesi non solo arabi, si badi bene – decisero di aumentare il prezzo del petrolio aumentando il prelievo fiscale. Il maggior prezzo avrebbe così fatto affluire nei paesi petroliferi ingenti quantità di denaro, investito per migliorare le condizioni dei paesi petroliferi stessi e per consentire a questi ultimi di aiutare i paesi sottosviluppati nel loro processo di sviluppo.
Dal 1973 al 1980 si ebbe un continuo aumento del prezzo del petrolio e una profonda crisi economica in occidente. Avrebbe potuto essere l’occasione per avviare dei processi di modernizzazione, di risparmio energetico, di più giusti rapporti con i paesi poveri, anche per attuare una politica di minore inquinamento e sfruttamento dell’ambiente.
Il mondo industriale riuscì a soffocare altri focolai di ribellione, come il colpo di stato in Katanga nel giugno 1977 che aveva fatto aumentare temporaneamente il prezzo del rame e del cobalto. Nel marzo 1979 Khomeini abbatté il governo dello shah in Iran, e ne seguì un nuovo aumento del prezzo del petrolio, l’ultimo, perché il mondo occidentale alimentò la lunga guerra fra Iran e Iraq, fra il 1980 e il 1988, che spaccò il blocco dei paesi sottosviluppati in due tronconi, fece rallentare il processo di sviluppo unitario e fece crollare – e questo era lo scopo del mondo occidentale – il prezzo del petrolio e delle altre materie prime.
Gli anni ottanta del Novecento furono quelli dello spreco, dello sfruttamento delle risorse naturale, dell’aumento del divario fra paesi industriali e paesi sottosviluppati e delle guerre, nell’Angola (diamanti e minerali), in Somalia (petrolio), nel territorio dei Sarawi (fosfati), destinate a rendere ancora più poveri i paesi già poveri.
Le guerre delle materie prime fin qui elencate possono insegnare qualche cosa? A varie riprese gli studiosi hanno indicato che le materie prime – alimentari, energetiche, minerarie – ottenibili dal pianeta sono tutt’altro che illimitate, hanno raccomandato di rallentare gli sprechi per non dover affrontare un giorno problemi di scarsità e di conseguenti aumenti dei prezzi.
Finora l’invito al contenimento dei consumi, ad una più giusta ripartizione delle risorse – materiali e finanziarie – fra paesi ricchi e paesi poveri, ad uno sviluppo meno insostenibile, ad una cultura “planetaria”, sono caduti inascoltati.
È cambiata la geopolitica planetaria: i “mondi” sono tornati ad essere tre, ma ben diversi da quelli di 60 anni fa: i paesi industrializzati, affamati di materie prime, i paesi di nuova industrializzazione, come Cina, India, Brasile, Indonesia, ancora più affamati di petrolio, gas, minerali, cereali, legname, e i paesi poveri e poverissimi che “servono” soltanto come magazzini di materie prime rapinate dagli altri due mondi. E proprio fra i poveri e i poverissimi nascono movimenti di ribellione che tendono ancora più instabile la situazione mondiale. E se si diffondesse una geografia e una educazione della giustizia?
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, n.2, 2014
Caffettiere e ambiente
Che cosa c’entra una caffettiera con l’ambiente? Forse più di quello che si creda perché la stessa persona, Benjamin Thompson (1753-1814) che ha scoperto alcune leggi fondamentali che consentono oggi di “perdere” meno calore nell’ambiente e che ha inventato dispositivi per diminuire l’inquinamento, ha inventato anche nel 1806 la prima caffettiera, quella a percolazione usata negli Stati Uniti (la caffettiera “napoletana”, comune da noi, è stata inventata invece dal francese Morize. nel 1819). Thompson, di cui ricorre quest’anno il bicentenario della morte, fu un personaggio straordinario, davvero fuori del comune perché ebbe una vita avventurosa, fu prolifico inventore, apprezzato scienziato e partecipò intensamente agli eventi politici del suo tempo.
Thompson nacque a Woburn, nel Massachusetts, uno degli stati delle colonie americane allora sotto gli inglesi; frequentò le scuole elementari del suo villaggio e a 13 anni fu assunto da un mercante di Salem, nello stesso stato, il che gli diede l’opportunità di frequentare persone istruite e benestanti e di migliorare la propria educazione. Nel 1772, a 19 anni, la sua vita ebbe una svolta; conobbe e sposò una ricca vedova che aveva ereditato una tenuta a Rumford, alla periferia della città di Concord nel New Hampshire e che lo introdusse fra l’alta borghesia. Allo scoppio della rivoluzione americana (1775-1783), la guerra dei coloni americani contro gli occupanti britannici, come grosso proprietario terriero Thompson si schierò con gli inglesi contro “i ribelli”; in questa occasione fece le prime osservazioni sul calore che si sviluppa nei cannoni, dall’attrito dei proiettili nella canna; intuì e spiegò che il calore era una forma dell’energia proprio come quella meccanica dell’attrito fra due corpi.
Il concetto dell’equivalenza fra calore ed energia meccanica furono pubblicati in Inghilterra nel 1781 e riscossero grande attenzione; quando, alla fine della guerra, Thompson si trasferì a Londra (piantando in asso la moglie in America), era già noto ed apprezzato, partecipò all’attività delle società scientifiche e fu nominato ”Sir” dal re Giorgio III. La sua anima inquieta lo spinse a trasferirsi, nel 1785, in Baviera dove divenne aiutante di campo del principe Carlo Teodoro (1724-1799); qui rimase undici anni nei quali contribuì a diffondere la coltivazione della patata, studiò metodi per cuocere razionalmente il cibo consumando poco carbone e inventò una “zuppa” nutritiva a basso costo, utile per l’alimentazione delle classi povere, dei soldati e dei carcerati, una ricetta che fu utilizzata per molti decenni e che è ricordata con apprezzamento da Carlo Marx nel 22° capitolo del I libro del “Capitale”.
Il principe gli procurò il titolo di conte del Sacro Romano Impero e Thompson scelse il nome di Rumford, la cittadina americana da cui erano cominciate le sue fortune. Dal 1799 Thompson, ormai Conte Rumford, visse fra Francia e Inghilterra; erano anni tempestosi; dopo la morte della moglie, quella abbandonata in America, nel 1804 Thompson sposò la vedova del grande chimico francese Antoine Lavoisier (1743-1794), borghese rivoluzionario a cui la rivoluzione francese non risparmiò il taglio della testa. Thompson continuò a vivere fra la Francia e l’Inghilterra; partecipò alla fondazione di istituzioni scientifiche, fu eletto in varie accademie internazionali e fu anche nominato professore nell’Università di Harvard. I suoi scritti occupano cinque grossi volumi.
Dal punto di vista dell’economia, dell’energia e dell’ambiente le osservazioni di Thompson anticiparono di oltre mezzo secolo gli esperimenti che consentirono a James Joule (1818-1889) di misurare esattamente, ma solo nel 1850, che una caloria equivale e 4,18 unità di lavoro meccanico, l’unità che oggi chiamiamo “joule”. Ma vanno ricordate le invenzioni che consentirono la modificazione dei camini delle stufe; se si restringe il diametro del camino dal basso verso l’alto migliora il tiraggio e si disperdono nell’aria esterna i fumi nocivi e puzzolenti che prima spesso restavano all’interno delle case. Con lo stesso criterio Thompson perfezionò i forni industriali; il suo forno per la produzione della calce dalla cottura del calcare teneva separato il carbone dal calcare e in questo modo si otteneva della calce di migliore qualità, più pura, consumando anche meno energia, proprio secondo i criteri “ecologici” a cui ci si dedica oggi.
Dal punto di vista dell’economia energetica Thompson studiò a lungo la trasmissione del calore e riconobbe che l’aria stazionaria è un buon isolante termico, ma pensò che tutti i gas e anche i liquidi impedissero le perdite di calore, e non è così; ma stiamo parlando di esperimenti di oltre due secoli fa. Sempre per consumare meno energia Thompson perfezionò le cucine domestiche, attento insieme agli aspetti economici, ma anche alle condizioni che rendevano migliore la vita delle famiglie e dei lavoratori.
I suoi studi permisero di migliorare le candele di cera e le lampade ad olio; per valutare l’intensità dell’illuminazione propose come unità di misura la “candela”, un nome usato ancora oggi (una lampada fluorescente da 40 watt produce una illuminazione di circa 200 “candele”) e si occupò anche della misura dei colori. Insomma, il benessere della nostra vita quotidiana deve molto al conte Rumford, che da duecento anni riposa nel cimiterino di Auteuil a Parigi. Almeno un grazie.
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, n.3, 2014
La chimica del riciclo
Nel film “Il laureato”, di Mike Nichols, del 1967, considerato uno dei più importanti film della storia, quando il giovane Benjamin Braddock (un grande Dustin Hoffman) torna a casa dopo la laurea, tutti si preoccupano del suo avvenire e di come farlo sposare con la figlia del socio del padre. Il solerte amico di famiglia, il signor McGuire, lo prende da parte e gli dice: “Benjamin,: ti dirò una sola parola: plastica”. Aveva ragione il signor McGuire; nella plastica, sembravano riposte le fortune del mondo; negli anni sessanta la produzione mondiale di materie plastiche era di circa 15 milioni di tonnellate all’anno, oggi si aggira intorno a 300 milioni di tonnellate all’anno, un quarto di queste fabbricate nel solito gigante industriale cinese.
La plastica è dovunque, dai sacchetti per la spesa alle automobili, dal rivestimento dei fili elettrici alle tubazioni per l’acqua e le fogne, dagli imballaggi che consentono di conservare al freddo gli alimenti, ai giocattoli, eccetera. “Plastica”, però, è un nome che non dice niente, perché esistono numerosissimi tipi di materie plastiche, macromolecole sintetiche costituite da migliaia a milioni di atomi uniti fra loro. Di alcune conosciamo l’abbreviazione perché la troviamo stampigliata sui relativi manufatti: PE, polietilene a bassa o alta densità; PP, polipropilene; PET, tereftalato di polietilene; PV, polivinile; PS, polistirolo. Gli oggetti che usiamo sono miscele complesse di alcune di queste macromolecole con plastificanti, coloranti, additivi di vario genere, capaci di adattare ciascuna miscela ai vari usi.
Benché sia così buona e utile, esiste una diffusa contestazione e per alcuni ambientalisti plastica è parolaccia. Ciò deriva dal fatto che i manufatti di materia plastica sono quasi indistruttibili, il che è desiderabile in molte applicazioni nelle quali si desidera che tubi, fili elettrici, parti di macchinari siano duraturi, resistenti agli acidi, inattaccabili dall’acqua e dai batteri. Invece per molte altre applicazioni, soprattutto negli imballaggi destinati ad una breve o brevissima vita prima di diventare rifiuti, si tratta di un grosso inconveniente dal punto di vista del loro smaltimento. Si dice normalmente che, per evitare discariche e inceneritori, occorre raccogliere i rifiuti separatamente, per qualità merceologica, in modo da poterli sottoporre a riciclo, a ricostruzione delle merci originali, e questo viene anche ripetuto per i rifiuti di materie plastiche.
Il successo della raccolta differenziata è affidato alla buona volontà dei cittadini ed è fortunatamente crescente anche in Italia, ma la trasformazione degli oggetti usati di plastica in nuovi oggetti presenta difficoltà tecnico-scientifiche. “Se”, lo scrivo fra virgolette, fosse possibile ottenere tutti insieme i rifiuti, per esempio di PET (per lo più le bottiglie di acqua), o di PE, in via di principio, dopo una pulizia grossolana, sarebbe possibile farli fondere e trasformarli di nuovo in oggetti commerciali dello stesso materiale. Purtroppo dei circa 2 milioni di tonnellate di oggetti di plastica a vita breve (per lo più imballaggi) immessi in commercio ogni anno in Italia soltanto circa 600.000 tonnellate sono raccolte in maniera differenziata; circa 300.000 tonnellate sono avviate al riciclo vero e proprio, cioè alla trasformazione in altri prodotti vendibili, e circa 750.000 sono bruciati negli inceneritori o nei forni da cemento, come miscele di materie plastiche diverse, o plasmix. Il resto finisce nelle discariche.
Da questi numeri approssimativi è facile vedere i motivi della contestazione ambientalista contro le materie plastiche: le discariche sono sempre più difficili da trovare; la combustione negli inceneritori provoca inquinamento atmosferico; e poi viene contestata la grande quantità di petrolio, la materia prima, usata per produrre le materie plastiche, e infine la resistenza, la non biodegradabilità, delle plastiche quando finiscono nei campi, nei fiumi, nel mare. Le soluzioni, finora tentate, quella di “inventare” delle materie plastiche “verdi”, biodegradabili, capaci di decomporsi in settimane o mesi, anziché in anni o decenni, o quella di diminuire il peso di alcuni oggetti di plastica come i sacchetti per la spesa, si sono rivelate finora dei palliativi.
Nell’attesa di un materiale che sia lavorabile con le stesse tecniche usate oggi e sia adatto per le stesse applicazioni delle materie plastiche odierne e che ”scompaia” in pochi giorni quando è buttato via, proprietà in evidente contrasto fra loro, restano i processi capaci di trasformare le plastiche miste in qualcosa di vendibile; non saranno più bottiglie o tubi, ma potrebbero essere prodotti più poveri come pavimenti per abitazioni o strade, infissi, panchine o tavole, qualcosa insomma che tolga dalle discariche o dagli inceneritori una parte delle plastiche. Qualche impresa si sta muovendo: non occorrono grandi impianti, la materia prima, i rifiuti di plastiche sono disponibili nel Nord e nel Sud d’Italia e sono oggetto anche in un commercio internazionale, con prezzi fra 100 e 300 euro alla tonnellata.
C’è molto lavoro, anche nel Mezzogiorno, per studiosi, inventori e imprenditori nel campo della chimica e della merceologia del riciclo, nel nome di un ambiente meno sporco e inquinato.
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, n.3, 2014
Conviene salvare i territori perduti
Navigano lentamente in Parlamento varie iniziative legislative che mirano a limitare il “consumo di suolo”, cioè a rallentare o fermare la continua perdita di superfici agricole che ogni anno sono occupate da costruzioni e ricoperte da cemento e asfalto. Per dirla con parole chiare, i proprietari di terre agricole che rendono pochi soldi cercano di venderle ad alto prezzo a chi cerca superfici su cui costruire edifici o strade, con molto maggiori profitti. Ne conseguono non solo la perdita di attività e produzioni agricole, ma soprattutto profonde alterazioni sia del paesaggio, sia della circolazione delle acque e della ricarica delle falde idriche sotterranee. Per forza chi costruisce edifici o strade o parcheggi deve impermeabilizzare il suolo e deve livellare i terreni, distruggendo quelle spontanee vie di flusso delle acque che così, ad ogni pioggia intensa, allagano il territorio, spesso distruggendo le stesse opere costruite nei posti sbagliati.
C’è un altro volto del “consumo di suolo”; l’abbandono di spazi che sono importanti dal punto di vista ambientale e paesaggistico, ma che hanno basso valore per i proprietari. Mentre sulla utilizzazione errata e speculativa dei terreni agricoli esiste un vasto dibattito alimentato dai potenti interessi economici dell’edilizia e delle opere pubbliche e private, si parla meno del danno che l’Italia subisce per l’abbandono delle terre interne, specialmente delle colline e montagne e dei relativi paesini e piccole città che si stanno spopolando. C’è stata, nei decenni passati, una continua migrazione dalle parti interne, per lo più collinari e montuose, alle grandi città dove esistono, o si suppone che esistano, migliori condizioni di vita: scuole, ospedali, occasioni di lavoro.
Ancora più grave è lo spopolamento dei piccoli “borghi”, comunità che vivevano spesso di vita quasi autonoma utilizzando le risorse naturali e agricole, ma anche sociali e culturali, locali, che gli abitanti hanno abbandonato lasciando terre incolte, un vero e proprio spreco di suolo. Questa tendenza, umanamente comprensibile perché le persone, soprattutto giovani, cercano di “vivere meglio”, ha contribuito a quell’espandersi delle città e al “consumo di suolo” delle terre agricole di pianura. Si calcola che il 35 percento del territorio italiano sia occupato dal 15 percento della popolazione; in molte zone la densità della popolazione è bassissima, per lo più di anziani, benché esistano abitazioni inutilizzate e facilmente recuperabili.
Stanno aumentando, inascoltate, le voci di chi propone che i disegni di legge contro il “consumo di suolo” comprendano anche iniziative per ridare vita e speranza ai borghi e alle piccole città. Il problema riguarda anche il Mezzogiorno in cui l’abbandono delle zone interne e dei piccoli paesi, lasciati con scadenti servizi, è accompagnato di pari passo dalla congestione violenta delle città e da dissesti territoriali. Eppure proprio i borghi potrebbero diventare sedi di attività economiche e produttive con molti vantaggi; una parte degli abitanti, degli attuali o dei nuovi, potrebbe trovare <lavoro, utilizzando e migliorando edifici e abitazioni esistenti, dedicandosi ad attività economiche come artigianato o la stessa agricoltura.
Adriano Olivetti (1901-1960), che era un imprenditore illuminato, lo aveva capito; la crescita dell’offerta di lavoro a Ivrea, dove esisteva la grande fabbrica di macchine per scrivere e di apparecchiature di calcolo ed elettroniche, portava lo spopolamento dei piccoli borghi vicini o costringeva i lavoratori ad un faticoso pendolarismo con la città. Ebbe allora l’idea di creare delle piccole attività industriali, specializzate nella produzione di parti degli oggetti richiesti dalla sua fabbrica di Ivrea, proprio nei vicini piccoli paesi del Canavese; l’obiettivo era quello di non far muovere i lavoratori, ma gli oggetti da loro fabbricati nei propri paesi, in stabilimenti in cui era previsto un orario flessibile, per cui gli operai in alcune ore della giornata potevano dedicarsi ai loro campi o alle loro stalle; il reddito veniva così investito nel miglioramento delle abitazioni e delle condizioni di vita locali. Purtroppo la morte prematura di Adriano Olivetti vanificò queste iniziative di vera e propria rinascita delle zone interne.
Oggi le nuove forme di produzione e lavoro in settori di avanguardia, come la microelettronica, che “vende” i suoi prodotti per telefono, potrebbe attrarre occupazione proprio nell’Italia minore, ricca di spazi e edifici spesso inutilizzati, spesso di grande bellezza, con una qualità della vita migliore di quella dei grandi agglomerati urbani. Paesi in cui spesso esistono scuole e licei di alta e antica tradizione, biblioteche con patrimoni sconosciuti e dimenticati, servizi sanitari spesso meno affollati e più “umani” di quelli delle metropoli.
Un decentramento e un recupero dell’Italia minore potrebbe creare ricchezza attraverso il riassetto del territorio; la regolazione del corso dei torrenti e fiumi eviterebbe futuri danni a valle e potrebbe fornire energia idroelettrica in piccoli impianti, potrebbe dar vita a coltivazioni di piante economiche per fibre tessili “ecologiche”, essenze aromatiche, per alcune delle quali esisteva già una tradizione poi abbandonata. La rinascita e valorizzazione del territorio “perduto”, restituito a funzioni economiche ed ambientali, consentirebbe di creare benessere oggi e di evitare costi collettivi futuri.
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, n.3, 2014
Le automobili, “insolent chariots”
Da poco tempo il numero di autoveicoli circolanti nel mondo ha raggiunto il valore di un miliardo, uno ogni sette abitanti della Terra. Tale numero comprende circa 750 milioni di autoveicoli passeggeri e circa 250 milioni di autoveicoli commerciali “leggeri”, definiti come quelli di peso inferiore a 3500 chili. A questi vanno aggiunti circa 400 milioni di camion “pesanti”. A occhio e croce si tratta di una massa di circa 3000 milioni di tonnellate di ferro, alluminio, gomma, plastica, e poi rame, cromo, vetro, vernici, eccetera, che circolano senza sosta nelle strade del mondo, che trasportano, lungo le strade e nelle città, persone, e poi merci, alimenti, benzina, macchinari, carta, legname, metalli, eccetera.
Un ininterrotto flusso di materiali che rappresenta il sangue dell’economia, e che ogni anno “beve” 2500 milioni di tonnellate di benzina e gasolio, che immette nell’atmosfera 9 dei 30 miliardi di tonnellate complessivi di gas serra. In Italia gli autoveicoli passeggeri sono circa 40 milioni, più di uno ogni due abitanti, a cui si aggiungono altri quattro milioni di mezzi di trasporto commerciali. Il traguardo “del miliardo” è stato raggiunto in poco più di un secolo. Fino alla prima metà dell’Ottocento gli unici modi per spostare persone e merci erano le proprie gambe e il cavallo. A cavallo viaggiavano veloci e senza fatica le persone; i cavalli trascinavano le carrozze per i passeggeri che volevano stare più comodi, e i carri con le merci.
Il cavallo, fin dall’alba dell’umanità, è stato così importante come fonte di energia che gli ingegneri, quando hanno voluto dare una misura della potenza delle macchine, non hanno trovato di meglio che confrontare la loro potenza con quella del cavallo e hanno chiamato l’unità di misura “cavallo-vapore”, HP (Horse-Power), corrispondente a circa 0,75 chilowatt. Il cammino degli autoveicoli è stato lento ed è cominciato in forma modesta negli ultimi anni dell’Ottocento. Abbastanza curiosamente, l’avvento del “veicolo che si muove da solo”, l’auto-mobile, appunto, è stato all’inizio osteggiato: era rumoroso, spaventava i cavalli, emetteva fumi e sollevava polveri.
Per arrivare all’attuale miliardo di autoveicoli sono state necessarie innumerevoli innovazioni tecniche; tanto per cominciare è stato necessario asfaltare le strade, perfezionare i processi di raffinazione del petrolio in modo da ottenere dei carburanti adatti ai nuovi motori, modificare la tecnologia della gomma naturale e di quella sintetica per realizzare le coperture delle ruote, fino ai moderni pneumatici. Soprattutto è stato necessario rivoluzionare i processi dell’industria meccanica. Nei primi anni del Novecento le varie parti di ogni autoveicolo venivano messe insieme a mano.
L’automobile sarebbe diventata, proprio cento anni fa, con l’inizio della “prima” sciagurata guerra mondiale, un mezzo di trasporto militare essenziale; finita la guerra, nel 1919, è diventata anche un simbolo di stato sociale, come prima erano state le carrozze a cavalli. A soddisfare la nuova domanda di un mondo desideroso di miglioramento pensò l’americano Henry Ford, il re delle automobili, introducendo nella sua fabbrica la produzione “in serie” di veicoli in grande quantità e a prezzo ragionevole. Gli autoveicoli dovevano essere quanto più simili fra loro, “standardizzati”, e venivano messi insieme in una “catena” di montaggio da operai affiancati, ciascuno dei quali doveva fare lo stesso gesto, mentre i veicoli avanzavano su un nastro trasportatore, per uscire alla fine pronti al viaggio. Una delle prime automobili prodotte in grande serie negli Stati Uniti era il favoloso “modello T” che Ford si vantava di poter offrire di qualsiasi colore purché fosse nero!
La lunga strada avrebbe anche incontrato vari inconvenienti di natura ambientale. Il primo è stato rappresentato dal fatto che i motori a scoppio, con ciclo Otto a benzina o Diesel a gasolio, funzionano quasi esclusivamente bruciando un derivato del petrolio; la loro “perfezione” viene pagata con l’inevitabile produzione, durante la combustione dei carburanti, di gas che sono nocivi per la salute, principalmente ossido di carbonio, poi ossidi di azoto, insieme a polveri e idrocarburi cancerogeni. Molti tentativi di perfezionamento dei carburanti per renderli più adatti ai motori capaci di muovere veicoli veloci e grandi, sono stati accompagnati da crescenti inquinamenti dell’atmosfera, soprattutto dell’aria delle città.
Il piombo tetraetile, uno degli additivi per benzina di maggior “successo”, usato per mezzo secolo, ha avvelenato migliaia di persone con i composti del piombo scaricati dai tubi di scappamento. Il “miglior” agente di attrito dei freni e delle frizioni è stato per decenni a base di amianto; l’usura dell’amianto e della gomma dei pneumatici sono stati fonti di polveri nocive nell’aria. L’aumento della popolazione di autoveicoli si scontra anche con la limitata capacità ricettiva delle strade e delle città, come si vede nelle città europee col traffico congestionato. Senza contare che quando un autoveicolo non serve più, la sua “rottamazione”, cioè lo smantellamento per recuperare una parte dei materiali ancora utili, comporta rilevanti problemi di inquinamento.
Trappole tecnologiche ben note ai paesi industriali ormai sazi, anche troppo, di autoveicoli ma in cui cadranno i paesi emergenti, così assetati delle ”Insolent chariots”, le invadenti carrette, come lo scrittore americano John Keats ha definito le automobili.
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, n.5, 2014
Il Re dello zolfo
Cento anni fa moriva a Parigi Herman Frasch, il chimico americano che ha distrutto l’economia mineraria siciliana dell’Ottocento. Dai tempi antichi, e poi in tutto il Medioevo e nel corso dell’Ottocento la Sicilia, con le sue miniere di zolfo, ha occupato la posizione di monopolista di una delle più importanti materie prime industriali, qualcosa come i paesi petroliferi oggi. Lo zolfo era già noto dall’antichità. I romani facevano estrarre lo zolfo dalle miniere siciliane usando schiavi e prigionieri di guerra, destinati a breve vita per le inumane condizioni di lavoro; i cinesi avevano scoperto che lo zolfo era un ingrediente necessario della polvere da sparo. Più tardi gli alchimisti hanno imparato ad ottenere dallo zolfo un potente liquido corrosivo, il vetriolo, che sarebbe poi stato riconosciuto come acido solforico, proprio quello indispensabile alla successiva industria chimica europea per produrre detersivi e altre merci.
In molte zone della Sicilia lo zolfo si trova nel sottosuolo, frammisto a solfato di calcio, il gesso, sabbie e altre rocce; all’inizio dell’Ottocento, quando è aumentata la richiesta di zolfo da parte di Francia e Inghilterra, i proprietari delle miniere sono stati investiti da un’ondata di ricchezza, usata male; non sono stati fatti investimenti per migliorare il processo di escavazione del minerale e di estrazione dello zolfo, operazioni dannosissime per i minatori e fonti di inquinamento atmosferico. I prezzi variavano capricciosamente destando la protesta degli importatori inglesi che addirittura fecero arrivare una flotta militare per imporre al re delle Due Sicilie di mettere ordine in questa produzione. Anche dopo l’avvento del regno d’Italia la situazione dell’estrazione e del mercato dello zolfo siciliano restò disordinata e turbolenta, una sorta di capitalismo selvaggio e imprevidente.
Intanto dall’altra parte dell’Oceano Herman Frasch, un giovane chimico di origine tedesca, nato nel 1851 e emigrato a 18 anni negli Stati Uniti, aveva deciso di cercare una soluzione che permettesse di recuperare lo zolfo che alcuni cercatori di petrolio avevano trovato nel sottosuolo della Lousiana, lo stato che si affaccia nel sud degli Stati Uniti, sul Golfo del Messico. Si trattava di uno strato di zolfo puro, qualche centinaia di metri sotto sabbie e rocce e acqua; molti avevano tentato senza successo di raggiungerlo e portarlo in superficie. Partendo dalla sua esperienza di estrazione del petrolio, con la quale aveva già fatto una certa fortuna, Frasch applicò la stessa tecnica e nel 1890 brevettò il processo che avrebbe trasformato gli Stati Uniti da paese importatore di zolfo a paese esportatore di questa materia strategica.
Lo zolfo è un metalloide giallo solido che fonde a circa 115 gradi Celsius, una temperatura di poco superiore a quella di ebollizione dell’acqua, cento gradi. Il metodo Frasch consisteva nel far arrivare nel giacimento sotterraneo di zolfo, due tubi concentrici; in quello esterno veniva iniettato vapore a circa 150 gradi che faceva fondere, nel sottosuolo, lo zolfo; la stessa pressione del vapore faceva salire, attraverso il tubo centrale, lo zolfo fuso fino in superficie dove solidificava come zolfo purissimo. Gli industriali siciliani ebbero notizia della scoperta di giacimenti di zolfo negli Stati Uniti ma furono lenti a capire l’enorme potenziale di questo concorrente; e fecero male perché nel 1905 lo zolfo americano che sbarcò in Europa costava la metà di quello siciliano.
Frasch creò una sua società, la Union Sulfur Company, in un paesino della Lousiana che prese il nome di Sulfur, zolfo, una delle poche città del mondo che hanno il nome di un elemento chimico. Il giacimento di Frasch si esaurì dopo alcuni anni ma molti altri furono sfruttati con lo stesso processo. Frasch, ormai ricco, era celebrato come il “re dello zolfo”, uno dei grandi inventori del Novecento. La produzione di zolfo americano col processo Frasch aumentò subito rapidamente e invase i mercati mondiali e l’industria zolfifera siciliana fu colpita a morte; sopravvisse durante il fascismo, grazie alla politica autarchica, ma le miniere chiusero definitivamente negli anni cinquanta del Novecento dopo aver raggiunto una produzione massima di mezzo milione di tonnellate all’anno e aver causato innumerevoli dolori ai lavoratori e gravi inquinamenti. Ma anche la produzione dello zolfo Frasch declinò fino a scomparire, dopo un secolo, per la concorrenza dello zolfo ricavato dalla depurazione del petrolio e del gas naturale, imposta dalle leggi contro l’inquinamento atmosferico.
La storia di Frasch e dello zolfo insegna varie cose: la produzione industriale dipende da materie prime che possono essere tratte soltanto dalla natura; la natura è un “serbatoio” grandissimo di materie utili per le necessità umane, ma le sue riserve non durano a lungo e sono destinate ad esaurirsi. Un processo produttivo è esposto alla concorrenza di altre innovazioni e una politica industriale deve stare bene attenta ai segni di scoperte e innovazioni, all’inizio apparentemente insignificanti, ma che si rivelano poi rivoluzionarie.
Infine la storia personale di Frasch mostra che il successo arride alla mente preparata, a chi osserva attentamente il mondo naturale e industriale circostante e i suoi mutamenti. Auguro a molti giovani chimici di avere la stessa attenzione e successo del loro collega Frasch.
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, n.5, 2014
Ecologia e merceologia: un rapporto necessario
L’ecologia, come spiega bene il nome, si occupa della descrizione (logos, in greco), di quanto avviene nell’ambiente (ecos, in greco), cioè dei rapporti fra gli esseri viventi e l’ambiente in cui vivono e con cui scambiano sostanze chimiche ed energia. Gli esseri viventi traggono dall’aria, dalle acque, dal suolo, le sostanze necessarie alla vita e negli stessi corpi naturali immettono le inevitabili scorie della stessa vita. Questi scambi sono cominciati quando i primi esseri viventi sono comparsi sulla Terra, una trentina di milioni di secoli fa e, con i loro continui mutamenti, hanno modificato l’ambiente inorganico, la composizione chimica dell’atmosfera, la superficie delle terre emerse, la composizione e l’estensione degli oceani.
Dal punto di vista di noi umani, la prima grande svolta si è avuta circa duemila secoli fa quando, fra le varie specie di animali del genere Homo, è comparsa quella di Homo sapiens; una seconda “rivoluzione” si è avuta appena 100 secoli fa, quando le prime comunità umane hanno cominciato a coltivare le piante, ad allevare animali, a estrarre pietre e metalli dalle rocce, a costruire case, edifici, e poi strade e canali e a scambiare merci fra i diversi paesi. Tre secoli fa, poi, gli esseri umani hanno imparato a costruite macchine metalliche e ad estrarre i combustibili nascosti nelle viscere della Terra. È stato così possibile produrre e vendere crescenti quantità di merci e cose utili, ma, nello stesso tempo, si sono diffusi e amplificati i fenomeni che chiamiamo inquinamenti, erosione del suolo, mutamenti climatici.
Le modificazioni ecologiche negative per noi umani sono proporzionali alla quantità di merci prodotte e usate, e dipendono dalla loro qualità. Per attenuare gli effetti negativi ambientali è oggi difficile rallentare la crescita della quantità delle merci usate, dal momento che ogni governante invoca per il proprio paese proprio una “crescita” dei consumi; nei paesi poveri per soddisfare anche elementari necessità di vita quotidiana; nei paesi opulenti per tenere, come dicono, in moto l’economia con l’invenzione di sempre nuove merci offerte con le raffinate tecniche della pubblicità.
Bisogna quindi prestare attenzione almeno alla qualità delle merci; a questo proposito utili informazioni sono fornite da un’altra disciplina, la merceologia, che si occupa proprio dei processi di produzione delle merci e dei caratteri dei prodotti commerciati e venduti. La merceologia si è sviluppata fiorente quando sono nate le scuole superiori universitarie per la preparazione degli operatori economici: quella di Bari, centotrenta anni fa. La merceologia insegna che i prodotti commerciali non sono neutrali e che gli effetti ambientali, nella produzione e nel consumo, dipendono dalle caratteristiche chimiche e fisiche dei vari prodotti. Gli acquirenti, li chiamano “consumatori”, in genere non sanno come sono fatte le merci che comprano, quali risorse naturali sono state usate, quali rifiuti generano durante la produzione e dopo l’uso.
I governanti e i “consumatori” si interrogano sulle merci, dagli alimenti agli innumerevoli prodotti industriali, soltanto quando i fumi li fanno ammalare, l’acqua diventa imbevibile, il suolo si copre di rifiuti. La comparsa di schiume e alghe nel mare dipende dalla qualità e composizione delle polveri e dei liquidi che le famiglie usano per lavare indumenti e stoviglie, i cui ingredienti, trascinati attraverso le acque di lavaggio, finiscono nel mare e ne alterano gli equilibri ecologici. L’inquinamento delle acque dei fiumi è dovuto agli scarichi delle città o degli allevamenti zootecnici e dal tipo di concimi usati in agricoltura. Le persone sono disturbate dai fumi che fuoriescono dai tubi di scappamento degli autoveicoli e che dipendono dalla composizione chimica dei carburanti che loro stesse, come consumatori, acquistano al distributore. Le persone giustamente protestano per i fumi e le polveri che fuoriescono dalle fabbriche, ma non sanno niente di quello che viene trattato per fabbricare quei prodotti di cui loro stesse sono “consumatori”.
Le stesse associazioni di consumatori sono più attente alle tariffe e ai soldi che all’informazione sulla qualità delle merci per le quali i loro associati spendono gran parte del loro salario e che si ammalano per la maniera in cui tali merci sono prodotte e usate. L’attenzione per l’ambiente ha fatto nascere tutta una nuova categoria di merci “verdi”, ma anche in questo caso i consumatori devono fidarsi della pubblicità e della parola degli “scienziati” dei venditori. La composizione di molte merci è stabilita con leggi europee e nazionali, che però spesso sono scritte per arrecare il minimo disturbo alle imprese e ai loro bilanci aziendali piuttosto che per rendere minimi i danni alla salute e alla natura.
Chi amasse veramente l’ecologia e la propria vita dovrebbe chiedere di essere informata delle materie prime impiegate, dei processi produttivi, della qualità e dei controlli effettuati sulle merci che trova nel negozio e sul loro destino dopo l’uso. Fabbricare merci sbagliate non giova neanche alle imprese e all’occupazione. Forse la diffusione di una genuina cultura industriale e merceologica farebbe stare meglio le persone e farebbe crescere posti di lavoro duraturi.
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, n.5, 2014
C’era una volta l’austerità. Attualità del piano a medio termine, proposto da Enrico Berlinguer nel 1977. La parolaccia.
Austerità è parolaccia. È intesa come prevaricazione dei paesi ricchi europei che impone sacrifici ai paesi europei meno ricchi, è intesa come negazione dell’aspirazione delle classi meno abbienti a migliori possibilità consumistiche, è intesa come freno alla crescita economica intesa come aumento della divinità finanziaria, il Prodotto Interno Lordo; è rigettata come tentativo di far pagare più tasse ai ricchi. Eppure c’è stata una breve stagione, dopo la prima crisi petrolifera degli anni settanta del secolo scorso, in cui in Italia c’è stato un vivace dibattito, sotto la bandiera dell’“austerità”, per un cambiamento dell’economia e soprattutto della società verso una lotta allo spreco e maggiore equità, nazionale e internazionale.
Erano già evidenti, in quel tempo, i segni delle malattie dei poveri – fame, lotte interne, epidemie – e delle malattie dei paesi ricchi – inquinamento, congestione urbana, violenza, diffusione della droga – e per tutti e due molti suggerivano una cura consistente in un uso più parsimonioso delle risorse naturali scarse, in un impegno di solidarietà.
Nel 1970, con la salita al potere di Gheddafi in Libia, c’era stato il primo aumento del prezzo del petrolio, un segno, anche se piccolo, della ribellione di alcuni paesi poveri al dominio delle multinazionali. Nel 1972 la Conferenza delle Nazioni Unite su commercio e sviluppo, tenutasi a Santiago del Cile, aveva invitato i governanti del Nord del mondo a pagare prezzi più equi per le risorse del Sud del mondo, per assicurare ai paesi poveri una qualche forma di sviluppo e per ridurre l’inquinamento all’interno dei paesi ricchi. Nello stesso anno la Conferenza di Stoccolma sull’ambiente umano aveva dato delle indicazioni di politica mondiale nei confronti dell’ambiente e il libro del Club di Roma, “I limiti alla crescita”, aveva messo in guardia nei confronti dei problemi di futura scarsità delle risorse naturali mondiali.
Nel 1971 e nel 1972 il governo socialista di Allende nel Cile aveva indicato che i paesi del Sud del mondo potevano esigere prezzi più equi per le proprie materie prime agricole e minerarie e questa ribellione era stata stroncata dalle multinazionali americane con il “suicidio” di Allende e l’imposizione del governo fascista di Pinochet, nel 1973. Poche settimane dopo, la prima grande crisi petrolifera aveva mostrato che i paesi sottosviluppati intendevano ottenere, con le buone o le cattive, prezzi più equi per le proprie materie. Nel maggio 1974 l’assemblea delle Nazioni Unite aveva indicato la necessità di un nuovo ordine economico internazionale e a partire da tale anno, anche sotto la pressione dell’aumento continuo del prezzo delle materie prime, si era avviato, nei paesi industrializzati, un ampio dibattito sulla necessità di un uso diverso delle risorse naturali scarse.
Anche in Italia aveva cominciato a circolare un invito all’“austerità”: il 20 settembre 1974 si tenne un convegno sul tema “Austerità per che cosa?” (Feltrinelli, Milano, 1974) con la partecipazione di Barca, Leon, Sylos Labini e altri. Nel gennaio 1977 Enrico Berlinguer, nel corso di un celebre convegno al Teatro Eliseo di Roma, indicava la necessità di un lavoro politico sulla linea della lotta allo spreco (E. Berlinguer, “Austerità occasione per trasformare l’Italia”, Editori Riuniti, Roma, 1977) e suggeriva la avviava la redazione di un progetto per la società italiana (“Proposta di progetto a medio termine”, Roma, Editori Riuniti, luglio 1977).
La proposta di austerità e il programma di cambiamenti furono, allora, ridicolizzati: come conseguenza, sono peggiorati la situazione dell’economia, il debito pubblico, la condizione del Mezzogiorno e delle classi più deboli. A livello internazionale è aumentato il divario fra paesi ricchi e poveri, ci sono state varie guerre per le materie prime: per il rame e il cobalto nel Katanga, per i fosfati nel Marocco, per il petrolio nel Medio Oriente, eccetera.
Nei quaranta anni successivi i paesi industriali (quelli capitalistici, ma anche quelli neocapitalistici nati dalla dissoluzione dell’impero sovietico) hanno approfittato, spesso alimentandole, delle guerre interne del Sud del mondo: i ruggenti anni ottanta sono stati segnati da un benessere solo apparente; la maggiore quantità di denaro e di merci che sono circolate e circolano oggi, è pagata da un aumento del degrado ambientale e urbano, da inquinamenti della natura e delle coscienze, dal peggioramento delle condizioni di lavoro, da disoccupazione, diffusione della criminalità, violenza, instabilità internazionale.
Lotta allo spreco
Immaginiamo che un gruppo di persone si riunisca intorno ad un tavolo e si proponga di elaborare una serie di buoni consigli da dare ai futuri governanti – supposti onesti e sinceramente interessati al bonum publicum – per una società che cerchi di rendere minime le conseguenze delle malattie sociali. Che cosa potrebbe, tale gruppo, indicare? Sull’esperienza di questi anni mi pare che la prima, forse unica, ricetta consista nel muovere “guerra allo spreco”.
Proviamo a pensare un progetto di lotta allo spreco per la società italiana degli anni venti del XXI secolo, alla luce della situazione odierna e vedremo che alcuni passi della proposta del 1977 (riportati fra virgolette) presentano una straordinaria attualità ancora oggi.
Nel momento di crisi che stiamo attraversando si resta sorpresi dall’assenza, nel dibattito politico ed economico in corso, di un progetto di società e di economia per i prossimi anni. Si capisce bene che occorre modificare i sistemi elettorali e rappresentativi, bisogna ridurre il deficit del bilancio pubblico, occorre una maggiore moralità privata e pubblica, occorre sanare alcune ferite territoriali e ambientali e alcune vistose ingiustizie sociali che colpiscono maggiormente le classi meno abbienti e più deboli: ragazzi, disoccupati, anziani, pensionati, immigrati, malati. Ma il raggiungimento di ciascuno di questi irrinunciabili obiettivi presuppone una serie di azioni e di scelte che coinvolgono altri settori del sistema complessivo: l’agricoltura, l’industria, i trasporti, l’edilizia, l’ecologia.
A dire la verità, la classe dominante in questi primi anni del XXI secolo un suo progetto l’ha e anche chiaro: l’annullamento delle conquiste dello stato sociale, la privatizzazione dei beni collettivi, la difesa dei profitti privati a spese della collettività e dei meno abbienti. Ma questo progetto va in direzione opposta al risanamento dell’economia e alla moralizzazione.
Solo per fare un esempio: per sanare il bilancio pubblico gli attuali governanti presuppongono la vendita di molti beni collettivi, dalle spiagge, ai pascoli e boschi soggetti ad usi civici, a edifici pubblici nei centri urbani. La presunta guarigione di una malattia – il debito pubblico – è accompagnata dall’aggravamento di un’altra malattia: il degrado ambientale, l’erosione del suolo e delle spiagge, la perdita di risorse turistiche, l’aumento della congestione del traffico. Chi acquista dallo stato le spiagge o i boschi o preziose aree urbane può recuperare con profitto i soldi spesi soltanto con azioni che comportano la distruzione di valori ambientali essenziali per l’occupazione, l’aumento dell’inquinamento, il peggioramento della salute, cioè con azioni destinate a provocare costi futuri che faranno aggravare il debito pubblico.
E ancora: per sanare la malattia del debito pubblico si prevede di vendere le industrie e le attività ancora controllate dallo stato, con la conseguenza di aggravare altre malattie: chi acquista una industria può fare profitti soltanto licenziando gli operai ed evitando spese per la depurazione dei fumi o degli effluenti liquidi, cioè con azioni i cui danni e costi ricadono sulla collettività.
È vero che la gestione pubblica dei beni ambientali e delle industrie è stata pessima, sotto forma di corruzione, di cattiva amministrazione, di errori nelle scelte economiche ed ecologiche; una maggiore onestà privata e un miglior governo avrebbero però potuto evitare e sanare molti guasti, mentre i guasti imposti dalle regole della proprietà privata sono intrinseci nelle leggi del mercato capitalistico e quindi inevitabili.
La trappola dell’agricoltura
La lotta allo spreco coinvolge in primo luogo l’agricoltura che è, non a caso, il settore “primario” dell’economia, fonte degli alimenti, ma anche di molti altri materiali, rinnovabili perché riprodotti ogni anno attraverso i grandi cicli naturali, troppo scarsamente utilizzati. Negli ultimi decenni è peggiorata la qualità della nostra produzione agricola, sono aumentate le importazioni, e lo spreco si è manifestato anche con l’abbandono di terre coltivabili che avrebbero potuto rappresentare una frontiera per la difesa del suolo, per insediamenti in alternativa alla congestione delle valli e delle coste.
Il progetto del 1977 spiegava che “un programma di sviluppo del settore agro-industriale dovrà essere strettamente legato ad un rinnovamento della struttura produttiva e sociale dell’agricoltura. Un piano agro-industriale comporta rilevanti investimenti, ma può garantire un sostanziale miglioramento della nostra bilancia commerciale e consistenti benefici occupazionali. La crisi attuale della società italiana trova una drammatica espressione nello sviluppo distorto delle città e del territorio. Tale distorsione potrà essere superata soltanto con una nuova politica capace di affrontare questa realtà nel suo complesso: il dissesto idrogeologico, la decadenza dell’agricoltura, il conseguente spopolamento delle campagne e insieme la congestione e la disfunzione delle città, il carattere anarchico e speculativo delle localizzazioni produttive e residenziali, l’irrazionalità e le carenze dei grandi sistemi infrastrutturali.”.
Le catastrofi di erosione del suolo, frane, alluvioni, che aumentano ogni anno, sono la conseguenza proprio dello squilibrio territoriale che investe negativamente, insieme, le città e le campagne. “Si tratta, in sostanza, di mutare il rapporto fra la città e la campagna, un mutamento indispensabile anche se si vuole attuare un riequilibrio dei rapporti fra Nord e Sud d’Italia. L’esigenza nazionale di ridurre la congestione delle zone metropolitane e di valorizzare il Mezzogiorno può essere perseguita soltanto attraverso un mutamento dei rapporti fra città e campagna. Tale mutamento occorre avviare decisamente a mezzo di politiche appropriate e un elevamento sociale, tecnico e scientifico del lavoro agricolo, accompagnato dalla creazione di infrastrutture, servizi, attività produttive e iniziative culturali decentrate, al fine di creare più progredite condizioni di vita nelle campagne. Né si tratta soltanto di creare condizioni oggettive nuove, ma della necessità di superare indirizzi formativi e modelli culturali che contribuiscono a determinare la fuga dalle campagne e la concentrazione nelle aree urbane”.
La trappola delle città
Nello stesso tempo occorre affrontare una riorganizzazione delle città per renderle abitabili e governabili dagli uomini. “Il recupero urbano deve contrastare, con la diffusione dei servizi sociali, uno sviluppo cieco dei consumi individuali e il permanere di vasti margini di iniziative speculative: non servizi costosi, gestiti burocraticamente, ma servizi semplici e razionali. Recupero urbano equivale anche al recupero del patrimonio abitativo degradato, storico o soltanto invecchiato”.
Se si osservano il degrado proprio delle città in cui domina la criminalità organizzata, la crisi dei servizi sociali gestiti burocraticamente, resi complicati e irrazionali, più adatti alla creazione di situazioni di potere e alla amministrazione della corruzione che al reale servizio dei cittadini, appare chiaro che le parole del progetto di quarant’anni fa indicano ancora oggi una linea politica da seguire se si vuole uscire dalla crisi.
La rinascita urbanistica presuppone – sosteneva ancora il “progetto a medio termine” del 1977 – la valorizzazione, in tutto il paese “dell’ampia rete di piccole e medie città, ricche di tradizioni culturali e civili. Occorre far leva su questo patrimonio storico peculiare per frenare lo sviluppo congestionato delle grandi città e delle aree metropolitane. Attraverso la valorizzazione di città di dimensioni adeguate alle funzioni sociali e produttive che in esse si sviluppano si contribuirà al riequilibrio fra città e campagna; tali città andranno via via dotate di strutture civili e sociali equivalenti a quelle delle grandi concentrazioni urbane in modo da frenare il massiccio afflusso dei giovani verso i grandi centri abitati e il contemporaneo invecchiamento delle popolazioni nelle campagne”.
Le trappole dell’energia
Nel 1977 sembrava che l’aumento del prezzo del petrolio potesse indurre ad una lotta agli sprechi nel settore dell’energia, ad una revisione delle previsioni dei consumi energetici gonfiate, allora, in vista della costruzione di impianti, porti e centrali più adatti a soddisfare la fame di appalti e affari che a soddisfare il bisogno di energia dell’Italia. Nel 1975 il consumo energetico italiano è stato di 144 Mtep (milioni di tonnellate equivalenti di petrolio); sotto la spinta di chi speculava sulle importazioni di petrolio e carbone sono stati dilatati gli sprechi, e i consumi energetici sono arrivati, nel 1990 a 163 Mtep e nel 2000 a 190 Mtep per scendere poi, nel 2015, a circa 170 Mtep.
Nonostante la crescente produzione di elettricità da pannelli fotovoltaici solari e centrali eoliche, resa possibile da favorevoli incentivi pubblici e realizzata con impianti in gran parte di importazione, la produzione da tali due fonti fornisce in Italia nel 2015 soltanto 38 miliardi di chilowattore di elettricità rispetto ad un consumo totale di circa 300 miliardi di chilowattore. Il consumo di combustibili fossili è aumentato e di conseguenza è aumentata la immissione nell’atmosfera di anidride carbonica, il principale gas serra responsabile dei mutamenti climatici, fino al valore di circa 400 miliardi di tonnellate all’anno.
Tutto esattamente contro gli interessi del paese, per i quali occorrerebbe, invece – continuava il “Progetto a medio termine” – “…realizzare un sostanziale risparmio di energia primaria e di energia elettrica, sia nel campo dei consumi sia in quello della produzione, anche attraverso una razionale organizzazione dei prelievi di energia elettrica, l’impiego di attrezzature e tecnologie volte a ridurre il fabbisogno energetico, che sono già disponibili o possono essere acquisite con lo sviluppo della ricerca scientifica e tecnologica”. Un piano energetico coerente con le necessità economiche e sociali del paese – nel 1977 e a maggiore ragione oggi – deve tendere a valorizzare tutte le fonti energetiche nazionali… attraverso l’ammodernamento delle centrali idroelettriche esistenti e la verifica della possibilità di utilizzazione di tutte le risorse idriche, … lo studio concreto delle possibilità di utilizzazione dell’energia solare, quella che solo adesso e faticosamente e in parte inquinata dalla speculazione sta diventando una realtà.
I consumi energetici nel settore dei trasporti rappresentano uno dei segni più vistosi dello spreco. Il parco automobilistico circolante, che nel 1975 era di 15 milioni di automobili, ha superato nel 2000 i 32 milioni di autoveicoli, ha raggiunto nel 2015 i 37 milioni di autoveicoli e continua a crescere con continuo aumento delle importazioni. I consumi di benzina e gasolio per autotrazione, che ammontavano nel 1975 a 16 milioni di t, sono arrivati nel 2015 a 40 milioni di t.
Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: l’inquinamento e la congestione del traffico portano ogni anno un numero crescente di città vicino alla paralisi; l’invasione delle automobili private riduce la superficie delle strade in cui è possibile circolare, rallenta il traffico dei mezzi pubblici e spinge ancora di più verso gli spostamenti con autoveicoli privati in una spirale caotica. La salvezza consiste nel “sottrarre le comunicazioni urbane alla prevalenza dell’automezzo individuale assegnando un ruolo preminente al trasporto collettivo, ripristinando la possibilità della circolazione pedonale, ma anche sviluppando i trasporti delle aree urbane ed extraurbane in dimensioni organizzative integrate.”.
Nei venti anni passati sono state smantellate le linee ferroviarie secondarie, si sono ampliate le autostrade, sono stati frenati i sistemi di trasporto collettivi non solo integrati, ma anche quelli locali, del trasporto ferroviario è stata sviluppata la inutile “alta velocità” e si è lasciata mano libera alla diffusione del trasporto delle merci su strada. Insomma, in coerenza con un piano asservito agli interessi privati, si è fatta una politica energetica e dei trasporti orientata a favorire – anziché limitare – lo spreco.
La trappola delle merci
La disponibilità di posti di lavoro stabili e duraturi dipende dalle scelte produttive nei settori dell’agricoltura, dell’industria e dei servizi, e pertanto dalla quantità e dalla qualità delle merci fabbricate attraverso l’utilizzazione di materie prime naturali, con inevitabile formazione di scorie e rifiuti. Un aumento dell’occupazione e una diminuzione dell’inquinamento presuppongono una analisi dei rapporti fra risorse, produzione, merci e ambiente. Occorre chiedersi che cosa è necessario e opportuno produrre e arrivare ad una pianificazione dei consumi: lo auspicava il “Progetto a medio termine”.
“Per alleggerire il vincolo della bilancia commerciale occorre uno sforzo di qualificazione degli investimenti al fine di garantire la sostituzione di determinate importazioni con produzioni interne capaci di reggere la concorrenza, in un regime aperto di scambi internazionali, con le merci straniere e insieme al fine di adeguare alle nuove realtà e prospettive del mercato mondiale le capacità di esportazione dell’Italia, arricchendo e diversificando la produzione dell’industria italiana per il mercato estero. Lo sviluppo dell’occupazione nell’industria appare perseguibile attraverso uno sviluppo della ricerca, in funzione sia dell’innovazione merceologica (sic !) che di quella ingegneristica e impiantistica, come supporto indispensabile al potenziamento e alla riconversione dei settori manifatturieri. Ciò vale in modo particolare per la chimica secondaria e fine, per l’elettronica e l’elettromeccanica, ma in genere per l’intera struttura industriale del paese.”.
L’origine dell’attuale crisi dell’occupazione si può identificare proprio nell’incapacità, da parte della classe dominante – politica e degli imprenditori – di prevedere i bisogni, dalla mancanza di previsioni lungimiranti, dalla conquista del vantaggio puramente finanziario a breve termine. Eppure la necessità di una programmazione delle merci era ben presente già negli anni sessanta del Novecento, come risposta alla diffusione di sprechi: fabbriche petrolchimiche costruite da spregiudicati imprenditori privati con pubblico denaro, che non hanno mai prodotto un chilo di merce; previsioni da parte di dirigenti di industrie pubbliche, di fabbriche assurde nei luoghi assurdi. Si pensi ai progetti dell’IRI per il centro siderurgico di Gioia Tauro, destinato a fabbricare merci sbagliate nel posto sbagliato; si pensi ai programmi del 1975 che prevedevano la costruzione di sessanta centrali nucleari, alla chiusura, nel 1972, delle miniere di carbone del Sulcis.
Sono state sbeffeggiate le leggi che cercavano di porre una limitazione all’uso delle materie plastiche, dei clorofluorocarburi (responsabili della distruzione dell’ozono stratosferico), dell’amianto responsabile di tumori ai polmoni, le leggi che imponevano processi e merci meno inquinanti, che prevedevano migliori condizioni di lavoro nelle fabbriche e nei cantieri.
Tornano in mente, e appaiono del tutto attuali, le parole di Enrico Berlinguer scritte su Rinascita del 24 agosto 1979, e tante volte ripetute con la bocca, ma rimaste inattuate nell’operare politico ed economico: “Oggi, da movimenti di massa e d’opinione che interessano milioni di persone, è posto in discussione il significato, il senso stesso dello sviluppo, o, come veniva recentemente osservato, il che cosa produrre, il perché produrre”. L’articolo continuava auspicando una “politica economica nuova nella quale i problemi della quantità dello sviluppo e della sua qualità, della sua espansione e delle sue finalità si saldino e si esprimano … anche sulla forma e la qualità dei consumi e quindi sul processo stesso di accumulazione.”
Allora, alla fine degli anni settanta, la svolta fu frenata dalle forze conservatrici che ben capivano – e appare chiaro oggi – che lo spreco era l’unica condizione per costruire ricchezze personali e potere a spese della collettività. Le industrie italiane sono state spostate all’estero alla ricerca di mano d’opera a basso prezzo e di condizioni fiscali più favorevoli, con la creazione di vaste aree di disoccupazione interna; sono cresciute le importazioni di merci e le merci sono state imposte come desiderabili attraverso le raffinate tecniche pubblicitarie, il che richiedeva il controllo dei grandi mezzi di comunicazione e del consenso da parte sia degli industriali, ma ancora più del capitale finanziario. E per la conquista di una crescente quantità di merci – di questi “esseri ostili”, come scriveva Marx oltre 150 anni fa – occorre una crescente quantità di denaro, ottenibile soltanto con “reciproco inganno e reciproche spoliazioni”.
Per arginare questa situazione di degrado, economico e morale insieme, occorre che la svolta politica sia anche una svolta nelle scelte economiche e produttive, nell’organizzazione delle città e nella salvaguardia dell’ambiente. Un progetto per la struttura produttiva del paese non coinvolge soltanto il tipo e la qualità delle merci, ma anche la localizzazione della attività produttive, guardando di nuovo al Mezzogiorno dove l’industrializzazione del secondo dopoguerra, per viltà e ignoranza, si è spesso tradotta in errori, occasioni perdute, fabbriche sbagliate, poste nel luogo sbagliato, pagate con pubblico denaro, con effetti devastanti sul territorio e sul tessuto sociale del Sud – proprio in contrasto con quanto suggeriva la cultura urbanistica e ambientalista che pure esisteva in Italia.
Ripartiamo da qui?
La proposta di progetto a medio termine avrebbe potuto dare luogo ad una discussione nel paese, ma nessuna delle idee è stata attuata, neanche nelle zone in cui le sinistre sono state al governo, nelle azioni e nelle proposte parlamentari. Di conseguenza il degrado ambientale si è aggravato, il divario fra Nord e Sud d’Italia si è allargato con la contaminazione della criminalità che si è arricchita a spese dello stato, della collettività e dell’ambiente.
La tensione fra ricchi e poveri del mondo è cresciuta con la nascita di un nuovo “secondo mondo” costituito da paesi poveri che si sono avviati rapidamente, con una folla di abitanti, la metà di quelli del pianeta, verso una rapida congestionata industrializzazione che ha aggravato i problemi di scarsità e di prezzi delle materie prime: la globalizzazione ha messo in moto, nei paesi ricchi del Nord del mondo, una comune politica imperialista nei confronti dei paesi del Sud del mondo.
Nei paesi “ricchi”, afflitti da una decrescita demografica e da una crescente immigrazione, la congestione delle città si è aggravata, le leggi ecologiche sono più o meno violate, la capacità di lotta per migliori condizioni di lavoro nelle fabbriche, contro le fabbriche inquinanti, contro la speculazione edilizia, si è affievolita in una ecologia-spettacolo che lascia sempre più ampio spazio ai nemici della natura.
Davanti a circa 2000 milioni di abitanti della Terra che sono sazi di beni e di merci, talvolta obesi di sprechi, ci sono sulla Terra circa 3000 milioni di persone che, nei paesi di nuova industrializzazione, stanno correndo a tutta velocità nell’aumento insostenibile della produzione e del consumo di energia, di metalli, di cemento, di automobili, di apparecchiature elettroniche, e poi ci sono altri 2000 milioni di persone povere e metà di queste non dispongono di una quantità sufficiente di cibo, di acqua di buona qualità, sono povere di libertà e dignità, beni che richiedono anch’essi beni materiali, perché non si può essere liberi e non si può vivere una vita dignitosa se mancano abitazioni decenti, letti di ospedale, banchi di scuola. Una mancanza che è giusta fonte di rivendicazioni, di violenza, di pressioni migratorie verso paesi opulenti che non vogliono spartire la loro opulenza. Una mancanza che può essere sanata soltanto con la terribile e improponibile proposta di imporre ai ricchi di consumare di meno per lasciare ai poveri una maggiore frazione di beni materiali che gli consenta di avere una vita minimamente decente.
Questo era il senso del dibattito sull’austerità di trent’anni fa, delle proposte di cambiamento rapidamente dimenticate benché esse siano non solo sensate, ma anzi le uniche che possono costituire la base di un “programma” di lavoro politico. E adesso, come se non bastasse, perfino il Papa Francesco, con la sua enciclica “Laudato si’ ” invita a ripensare i modi di produzione e di consumo, denuncia l’arroganza del capitalismo e dei ricchi e ricorda che “l’uomo” non è padrone dei beni del Creato, che gli sono dati in uso ai fini di pace e giustizia, che sono “beni comuni” (per es. paragrafo 174), come ricorda senza sosta Giovanna Ricoveri, la direttrice di questa rivista.
Se si ricominciasse a “far politica” da questo punto?
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, n.7, 2015
Uragano Katrina e New Orleans
Si scrive Katrina, si legge riscaldamento globale. Gli uragani nel Golfo del Messico e nel Pacifico sono eventi “normali”, ma l’aumento della frequenza e dell’energia di tali fenomeni e la frequenza e il potere devastante delle altre catastrofi “naturali” – piogge intense e improvvise, avanzata dei deserti, erosione delle coste, alluvioni – indicano che il nostro pianeta è davvero esposto a fenomeni “non normali” dovuti ad azioni provocate dagli esseri umani nella loro corsa sfrenata verso l’aumento del consumo di merci e dello sfruttamento delle fragili risorse naturali.
Se ci fossero stati ancora dubbi, gli eventi degli ultimi anni dimostrano che effettivamente lo spostamento del calore da una zona all’altra degli oceani e dell’atmosfera è dovuto a modificazioni del bilancio energetico del pianeta (variazioni fra energia solare in entrata e energia termica irraggiata dal pianeta verso gli spazi esterni), che a loro volta sono dovute a modificazioni della composizione chimica dell’atmosfera, che a loro volta sono provocate dalla rapida crescente immissione nella stessa atmosfera di gas provenienti dalle attività antropiche: consumo di combustibili fossili, processi industriali, modificazione delle pratiche agricole, alterazione degli ecosistemi forestali, aumento della popolazione, urbanizzazione.
I governi e le compagnie di assicurazioni si piangono addosso per i soldi – decine e centinaia di miliardi di euro – che devono essere spesi per risarcimenti e ricostruzioni (i dolori umani non vanno contabilizzati nelle economie correnti), ma nessuno ha il coraggio di affrontare azioni per evitare ancora più grandi costi futuri. Citerò solo i titoli di tali azioni che un governo potrebbe utilmente inserire nei propri programmi.
Uno. Modificazione dell’uso delle fonti di energia con graduale diminuzione dell’uso dei combustibili fossili. Valutazione dei costi energetici, cioè della quantità di energia (calore e elettricità) richiesta per produrre una unità di merce (una tonnellata di cemento o di carne in scatola) o una unità di servizio (un chilometro percorso da una persona; un’ora di funzionamento di un computer, eccetera).
Leggi e finanziamenti dovrebbero essere diretti a incentivare i trasporti, l’edilizia, i processi produttivi industriali ed agricoli, che forniscono merci e servizi con minori costi energetici.
Due. Politica delle coste. I recenti eventi “non normali” mostrano che le zone più colpite e danneggiate sono le coste, ecologicamente più fragili. Le coste sono state disegnate lentamente, nel corso di milioni di anni, dal mare e dal vento, e proteggono le zone retrostanti con dune, paludi, vegetazione. Ma le coste sono anche le zone più pregiate dal punto di vista finanziario e sono state modificate e occupate e invase da fabbriche, città, attività turistiche, porti, strade. Le modificazioni climatiche coinvolgono per primi i movimenti dei mari che si scaricano in maniera violenta sulle coste.
Le coste dovrebbero essere restituite alla proprietà pubblica, con divieti di ulteriori modificazioni e rimozione graduale delle opere esistenti. I francesi avevano edificato la nuova Orleans, d’oltre oceano, sulle parti un po’ più alte del delta del Mississippi, che hanno avuto meno danni; gli speculatori hanno costruito nelle paludi, che costavano meno, la città proletaria che è stata spazzata via dall’alluvione.
Tre. Governo dei fiumi, sia dei grandi fiumi planetari sia dei fiumiciattoli, ancora più fragili, come quelli italiani – Po, Tevere, Arno, Adige, o i torrentelli come Piave, Volturno, Basento, eccetera – (i diminutivi si riferiscono al confronto con fiumi più seri, e altrettanto fragili, come Mississippi, Danubio, Reno, o i grandi fiumi asiatici). Anche qui l’alveo, le golene, gli argini sono stati disegnati nel corso dei millenni dal moto alterno delle acque e gli antichi governanti avevano vietato l’occupazione delle terre vicino ai fiumi. Anche qui le rive dei fiumi si sono rivelate le zone finanziariamente più pregiate dove si sono concentrate città, fabbriche e strade.
Le modificazioni climatiche, provocando rapide alternanze di siccità e piogge intense, spingono le acque dei fiumi a ricuperare quegli spazi che la natura gli aveva riservato e a spazzare via città, ponti, strade e opere umane. Gli argini artificiali, sfondati dal peso dell’acqua crescente, non hanno salvato dall’alluvione i quartieri di New Orleans costruiti sotto il livello del Mississippi.
La salvezza va cercata nel controllo del trasporto, in ciascun fiume, dei detriti dell’erosione delle valli; le modificazioni climatiche provocano piogge intense; le piogge accelerano l’erosione dei suoli non protetti dalla vegetazione e i prodotti dell’erosione fanno diminuire la capacità dei fiumi di ricevere piogge intense.
Quattro. Politica agricola e forestale. Invece di pensare a miserabili finanziamenti per risarcire i produttori di pomodori che costano tre volte di più di quelli importati dalla Cina, si dovrebbe pensare al ruolo della biomassa forestale e agricola, vendibile o no, ai fini della difesa del suolo contro l’erosione e le frane (che comportano costi monetari privati e pubblici) e ai fini dell’eliminazione dell’anidride carbonica dall’atmosfera.
Il contributo dell’Italia – una macchiolina sul mappamondo, rispetto alla superficie dei continenti e degli oceani – può essere piccolo, ma l’effetto negativo della distruzione delle vegetazione e della alterazione della superficie del suolo è in proporzione maggiore.
Qualche giorno fa su queste pagine mi sono permesso, presuntuosamente, di suggerire ai futuri governanti di leggere qualche buon libro di ecologia, di quella seria, non da salotto, per elaborare un programma elettorale capace di mobilitare speranze e voglia di fare, e aspirazione al bonum publicum, che si realizza principalmente con una politica dell’ambiente e dei beni naturali. Non è stato forse Marx a dire che è la natura è la fonte della vera ricchezza?
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’autonomia, n.11, 2015
Canapa, presente e futuro
Mercoledì 20 gennaio 2016 la prestigiosa Accademia dei Georgofili di Firenze ha tenuto a Torino, in collaborazione con la locale Accademia di Agricoltura, una adunanza pubblica sul tema: “Canapa: presente e futuro prossimo”. Quando ho cominciato a insegnare Merceologia una intera lezione era dedicata alla canapa; erano gli anni del dopoguerra e l’Italia aveva una posizione dominante nella produzione e nel commercio di questa fibra tessile vegetale ricavata dal fusto delle piante di Cannabis sativa; allora l’Italia era infatti il secondo produttore di canapa al mondo (dietro soltanto all’Unione Sovietica). La migliore fibra di canapa in assoluto veniva dalla varietà “Carmagnola”, dal nome della città piemontese dove si trova il più importante ecomuseo italiano della cultura e della lavorazione della canapa. Per secoli un importante acquirente della canapa italiana è stata la Marina Inglese che l’usava per cavi (canapi, appunto) e vele e da sempre la canapa italiana è stata riconosciuta una fibra tessile della migliore qualità per indumenti.
La coltivazione è stata poi progressivamente abbandonata e nel 1979 la produzione italiana di canapa era scesa a zero, mentre nel mondo era ancora di circa 200.000 tonnellate all’anno. In questo inizio del XXI secolo la produzione mondiale di canapa è ancora di circa 70.000 tonnellate all’anno, soprattutto in Francia e Cina.
Il declino della canapa è stato dovuto da una parte all’aggressiva invasione delle fibre sintetiche e dall’altra alla cattiva fama dovuta al fatto che nelle inflorescenze femminili sono contenute alcune sostanze stupefacenti, fra cui il tetraidrocannabinolo THC, note come eccitanti dai tempi più antichi. La concentrazione di THC, misurata secondo rigorose norme analitiche stabilite a livello europeo, varia fra 0,2 percento, nelle inflorescenze delle piante da fibra ad alcune unità percento nelle piante di cui è vietata la coltivazione. Finalmente lentamente sta tornando l’interesse per la coltivazione e l’utilizzo della canapa tessile, favorita anche dal fatto che alcuni anni fa le Nazioni Unite hanno lanciato un anno internazionale delle fibre tessili naturali, il cui uso favorisce l’agricoltura in molti paesi emergenti.
Una qualche coltivazione e lavorazione della canapa sta riprendendo anche in Italia, una operazione importante anche dal punto di vista culturale perché si riscopre la storia di tale coltivazione e vengono riscoperte tecnologie e pratiche che in passato avevano raggiunto un elevato grado di successo tecnico-scientifico e che è possibile ritrovare in vari musei della canapa. La rinascita della coltivazione e lavorazione della canapa consente l’utilizzazione di terre marginali con vantaggio per l’economia e per l’ambiente. Il ciclo produttivo della canapa tessile comincia con la fase agricola: la Cannabis sativa è una pianta erbacea annua con fusto sottile ed eretto, alto da 2 a 6 metri, coltivata nei climi temperati. In passato per ricavarne la fibra, dopo la raccolta i fusti privati delle foglie erano stesi sul terreno e poi, riuniti in piccoli fasci, erano sottoposti alla macerazione, una operazione in cui adatti microrganismi decompongono le sostanze collanti che tengono unite le fibre periferiche alla parte interna legnosa della bacchetta, il canapulo. Si tratta di un delicato processo di biotecnologia in cui l’Italia aveva occupato una posizione di rilievo; uno dei microrganismi era stato identificato nei maceri emiliani e denominato Bacillus felsineus. Per il distacco delle fibre dal canapulo (stigliatura), erano state inventate speciali macchine che assicuravano l’integrità delle fibre, tanto più pregiate quanto più erano lunghe e omogenee. Adesso la raccolta, macerazione e stigliatura della canapa sono fatte tutte meccanicamente.
La fibra è soltanto una piccola parte, circa il 10%, delle circa 10 tonnellate per ettaro di biomassa secca che si ottiene in un anno dalla coltivazione della canapa, un rendimento elevato rispetto all’energia solare impiegata per la fotosintesi della biomassa.
Le fibre, ricche di cellulosa, si presentano sotto forma di lunghi filamenti di diametro irregolare; relegata per anni a usi meno nobili, come la produzione di sacchi, spaghi e cordami, la canapa, adesso in Italia in gran parte di importazione, ricomincia a trovare utilizzazione per la produzione di tessuti per lenzuola, tende e indumenti, grazie anche a innovazioni tecniche nei processi di filatura e tessitura; le caratteristiche chimiche e fisiche delle fibre fanno sì che i tessuti di canapa diano una sensazione di freschezza perché assorbono e disperdono il calore e l’umidità del corpo. Attualmente le fibre di canapa vengono impiegate per la produzione di fibre tecniche, per esempio per le imbottiture, per cordami, per carta di qualità, eccetera. Vi sono poi fibre corte che trovano impiego per la produzione di pasta da carta, in edilizia per la produzione di pannelli isolanti termici ed acustici e di manufatti di fibro-cemento, utile alternativa al nocivo amianto.
I canapuli, ricchi di lignina e emicellulose, si prestano come combustibili, per la fabbricazione di cartoni e cellulosa, in edilizia come pannelli. I semi di canapa trovano impiego nell’alimentazione animale e il relativo olio viene usato in cosmesi e per vernici, ma ha anche potenziale importanza per la produzione di “biodiesel”, il carburante per motori diesel ottenuto esterificando, cioè unendo chimicamente, gli acidi grassi dei grassi naturali con alcol etilico.
La resurrezione della canapa avrebbe importanza anche per il Mezzogiorno e sarebbe facilitata da una mobilitazione della ricerca nei vari aspetti agronomici, chimici e merceologici, con vantaggi anche ambientali.
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, n.1, 2016
Quale salvezza per gli umani e l’ambiente?
Voltarsi indietro, e ripercorrere e rileggere quello che è stato detto, scritto e pensato sull’“ecologia” nei trenta anni passati è motivo di sconforto, ma anche di stimolo. Sconforto dal momento che in quegli anni sono state riconosciute e indicate le strade per uscire dalle trappole in cui la tecnologia, dominata dal profitto, ci aveva fatto cadere. Stimolo perché le ricette allora indicate – riconversione dell’economia, dei modi di vita, dei rapporti internazionali – potrebbero essere utilizzati per uscire dalle crisi economica e ambientale provocate dall’imprevidenza e dalla cecità dei governanti che si sono succeduti nei paesi industriali capitalistici, in quelli ex-comunisti, in quelle di nuova industrializzazione. Per questo trovo di grande utilità la pubblicazione di alcuni scritti di Alex Langer e di Giuseppina Ciuffreda da parte delle Edizioni dell’asino e della Fondazione Alex Langer (www.alexanderlanger.org)
Si tratta di un centinaio di pagine raccolte sotto il titolo: “Conversione ecologica e stili di vita. Rio 1992-2012”. Gli articoli sono stati pubblicati su varie riviste dal 1985 al 2012 e parlano di eventi e problemi che sono cari ai lettori di Ecologia Politica, che conoscono gli autori per vari loro contributi che si trovano nell’archivio della rivista.
Gli articoli di Langer e Ciuffreda, raccolti in “Conversione ecologica”, hanno il pregio di conservare la freschezza e la passione civile degli autori in momenti particolari della loro vita e degli eventi mondiali. La conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente che si svolse a Rio de Janeiro nel 1992 avrebbe dovuto aggiornare e perfezionare i progetti che erano stati elaborati venti anni prima nella Conferenza, sempre delle Nazioni Unite, sull’“Ambiente umano” di Stoccolma. Ma già il titolo di “Rio 1992” aveva qualcosa di più freddo: “Ambiente e sviluppo”; era scomparso il riferimento agli esseri umani e l’ambiente era presentato come una cosa importante ma nel contesto dello sviluppo economico, produttivo, consumistico, l’unica cosa importante. Erano scomparsi i riferimenti alla critica della crescita/sviluppo che aveva occupato gli anni settanta come vera ricetta per conservare un ambiente e le sue risorse, adatti alla vita decente degli esseri umani, ricchi e poveri, scomparsi i riferimenti alla critica della tecnologia capitalistica che aveva permeato gli scritti di Barry Commoner e di Ernst Schumacher, l’autore di “Piccolo è bello” a cui Giuseppina Ciuffreda aveva dedicato un commosso ricordo proprio in questa rivista: http://www.ecologiapolitica.org/wordpress/web2/200302/5.%20Memoria/ciuffreda.pdf.
Ancora più forte la deriva disincantata della seconda conferenza delle Nazioni Unite di Rio del 2012, come appare dal titolo: “Lo sviluppo sostenibile”. Scomparsi i riferimenti agli esseri umani e perfino all’ambiente, in piena crisi economica e finanziaria, nella tumultuosa crescita della produzione e dei consumi della Cina e dell’India, il nuovo idolo è la crescita economica, il profitto finanziario, mascherati sotto il nuovo illusorio idolo della “sostenibilità”.
Per questo è importante rileggere gli scritti contenuti in questo libretto, voci attente e provocatorie che cercano di recuperare e salvare i valori critici indispensabili per stili di vita compatibili con i limiti imposti dalle leggi dell’ecologia.
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, n.3, 2016
L’ecologia di fabbrica
In questo 2016 cadono 150 anni dalla “invenzione” della parola “ecologia” da parte del biologo tedesco Ernst Haeckel. In un suo libro di biologia Haeckel definì l’ecologia come studio dei rapporti fra gli esseri viventi e l’ambiente circostante, e poco dopo precisò che si trattava dello studio dell’”economia della natura”.
L’ecologia è rimasta confinata come scienza fra le mura dei laboratori universitari fino al 1970 quando è diventata la bandiera di una protesta contro le violenze che le attività umane facevano nei confronti dell’ambiente vitale circostante, un ambiente naturale, ma anche artificiale come la casa o la città.
Sono state scritte molte storie sui movimenti ecologici, poi ecologisti, poi ambientalisti, ma poca attenzione è stata dedicata al capitolo dei rapporti fra gli operai, i lavoratori in genere, e “la fabbrica”, l’“ecosistema artificiale” in cui passano le giornate e le notti, da cui traggono un salario, ma anche in cui vengono a contatto con sostanze, alcune nocive e pericolose, talvolta mortali, e che produce nocività che si estendono anche all’esterno. Con poche eccezioni, come quelle degli scritti di Giulio Maccacaro, di Giovanni Berlinguer e di pochi altri, l’“ecologia di fabbrica” ha avuto ben poca storia, confinata per lo più nei documenti delle organizzazioni sindacali, negli archivi delle lotte operaie.
Una svolta si è avuta a partire dagli anni settanta del secolo scorso quando alcuni magistrati, li chiamavano “pretori d’assalto”, si sono accorti che certe violenze esercitate dalle industrie e nelle industrie contro l’ambiente costituivano dei reati la cui punizione era prevista da norme generali del codice penale. Ci sarebbero voluto anni e decenni per arrivare a introdurre nelle leggi e nei codici, bene o male, concetti come inquinamento dell’aria, delle acque, diritto alla salute, difesa dei beni comuni. Nel frattempo, anche solo con le norme esistenti, è stato possibile avviare processi “contro” proprietari e dirigenti di fabbriche inquinanti, responsabili dell’alterazione e contaminazioni delle acque, dell’aria, degli ecosistemi e di danni a privati, singoli o collettivi.
Una attenzione per quanto avveniva all’interno dell’“ecosistema fabbrica” è venuta dalle organizzazioni sindacali che hanno faticosamente ottenuto alcune norme di difesa della salute dei lavoratori. In genere le due ecologie, quella all’interno della fabbrica e quella che riguardava le nocività provocate all’esterno della fabbrica, hanno proceduto su piani paralleli, per lo più ignorandosi a vicenda. Talvolta in forma conflittuale quando le lotte popolari contro l’inquinamento industriale sono state furbescamente presentate dai padroni come un rischio per l’occupazione.
Ho prima chiamato la fabbrica un “ecosistema artificiale” perché le attività che si svolgono al suo interno hanno delle grandi analogie con i cicli ecologici naturali. Esse consistono in processi di trasformazione delle materie naturali in merci e, come in tutti gli ecosistemi naturali e artificiali, una parte della materia entrata viene espulsa sotto forma di scorie e rifiuti gassosi, liquidi e solidi, le fonti di nocività che colpiscono e danneggiano prima i lavoratori all’interno della fabbrica, poi i familiari dei lavoratori al di fuori della fabbrica, poi la popolazione in generale, vicina e lontana, poi piante, uccelli e pesci. Talvolta le nocività vengono da sostanze a vita lunga, persistenti, non degradabili, destinate a fare sentire gli effetti dannosi agli esseri viventi, umani e non umani, lontani nello spazio o futuri abitanti del pianeta.
Prendiamo il caso del DDT, il potente ed efficace insetticida che ha sconfitto la malaria in tante parti della Terra ma che resta persistente nell’ambiente, anzi si diffonde attraverso le catene alimentari e contamina vegetali e animali.
Il libro di Rachel Carson (1962) ebbe un effetto e un successo grandissimi spiegando che i pesticidi clorurati persistenti e non biodegradabili avrebbero un giorno potuto sterminare gli uccelli e far diventare silenziosa la primavera. Ma ben pochi hanno denunciato che silenziosi diventavano prima ancora gli operai delle fabbriche in cui il DDT era fabbricato, con grande successo per gli imprenditori, negli Stati Uniti, in Europa e … a Pieve Vergonte (VB).
Al di là di numerose, ma limitate e per lo più locali, proteste contro inquinamenti industriali fin dalla fine dell’Ottocento, ci sarebbe voluto l’incidente alla fabbrica Icmesa di Meda, vicino Milano (1976), per far capire a tutti che dall’ecosistema-fabbrica possono uscire sostanze dannose che ricadono sulla popolazione vicina, come allora su quella del paese di Seveso. L’incidente dell’Icmesa ha anche mostrato che, spesso, i lavoratori fabbricano merci partendo da materie di cui non conoscono la composizione, non conoscono i caratteri delle merci e ancora meno quelli dei residui che, in ogni processo, inevitabilmente si formano e si disperdono nell’ambiente circostante.
Lentamente è aumentata, spesso in occasione di incidenti o di processi, la conoscenza di quello che succede in alcuni degli innumerevoli ecosistemi artificiali delle fabbriche del mondo. Mentre ci sono numerosi studi scientifici sugli effetti di alcune sostanze tossiche sui pinguini e sugli uccelli, ben poco è cresciuta la cultura degli effetti delle sostanze industriali sugli operai che le maneggiano.
Questa premessa spiega l’importanza della diffusione di una “ecologia di fabbrica” e di un libro, come questo che avete fra le mani, che porta un contributo a tale ecologia.
“Medicina democratica” – l’associazione che si dedica a diffondere anche in Italia la consapevolezza che “lavorare fa male alla salute” e che le condizioni di lavoro possono essere migliorate con lotte, in cui spesso i lavoratori sono soli – ha raccolto negli anni moltissimo materiale che meriterebbe di essere divulgato come fa il libro di Barbara Tartaglione e di Lino Balza, centrato su una delle storie di lotte operaie, quella dello stabilimento chimico Solvay di Spinetta Marengo, in provincia di Alessandria, con riferimenti anche a molti altre storie di fabbrica. Spinetta Marengo – vicino alla cittadina resa celebre dal passaggio di Federico II ricordato nella poesia di Carducci e dalla battaglia vinta da Napoleone nel 1800, ricordata dal Monti – si trova nella pianura padana sulle rive del Bormida. Quale migliore localizzazione per una fabbrica chimica all’alba dell’industrializzazione?
Attraverso vari nomi – Società Marengo, poi Montecatini, poi Montedison, poi Solvay, poi Arkema – tale fabbrica ha prodotto un gran numero di sostanze chimiche commerciali, dal biossido di titanio, ai pigmenti di cromo, alle molecole organiche fluorurate, trattando diversissime materie prime e immettendo nell’ambiente innumerevoli (proprio nel senso di un numero che nessuno sa contare) rifiuti. E dove meglio liberarsi di tali rifiuti e dei loro prodotti di decomposizione se non scaricandoli nell’aria o seppellendoli nel sottosuolo o immettendoli nel fiume?
In quella tormentata pianura padana i rifiuti della Solvay sono andati ad aggiungersi a quelli di altre fabbriche contaminando le acque degli acquedotti del Piemonte e delle vicine regioni, e i prodotti agricoli e zootecnici. Fino a quando la protesta operaia e quella delle popolazioni ha indotto qualche magistrato a intervenire per i reati di avvelenamento delle cose e dell’ambiente.
Il libro Ambiente Delitto Perfetto contiene una parte della preziosa documentazione di uno dei processi, appunto quello contro la società Solvay, offrendo una scelta commentata di alcune delle migliaia di pagine di documenti da cui è possibile ricavare la storia industriale dello stabilimento di Spinetta Marengo, i suoi cicli produttivi, le sue merci, i suoi veleni. Migliaia di pagine nelle quali la giustizia cerca i motivi per punire i responsabili degli avvelenamenti delle persone e della natura, in un faticoso scontro con “i padroni” che non sapevano mai niente di quello che assicurava loro i profitti, che minimizzano, attraverso i loro volonterosi avvocati, i danni, che scaricano le responsabilità sui dipendenti, con l’aiuto di consulenti ben aggiornati. Un continuo scontro fra il sapere dei padroni e il sapere-un-pò-di-meno dei lavoratori, come già osservava Don Milani: “L’operaio conosce cento parole, Il padrone ne conosce mille, per questo è lui il padrone”.
Decenni di lotte durante le quali i proprietari delle varie società dello stabilimento chimico di Spinetta Marengo hanno cercato di mettere a tacere la protesta che veniva da qualche lavoratore non disposto ad accettare come salario il “pane sporco”: la frase, pronunciata dal Papa Francesco nel 2013 è ripresa nel libro in riferimento alla violenza nei confronti dei lavoratori. Nel libro Lino Balza racconta anche le sue personali battaglie come lavoratore della Montedison/Solvay che osava “parlare” e spiegare quello che succedeva nella fabbrica, che rompeva l’omertà di chi, inconsapevole avvelenatore e avvelenato, taceva per non perdere il posto di lavoro.
La lettura del libro suggerisce alcune considerazioni. La prima è l’importanza di ricostruire la storia delle lotte operaie. La Fondazione Luigi Micheletti di Brescia ha iniziato una meritoria opera di raccolta, archiviazione e pubblicazione di alcune di queste lotte, operaie e popolari insieme. Cito il libro di Pier Paolo Poggio sull’ACNA di Cengio, “Un’industria ad alto rischio”, Edizioni Abele, il volume di Poggio e Ruzzenenti: “Il caso italiano. Industria, chimica e ambente”, Jacabook, e, dello stesso Ruzzenenti, l’archivio telematico: http://www.industriaeambiente.it/progetto/
La seconda considerazione riguarda l’uso, come fonte di documentazione dell’“ecologia di fabbrica”, degli atti dei processi contro l’inquinamento industriale. Cito solo, sulla base dei suggerimenti del libro di Balza, i processi contro i proprietari:
- · della Eternit di Casale Monferrato (Quaderno di Storia Contemporanea n. 51, 2012);
- · del petrolchimico di Marghera (preziosa documentazione sul processo in: http://ivdi.it/Petrolchimico/home_petrolchimico.htm);
- · della fabbrica di Scarlino (dove fu trasferita la produzione del biossido di titanio di Spinetta Marengo);
- · della già ricordata Icmesa di Meda/Seveso;
- · della Stoppani, fabbrica di velenosi cromati vicino Genova;
- · dell’Acna al confine fra Liguria e Piemonte nell’alto corso del tormentato torrente Bormida;
- · della Thyssen-Krupp di Torino;
- · della Caffaro di Brescia (si veda il libro di Marino Ruzzenenti, “Un secolo di cloro e PCB”, Jacabook);
- · della Michelin di Alessandria;
- · della Solvay di Rosignano M. in provincia di Livorno;
- · della fabbrica di prodotti chimici di Bussi, in provincia di Pescara;
- · della fabbrica di piombo tetraetile SLOI di Trento;
- · dell’ILVA di Taranto;
- · della Fibronit di Bari (processo raccontato nel libro “Pane a amianto” di Giuseppe Armenise).
A questo proposito proprio l’analisi degli atti dei processi mostra quanto ci sia anche da fare nella formulazione e scrittura delle leggi. Era tanto attesa una legge che riconoscesse l’esistenza di uno speciale reato, quello ambientale, fra quelli previsti nel Codice Penale e adesso è arrivata, come Legge 68 del 22 maggio 2015. Salutata da alcuni con entusiastica approvazione, leggendola da chimico mi sembra che essa susciti varie perplessità. Ad esempio il primo comma del nuovo articolo 452 bis del Codice Penale afferma che è punito “chiunque abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili: 1) delle acque o dell’aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo; 2) di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna.”.
A parte l’ambiguità di quell’“abusivamente” viene da chiedersi che cosa intende il legislatore per “ecosistema”? un lago, un fiume, il mare Mediterraneo, un oceano, l’atmosfera, un boschetto, l’Amazzonia? E poi che si trova dove? Nel territorio nazionale, nelle acque territoriali? Se uno scarico avviene nelle acque internazionali non è più un reato?
E ancora, nello stesso comma appare la parola “Inquinamento”; quale relazione col predetto (comma, N.d.R.)? Che cosa potrà rispondere un perito a cui venga chiesto se l’inquinamento di un fiume, provocato da un imputato, è “significativo” o no?
Il successivo articolo 452 quater afferma: “Costituiscono disastro ambientale alternativamente: 1) l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema; 2) l’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali; 3) l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo”. Sempre a mio parere, ciascuna di queste definizioni è esposta a grande discrezionalità. Quando una alterazione dell’ecosistema è “irreversibile”? Quanto deve essere “onerosa” l’eliminazione dell’alterazione provocata dal disastro ambientale? Quanto devono essere “eccezionali” i provvedimenti per eliminare l’alterazione dell’ecosistema? Quanto deve essere estesa la compromissione che offende “la pubblica incolumità”? Quante devono essere le persone offese o esposte a pericolo perché si sia in presenza di disastro ambientale?
Pensiamo alle risposte che potrebbe dare un perito del tribunale – e alle controdeduzioni che potrebbe fare un perito dell’inquinatore – nei casi di disastri ambientali che abbiamo conosciuto: dalla Farmoplant di Avenza; alla sepoltura di rifiuti tossici; al caso dell’amianto (della cava, della fabbricazione di manufatti di amianto cemento, dello smantellamento di manufatti di amianto cemento); della Thyssen Krupp; dell’ACNA di Cengio? e avanti di questo passo.
L’articolo 452 quinquies si riferisce all’abbandono di materiale ad alta radioattività. Secondo le definizioni correnti, ad alta radioattività sono sostanzialmente il plutonio e pochi altri elementi a vita lunga che ben pochi maneggiano; anche qui una definizione sarebbe stata opportuna.
Positivo e atteso è l’articolo 3 della legge 68 che stabilisce di inserire, fra i reati per cui è previsto il raddoppio dei termini di prescrizione indicati nel VI comma dell’art. 157 del Codice Penale, anche quelli ambientali considerati dalla stessa Legge 68. E con questo dovrebbe essere evitato o almeno ridotto lo scandalo della prescrizioni di tanti reati ambientali cominciati e verificati molti anni prima dell’inizio del processo. Infatti in genere i reati ambientali sono scoperti molto tempo dopo che è avvenuto un inquinamento o che sono stati sepolti dei rifiuti o che è iniziata l’esposizione ad un pericolo, e gli effetti negativi si fanno sentire molto tempo dopo che si sono verificati l’inquinamento o il disastro. Si pensi al caso dei tumori da esposizione ad amianto o a sali di cromo esavalente o ad ammine aromatiche.
Una terza osservazione riguarda la necessità di aumentare le conoscenza sui cicli produttivi, sulla natura chimica e fisica delle materie trattate, delle materie prodotte e dei materiali di rifiuto, gassosi, liquidi e solidi. Solo così si può capire l’effetto che ciascuno scarico ha sui corpi riceventi: aria, fiumi, suolo – e sugli esseri umani.
Infine sarebbe utile che nascesse una letteratura “popolare” e anche la produzione di film sull’ecologia di fabbrica. Il libro “Gomorra” e il fortunato omonimo film raccontano le attività criminali di chi smaltisce i rifiuti tossici e nocivi. Ma tali rifiuti sono stati prodotti da “qualcuno” e derivano dalla produzione di merci: quali? prodotte dove? da chi?
Sulla complicità di operai che nascondono, per ordine dei “padroni”, la verità sugli inquinamenti si possono vedere i due film americani, il notissimo “Erin Brockovich”, citato anche nel presente libro, e “A Civil Action”, e come gli occultamenti possono essere svelati con indagini diligenti nell’interesse del popolo inquinato.
Una crescita della cultura industriale, specialmente in relazione a quello che viene prodotto dalle industrie, non solo chimiche, e a come si svolge la produzione sarebbe utile innanzitutto ai lavoratori che acquisterebbero consapevolezza del contenuto dei fusti e sacchi che maneggiano, ma anche agli imprenditori che talvolta davvero non sanno con che cosa hanno a che fare.
Se si potessero diffondere queste informazioni a cominciare dalle scuole e dalla stampa quotidiana ne verrebbe una crescita della cultura industriale e tecnologica in Italia, un miglioramento della qualità dell’informazione giornalistica; un miglioramento delle capacità e delle condizioni del lavoro e una maggiore efficienza dei controlli pubblici; un più facile lavoro per i magistrati e gli amministratori nazionali e locali; un miglioramento anche delle cultura imprenditoriale e minori piagnistei quando qualcuno protesta; e un miglioramento della qualità della protesta basata su migliori conoscenze. Insomma ne verrebbe una crescita, come dicono i politici, del sistema paese. E anche una crescita della democrazia, dal momento che le lotte operaie si sono intrecciate con altre battaglie civili per i diritti delle popolazioni in difesa della salute e dell’ambiente delle loro terre e valli, da quelle contro l’alta velocità in Valle Susa, contro il Terzo Valico fra Liguria e Piemonte, contro le basi militari, contro il Mose a Venezia, contro gli inceneritori: anche qui questioni di ecologia, perché si tratta di opere, non solo inutili o sbagliate, ma che espongono i lavoratori e le popolazioni a pericoli, incidenti, nocività dovute alle profonde alterazioni del territorio. Tutte questioni di ecologia.
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, n.5, 2016
In morte di Montalto di Castro
Alla maggior parte degli Italiani il nome “Montalto di Castro” dice poco; alcuni hanno notato, andando veloci lungo la linea ferroviaria Roma-Genova, questo nome sul muro di una stazione; i più curiosi, guardando fuori dal finestrino, dalla parte del mare, avranno visto in lontananza quattro grossi edifici con un grande, alto camino: una centrale elettrica, senza dubbio. Una centrale che, negli anni ottanta del secolo scorso, è stata al centro di vivaci polemiche ecologiche. A dire la verità le centrali di Montalto di Castro sono state due, una nucleare che non è mai stata neanche completata, e quella a olio combustibile che ha funzionato pochi anni e oggi è chiusa. Dopo la grande crisi del 1973, quando il prezzo del petrolio aumentò di dieci volte in pochi anni, il governo italiano avviò vari piani energetici che prevedevano la costruzione di varie centrali nucleari distribuite in varie parti d’Italia. Cominciò una vivace contestazione antinucleari e rimase in piedi soltanto il progetto di una centrale nucleare da 2000 megawatt, del tipo ad acqua bollente simile a quella che era in funzione a Caorso (Cremona), da localizzare nel Lazio, quasi al confine con la Toscana, in una pianura occupata da campi coltivati, vicino al mare la cui acqua era necessaria per raffreddare le turbine.
Un progetto nato sotto una cattiva stella perché nel 1979 si verificò negli Stati Uniti il primo grave incidente alla centrale nucleare di Three Mile Island, un paesino della Pennsylvania; si verificò la fusione del nocciolo contenente l’uranio, il plutonio e gli elementi radioattivi formatisi nel processo. Furono avviate inchieste sulla sicurezza nucleare e, nonostante le proteste e i dubbi, il governo italiano decise di iniziare ugualmente nel 1982 la costruzione della centrale di Montalto. Sfortunata davvero, perché nel 1986 si verificò l’altro gravissimo incidente nucleare alla centrale ucraina di Chernobyl. Grande spavento, altre commissioni, altre inchieste parlamentari, in Italia un referendum bocciò la scelta nucleare e nel 1989 fu deciso di abbandonare a metà la costruzione della centrale di Montalto. Fra opere già fatte, fra risarcimento di danni per i contratti in corso, eccetera, il tutto è costato ai cittadini italiani l’equivalente di circa tre miliardi di euro attuali.
Come se non bastasse, sulla base di previsioni errate dei consumi di elettricità, nel 1990 nella stessa località è stata iniziata la costruzione di un’altra centrale, questa volta alimentata ad olio combustibile, con una potenza quasi doppia di quella della defunta centrale nucleare. La centrale, dell’ente elettrico statale, è entrata in funzione nel 1992, ma nel frattempo, grazie ai lauti incentivi dello stesso stato, sono stati costruiti moltissimo impianti che producono la stessa elettricità dal Sole, dal vento e anche dai rifiuti. L’Italia è così venuta a disporre di elettricità in quantità molto superiore a quella richiesta per cui i governi hanno deciso di chiudere le proprie centrali termoelettriche più vecchie, ma anche quella recentissima di Montalto. In tale centrale fra il 2004 e il 2006, cioè dopo appena una dozzina di anni di vita, la produzione di elettricità è scesa a 12 miliardi di chilowattore all’anno (la metà di quella possibile) ed è continuata a diminuire fino alla chiusura, nel 2011, dopo appena diciannove anni. La centrale di Montalto era costata circa due miliardi di euro ed ora è un rudere che attende, là nella pianura, una qualche utilizzazione. Ci hanno già messo sopra gli occhi gli speculatori, qualcuno parla di farne un grande inceneritore di rifiuti, altri di utilizzare lo spazio per il famoso deposito delle scorie nucleari, centinaia di migliaia di tonnellate di materiali radioattivi e pericolosi sparsi per l’Italia, uno scottante problema da decenni irrisolto.
Intanto la centrale è la, ferma. Ogni volta che muore una fabbrica, anche se era sbagliata, anche se per anni i suoi fumi hanno contribuito ai mutamenti climatici, dovrebbe essere un lutto nazionale. Erano belle e grandi caldaie e turbine, costate acciaio e lavoro, erano grandi strutture di cemento costruite da centinaia di lavoratori, in cui erano impiegati centinaia di tecnici e operai. Una fabbrica che chiude è occupazione perduta, sono famiglie che perdono un reddito, ma soprattutto porta con se speranze deluse. I proprietari non perdono mai i soldi, sanno a chi fare pagare i loro errori, i manager escono di scena sempre con lauti premi. È il paese che rimane impoverito e ferito e deluso.
Nel caso di Montalto di Castro siamo poi di fronte a dolori e sprechi che potevano essere evitati. Si sapeva che la centrale nucleare era una scelta sbagliata, lo aveva denunciato il movimento antinucleare sulla base dell’esperienza di altri paesi. La costruzione di una così grande centrale termoelettrica era in contraddizione con la scelta governativa di incentivare la produzione di elettricità da fonti rinnovabili. Insomma in Italia è mancata una politica energetica ed industriale e le singole decisioni sono state prese sotto le pressioni di interessi finanziari immediati, senza una corretta analisi e previsione di che cosa occorreva per il paese, di che cosa è opportuno produrre e incoraggiare anche per assicurare una occupazione duratura.
Il lavoro deriva dalla produzione di merci industriali e agricole e da servizi, i quali richiedono anch’essi sempre “cose” materiali. Ogni oggetto può essere prodotto usando materie prime, trasformandole con il lavoro umano e con l’energia; le merci e i servizi non sono tutti uguali, alcuni inquinano l’ambiente, altri fanno male alla salute, altri assicurano il benessere non solo monetario. La storia mostra che spesso i processi inquinanti e nocivi dopo poco devono essere abbandonati lasciandosi alle spalle terre desolate e dolore. Da Montalto di Castro viene un avvertimento per la futura politica economica italiana; che si spendano soldi, ma facendo precedere le spese da attente previsioni di che cosa il paese ha realmente bisogno, come è opportuno soddisfare queste necessità e con quali processi che assicurino duraturi posti di lavoro.
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, n.6, 2016
Oxfam. Agricoltura ecologica, la nuova frontiera
L’organizzazione non governativa Oxfam è nata 64 anni fa ad Oxford come “Comitato per alleviare la fame nel mondo” e oggi è una federazione internazionale di 12 sezioni che operano in 75 paesi; esiste anche una sezione Oxfam Italia. Oxfam, proprio nei giorni scorsi, ha pubblicato un documento (consultabile gratuitamente in Internet) che getta nuova luce sui rapporti fra produzione agricola e alimentare e alterazioni ambientali, soprattutto modificazioni del clima dovute alle immissioni nell’atmosfera dei “gas serra”. I due principali responsabili del lento inarrestabile riscaldamento del nostro pianeta, sono l’anidride carbonica (CO2) e il metano; quando si nominano questi gas il pensiero corre subito ai fumi delle centrali termoelettriche che bruciano combustibili fossili (la sola centrale di Cerano, vicino Brindisi, immette nell’atmosfera circa 15 milioni di tonnellate all’anno di CO2), alle caldaie delle case, ai gas di scappamento degli autoveicoli, agli sfiati nell’atmosfera dei pozzi metaniferi.
In realtà al riscaldamento globale contribuisce per circa un quarto del totale anche la produzione di cibo, quella complessa catena di rapporti che va dai campi coltivati, alle stalle, fino ai negozi e alla nostra tavola.
Apparentemente la produzione alimentare dovrebbe essere “neutrale”, dal punto di vista del bilancio planetario della CO2, perché “porta via” dall’atmosfera la CO2 che utilizza, insieme all’acqua e grazie all’energia solare, per formare i vegetali per fotosintesi; la stessa CO2 ritorna nell’atmosfera in seguito al metabolismo degli animali e degli esseri umani.
In realtà non è affatto così; intanto la natura “fabbrica”, con la fotosintesi, i vegetali senza occuparsi di quello che è utile per i nostri commerci; della biomassa vegetale esistente nei campi soltanto una parte, spesso meno del 40 percento, diventa cibo. Nelle piante di mais, i semi da cui trarre la farina e l’olio sono soltanto circa il 30 percento; delle olive l’olio rappresenta soltanto meno del venti per cento. La biomassa restante, che ammonta ad alcuni miliardi di tonnellate all’anno nel mondo, trova in parte impiego nell’alimentazione del bestiame e in parte viene restituita al terreno dove si decompone liberando CO2, ma anche altri gas serra. Inoltre la lavorazione dei campi comporta una modificazione della struttura del suolo che contribuisce anch’essa al peggioramento del clima.
Ma soprattutto le operazioni agricole richiedono l’impiego di macchinari che usano carburanti che emettono CO2 nell’aria; inoltre le elevate rese dei raccolti sono possibili con l’impiego di crescenti quantità di concimi contenenti azoto, fosforo, potassio, per la cui fabbricazione vengono impiegati combustibili fossili che emettono anche loro CO2 nell’atmosfera. Non solo: i concimi azotati svolgono la loro funzione di nutrizione delle piante attraverso complesse reazioni microbiologiche e chimiche, durante le quali si liberano ossidi di azoto, altri gas che contribuiscono, con la CO2 e il metano, al riscaldamento del pianeta. In una spirale: più rese agricole, più meccanizzazione, più concimi, peggioramento del clima.
Lo studio di Oxfam ha mostrato che i cinque principali raccolti – riso, mais, soia, palma, grano – contribuiscono ad immettere ogni anno nell’atmosfera circa quattro miliardi di tonnellate di gas serra, il 10 percento del totale mondiale. Alcune piante, come il riso, producono metano proprio nei processi di coltivazione.
Ma il cammino dai campi alla tavola è ancora molto lungo. Circa un terzo delle sostanze nutritive dei raccolti agricoli viene impiegato per l’alimentazione del bestiame. La vita degli animali da allevamento restituisce in parte la CO2 all’atmosfera, ma la “fabbricazione” di carne, di latte, di uova è accompagnata anche dalla liberazione di altri gas serra che vanno dal metano dei bovini a quello che si forma nella decomposizione microbiologica degli escrementi animali.
Molti prodotti agricoli vengono trasportati a grandi distanze. L’olio di palma, prima di arrivare nei dolciumi, percorre ottomila chilometri via mare. L’Italia importa mais dall’America, grano dal Canada, latte dalla Germania, zucchero dalla Francia, viaggi che richiedono combustibili e immissioni di altra CO2 nell’atmosfera.
I prodotti agricoli a questo punto entrano in processi industriali nei quali vengono macinati, miscelati, sottoposti a processi di conservazione, inscatolati e infine trasportati dalle industrie ai negozi e da questi a casa nostra e ai trattamenti di cucina, tutte operazioni accompagnate da emissioni di gas serra.
L’agricoltura è, quindi, fonte di alterazioni climatiche, ma è anche prima vittima delle stesse: l’aumento della siccità e le piogge eccessive che allagano i campi distruggono i raccolti; l’agricoltura intensiva impoverisce la fertilità dei suoli.
L’analisi dell’Oxfam mostra che le alterazioni climatiche, derivanti dalla produzione di cibi più raffinati e abbondanti per una minoranza della popolazione mondiale, rendono più scarsi e costosi gli alimenti disponibili nei paesi più poveri. Molti di questi sono costretti a cedere le proprie terre alle grandi società che praticano quelle coltivazioni intensive e distruttive che consentono di fornire a basso prezzo le materie prime per gli sprechi dei ricchi.
Sono denunce fatte anche molte volte e in varie sedi internazionali dal papa Francesco. Si tratta non di pensare ad un improbabile ritorno all’agricoltura contadina, ma di passare dalla agricoltura industrializzata intensiva e inquinante ad una agricoltura “ecologica”, come ha messo in evidenza il bel libro di Pier Paolo Poggio “Le tre agricolture”, apparso di recente. La soluzione del problema alimentare dei poveri è l’unica condizione per estirpare la violenza che ci sta travolgendo.
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, n.7, 2016
Il furore degli immigrati
Nel 1939 negli Stati Uniti appariva, come romanzo ecologico e politico, “Furore”, dello scrittore americano John Steinbeck (premio Nobel 1962), immediatamente tradotto in Italia da Bompiani nel 1940; dal libro fu tratto, nello stesso 1940, un celebre film di John Ford, interpretato, fra l’altro, da un eccezionale Henry Fonda giovane.
Il romanzo è ambientato negli anni trenta del Novecento, nell’Oklahoma, uno degli stati agricoli degli Stati Uniti centrali; nei molti decenni precedenti gli immigrati, sbarcando sulla costa atlantica del Nord America, avevano cercato terre fertili spingendosi verso ovest, nel selvaggio West, dove avevano trovato grandi praterie in delicato equilibrio ecologico. La coltivazione a grano e mais ha trasformato il fragile terreno dei pascoli in un suolo esposto all’erosione del vento e delle piogge e ben presto le pianure si sono trasformate in una terra arida, in una “scodella di polvere”. Centinaia di migliaia di famiglie di contadini a poco a poco hanno visto sfumare il povero reddito e, non potendo pagare i debiti e i mutui alle banche, sono stati sfrattati e sono diventati ancora una volta emigranti.
Una di queste famiglie, quella di Tom Joad, giovani e anziani, decide di caricare le povere masserizie su una traballante automobile per andare a ovest dove dicono che in California, terra di ricchi raccolti e di acque, è possibile trovare occupazione in agricoltura. Dopo un lungo terribile viaggio la California, terra promessa, si rivela però subito ostile; ci sono troppi immigrati, non c’è lavoro per tutti e le paghe sono basse al punto che è in atto uno sciopero; i padroni, attraverso “caporali” organizzati dalla criminalità, sono disposti ad assumere i nuovi arrivati come crumiri, che subito si scontrano con gli altri poveri in sciopero, poveri contro poveri.
Uno spiraglio è offerto da un campo di accoglienza statale della “Resettlement Administration”, l’agenzia creata da F.D.Roosevelt (1882-1945), divenuto presidente degli Stati Uniti nel marzo 1933, e affidata a Rexford Tugwell (1891-1979), un professore di economia, studioso di agricoltura, ma soprattutto una eccezionale figura di difensore dei diritti civili e degli emigrati. Nel campo dell’agenzia gli immigrati con poca spesa trovano casette decenti, docce e acqua corrente, spazi per i bambini; l’agenzia statale ha cura anche di procurare lavoro a paghe dignitose, organizza opere di difesa del suolo e rimboschimento, assegna piccoli appezzamenti di terreno e organizza cooperative. Naturalmente i padroni degli operai in sciopero usano la criminalità locale, con la complicità della polizia, per cercare di smantellare i campi di accoglienza con la scusa che sono fonte di disordini.
Il libro “Furore” finisce con una pagina di commovente solidarietà; proprio quando sembra che stia finendo il lungo calvario, Rosa, la più giovane dei Joad, perde il bambino di cui era incinta e offre il latte del proprio seno ad un vecchio che sta per morire disidratato e che rinasce col latte che era destinato al bambino morto.
“Furore” è una parabola di quanto è sotto i nostri occhi di questi tempi. Alla base delle migrazioni ci sono sempre, direttamente o indirettamente, crisi ambientali. Oggi la siccità e le inondazioni spingono persone e popoli dall’Africa e dall’Asia verso l’Europa, alla ricerca di condizioni migliori di vita per sé e per i propri figli. Anche da noi, come nella California dei Joad, gli abitanti, ricchi egoisti o poveri anch’essi, li respingono o costringono a lavori spesso disumani. Gli immigrati che lavorano nei campi “muoiono di fame perché noi si possa mangiare”, oggi come nel 1938 quando Edith Lowry – portavoce dei lavoratori agricoli immigrati degli Stati Uniti – scrisse il suo celebre libro (They Starve That We May Eat) sugli immigrati che lavorano in fabbriche inquinanti e pericolose, in cantieri edili su impalcature insicure, esposti al caporalato e alla criminalità.
Come nella California dei Joad la nostra società assiste impassibile, anzi con odio, ai viaggi disperati dalle terre d’origine all’Italia, lascia marcire degli immigrati in rifugi in cui neanche i cani abiterebbero – ne abbiamo avuto testimonianze anche in recenti servizi della televisione di stato – e assiste indifferente al loro dolore: dolore per la lontananza dai loro cari, per la difficoltà della lingua. Solo poche strutture di assistenza, spesso volontarie, li aiutano a superare i cavilli burocratici e li aiutano a spedire i magri risparmi alle lontane famiglie. Con la promessa di “sicurezza” per i bianchi padani e con una campagna di odio sobillata da molta parte della stampa, il governo respinge gli immigrati più indifesi, li rimanda alla loro miseria. Eppure non siamo sempre stati così. Dopo la Liberazione, negli anni cinquanta, il “Comitato Amministrativo di Soccorso ai Senzatetto”, l’UNRRA-CASAS, col sostegno del “Movimento di Comunità” di Adriano Olivetti (1901-1960), assicurò una vera abitazione, non un rifugio, ai contadini meridionali immigrati nelle terre della riforma fondiaria. Apparve anche allora che un intervento statale di costruzione di alloggi e di assistenza civile può alleviare il disagio dei poveri togliendoli dalle grinfie della speculazione, della illegalità e della criminalità. San Paolo nella Lettera agli Ebrei (cap.13) ricorda che “alcuni praticando l’ospitalità hanno accolto degli angeli senza saperlo”. Centinaia di migliaia di famiglie italiane hanno trovato nelle badanti straniere un angelo che assiste gli anziani e gli pulisce (scusate il termine) il sedere.
Ma “Furore” è anche una parabola di speranza: che un giorno si possa avere un’Italia governata da persone della statura politica e morale di Roosevelt e di Tugwell, capace di praticare l’accoglienza e assicurare giusti salari e dare decenti abitazioni agli immigrati che contribuiscono alla nostra ricchezza, liberandoli dallo sfruttamento per miseri giacigli ad alto prezzo. Se non lo si vuol fare per amore cristiano, lo si faccia almeno ricordando che la paura di un popolo che non ha casa e non ha meta, genera, come ha raccontato Steinbeck, furore.
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, n.9, 2016
Vergogna
Con mille esplosioni di bombe nucleari nell’atmosfera e altre mille esplosioni di bombe nucleari nel sottosuolo, nella metà del Novecento, Stati Uniti, Unione Sovietica (oggi Russia), Francia, Inghilterra, Russia, Cina, Pakistan e India, si sono dati da fare per assicurare i possibili nemici di possedere le più devastanti armi di distruzione di massa: se un paese avesse aggredito l’altro, sarebbe stato a sua volta distrutto; è la dottrina della “deterrenza”. Al club atomico si è poi aggiunto Israele, forse la Corea del Nord, e altri paesi hanno tentato di costruire le proprie bombe atomiche.
Per indurre i paesi non-nucleari a non dotarsi di armi nucleari e per scoraggiare la circolazione o il furto di uranio e plutonio, nel 1970 è stato proposto e poi firmato e ratificato, da “quasi” tutti i paesi, il Trattato di non proliferazione delle armi nucleari, NPT. Era naturale che molti paesi, in questo turbolento mondo, si chiedessero perché alcuni potessero possedere armi nucleari vietate agli altri, per cui nel trattato fu inserito un “Articolo sei” che impegna tutti i firmatari ad avviare in buona fede azioni per l’eliminazione totale di tali armi, in maniera simile a quanto si era fatto con successo per l’eliminazione di altre armi di distruzione di massa, come quelle chimiche e batteriologiche.
Nel corso degli anni sono diminuite e cessate le esplosioni sperimentali nell’atmosfera o nel sottosuolo, ma solo perché sono stati inventati altri sistemi per controllare il “perfetto funzionamento” delle bombe nucleari esistenti. Delle sessantamila bombe nucleari esistenti nel mondo nel 1985 molte sono state eliminate e oggi ne restano “soltanto” circa 15.000, con una potenza distruttiva equivalente a quella di molte centinaia di migliaia di bombe come quelle che spianarono Hiroshima e Nagasaki. Alcune bombe termonucleari B-61 americane sono localizzate anche in Italia a Ghedi (Brescia) e Aviano (Vicenza).
L’esplosione anche solo di alcune bombe nucleari creerebbe sconvolgimenti climatici, desertificazione, avvelenamento e morte su intere regioni; per questo nel 1996 la Corte internazionale di giustizia dell’Aja ha dichiarato illegale anche solo la minaccia dell’uso delle armi nucleari. Intellettuali, premi Nobel e uomini politici (gli americani Kissinger e altri nel 2007; D’Alema, Fini, La Malfa e altri in Italia nel 2008), ma soprattutto movimenti pacifisti ed ambientalisti hanno chiesto ad alta voce, e finora senza successo, “un mondo senza armi nucleari”.
Nel 2014 la piccola Repubblica delle Isole Marshall, 68.000 abitanti di un gruppo di atolli nel Pacifico, in cui gli americani fecero esplodere centinaia di bombe nucleari cinquant’anni fa, ha “fatto causa” agli Stati Uniti e ad altri paesi nucleari che, pur avendo firmato il NPT, hanno sempre evitato di ottemperare agli obblighi dell’”Articolo sei” di tale trattato e anzi hanno continuato a perfezionare i loro arsenali.
Nel 2014 l’Austria ha redatto il testo di un “Impegno” per la totale eliminazione delle armi nucleari dal pianeta. Il disarmo nucleare totale, oltre ad aumentare la sicurezza internazionale e far diminuire i ben noti pericoli di danni ambientali, ha risvolti economici rilevanti. Intanto ogni anno nei soli Stati Uniti vengono spesi centinaia di miliardi di dollari per l’aggiornamento, il perfezionamento e la manutenzione delle bombe nucleari, soldi che il disarmo totale farebbe risparmiare.
Questo certo disturberebbe il vasto e potente complesso militare-industriale delle imprese che traggono profitti dalla produzione dell’uranio arricchito, del plutonio, dei composti di deuterio, gli ingredienti “esplosivi” delle bombe nucleari; simili attività sono fiorenti in tutti i paesi che possiedono armi nucleari e si capisce perché il disarmo incontra tanti ostacoli. D’altra parte l’eliminazione totale delle bombe nucleari, oltre a garantire maggiore sicurezza internazionale e a scongiurare il pericolo di catastrofi umanitarie e ambientali dovute alla stessa esistenza di tali armi, offrirebbe la possibilità di avviare un gigantesco impegno industriale e di ricerca per le operazioni di smantellamento delle bombe esistenti e di messa in sicurezza di migliaia di tonnellate di “esplosivi”, radioattivi e velenosi per millenni, altamente pericolosi da maneggiare; sarebbe la più grande impresa economica, finanziaria e di occupazione di tutti i tempi.
Molte utili informazioni si trovano nel libro, pubblicato dalle edizioni Ediesse a cura di Mario Agostinelli e altri, intitolato: Esigete! un disarmo nucleare totale. L’11 aprile 1963 Giovanni XXIII nell’enciclica “Pacem in terris” affermava: “Giustizia, saggezza ed umanità domandano che si mettano al bando le armi nucleari e si pervenga finalmente al disarmo integrato da controlli efficaci”. Gli ha fatto eco papa Francesco nell’appassionato messaggio del 7 dicembre 2014 alla conferenza sulle conseguenze umanitarie delle armi nucleari ripetendo: “Un mondo senza armi nucleari è davvero possibile”.
Ebbene un passo verso questo obiettivo sembra sia stato fatto nell’ottobre 2016 quando nella prima commissione dell’assemblea delle Nazioni Unite è stata votata la risoluzione L.41 che chiede che nel 2017 siano avviate trattative per arrivare ad un divieto delle armi nucleari con l’obiettivo della loro totale eliminazione.
La risoluzione è stata approvata con 123 voti a favore, 38 voti contrari e 16 astensioni. L’Italia ha votato contro. È questa, a mio parere, una vergogna.
La risoluzione L.41 sarà oggetto di ulteriore votazione da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite alla fine di autunno 2016. Come elettore di questo Parlamento chiedo che esso dia mandato al suo potere esecutivo di votare a favore dell’inizio di un cammino che porti al divieto totale delle armi nucleari, che è un obbligo giuridico, preso dall’Italia firmando il Trattato di non proliferazione NPT, oltre che un dovere umanitario. Siamo ancora in tempo a eliminare le armi nucleari: chiediamolo ad alta voce.
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, n.11, 2016
La difesa dell’ambiente è l’altra faccia della lotta alla globalizzazione
La politica ha (dovrebbe avere) la funzione di soddisfare i bisogni delle persone: bisogni di cibo, di acqua, di abitazione, bisogno di respirare aria pulita, di salute, di informazione e istruzione, di mobilità, di dignità e libertà, eccetera. Per soddisfare questi bisogni, anche quelli apparentemente immateriali, occorrono cose materiali: frumento e mulini, acquedotti e gabinetti, cemento e vetro per le finestre, libri e banchi di scuola, letti di ospedale, veicoli e strade, eccetera.
Tali cose materiali possono essere ottenute soltanto trasformando, col lavoro, delle materie naturali: i raccolti dei campi diventano pasta alimentare o conserva di pomodoro e queste vengono trasportate nei negozi e poi arrivano alle famiglie; i minerali vengono trasformati in acciaio e questo diventa lattine per alimenti, o tondino per le costruzioni di edifici; gli alberi vengono trasformati in carta e questa in giornali o libri.
In ciascuna di queste trasformazioni delle materie naturali in oggetti utili, capaci di soddisfare, appunto, bisogni umani, i campi perdono una parte delle loro sostanze nutritive minerali, i mezzi di trasporto immettono nell’atmosfera gas nocivi, si formano scorie e rifiuti solidi, liquidi, gassosi che finiscono nel suolo o nei fiumi o nell’aria. Una circolazione natura-merci-natura alla fine della quale i campi risultano meno fertili, le acque e l’aria più inquinate. Il “peggioramento” della qualità dell’ambiente riguarda però molto diversamente le diverse classi sociali e i diversi paesi.
Alcuni godono i vantaggi del possesso di più merci, e sono maggiormente responsabili degli inquinamenti, altri non riescono a soddisfare neanche i loro bisogni essenziali e sono danneggiati dal peggioramento dell’ambiente.
Il caso più emblematico è rappresentato dai mutamenti climatici: i paesi ricchi, con i loro elevati consumi di combustibili fossili, immettono nell’atmosfera grandi quantità di gas serra; i paesi poveri, pur avendo bassi consumi energetici, subiscono gravi danni a causa delle piogge improvvise che allagano i campi o della siccità che asciuga le limitate riserve idriche.
I paesi ricchi possono disporre di grandi quantità di alimenti di buona qualità importandoli dai paesi poveri che li ottengono da monocolture che hanno sostituito la loro agricoltura di sussistenza. I paesi ricchi importano minerali e fonti energetiche per le loro industrie da paesi poveri a cui restano terre desolate e inquinate.
Molti rifiuti solidi e inquinanti dei paesi ricchi vengono smaltiti, con processi dannosi e pericolosi, nei paesi poveri. È la globalizzazione capitalistica: per denaro le cose buone vanno dai paesi poveri a quelli ricchi e le nocività vanno dai paesi ricchi a quelli poveri.
Il degrado dell’ambiente ha dato vita a movimenti di protesta, ma anche la protesta ambientalista può assumere diversi colori. Ad esempio davanti ad una acciaieria inquinante alcuni chiedono di chiuderla; altri riconoscono che l’acciaio è essenziale per tanti altri settori della vita umana, può essere fatto con processi alternativi, meno inquinanti, che consentono di salvare l’occupazione.
Alla contestazione ecologica ci sono due reazioni; il potere economico si sforza di minimizzare la portata umana dei danni ambientali esaltando i vantaggi per l’economia e la gioia che viene assicurata dal possesso di crescenti quantità di merci, del superfluo e del lusso.
D’altra parte talvolta le organizzazioni dei lavoratori, davanti al pericolo che più rigorose norme ambientali possano compromettere il loro posto di lavoro, sono disposti ad accettare i danni ambientali che compromettono la salute loro, dentro la fabbrica, e quella delle loro famiglie, fuori dal cancello della fabbrica.
Per superare gli atteggiamenti populistici ed egoistici di quelli che vogliono i benefici della tecnica purché i disturbi e le nocività danneggino qualcun altro, altrove, una sinistra ha (avrebbe) di fronte una sfida che richiede la collaborazione e la solidarietà dei popoli inquinati e dei lavoratori.
Una rivoluzione che parta dall’analisi dei bisogni umani, di quelli essenziali da soddisfare anche con un costo ambientale, e dei processi e materie e mezzi con cui soddisfarli tenendo conto dei vincoli fisici imposti dal carattere limitato delle risorse della natura e della limitata capacità dei corpi della natura di ricevere le scorie delle attività umane.
Un processo difficile perché il capitale finanziario, dopo aver saziato le domande delle classi e dei paesi più abbienti, per dilatarsi inventa sempre nuovi bisogni da far credere essenziali anche alle classi meno abbienti. Ha inventato macchine che invecchiano rapidamente, che devono essere sostituite con sempre “più perfetti” aggeggi, per la cui conquista le classi povere sono disposte a svendere il proprio lavoro e talvolta anche la propria dignità.
Una situazione che Marx aveva lucidamente descritto già un secolo e mezzo fa nel terzo dei manoscritti del 1844, spiegando che nell’ambito della proprietà privata ogni uomo s’ingegna di procurare all’altro uomo un nuovo bisogno; con la massa degli oggetti cresce la sfera degli esseri ostili, a cui l’uomo è soggiogato.
Ma spiegando anche che il socialismo è l’unico sistema capace di riconoscere quali bisogni sono essenziali per liberare “l’uomo” dalla miseria e dall’ignoranza, e i processi e le materie che sono in grado di soddisfarli.
La difesa dell’ambiente – un altro volto della lotta di classe – non passa quindi da un rifiuto della tecnica, ma dal rifiuto della tecnica asservita al capitale per il quale le merci non servono a soddisfare bisogni umani ma solo a generare denaro per alcuni (pochi) e nocività per altri (tanti).
Alcune nocività ambientali generate in un paese danneggiano chi abita vicino, al di là degli oceani e addirittura chi abiterà il pianeta; si pensi all’eredità che l’avventura nucleare militare e commerciale di cui hanno “goduto” (si fa per dire) alcuni paesi nell’ultimo mezzo secolo, lascia alle generazioni che verranno nei prossimi decenni e secoli costringendoli a custodire sotto stretta sorveglianza i cumuli delle scorie radioattive.
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, n.12, 2016
Misteri e commedie
Si è svolto, nei mesi scorsi un vasto dibattito interno e internazionale sulla eliminazione delle armi nucleari, il più grande pericolo che incombe, insieme ai mutamenti climatici, sul futuro non solo degli italiani, ma di tutti i terrestri.
Ci sono oggi, all’inizio del XXI secolo, circa 15.000 bombe nucleari negli arsenali di nove paesi: Stati Uniti e Russia (che hanno il maggior numero di bombe), e poi Cina, Regno Unito, Francia, Israele, Pakistan, India e Corea del Nord.
Da anni si levano le voci di coloro che chiedono l’eliminazione di tali bombe la cui potenza distruttiva è oltre cento volte superiore a quella di tutti gli esplosivi usati durante la seconda guerra mondiale. Una bomba termonucleare “piccola”, da una dozzina di chiloton, ha la potenza distruttiva equivalente a quella di una dozzina di migliaia di tonnellate di tritolo.
Da anni le speranze di disarmo si scontrano con l’opposizione dei paesi, grandi e piccoli, dotati di bombe nucleari che non vogliono rinunciare al potere di minacciare qualsiasi ipotetico avversario che avesse l’idea di aggredirli, a sua volta, con un attacco nucleare; la chiamano deterrenza.
Eppure il Trattato di non proliferazione delle armi nucleari NPT, firmato da quasi tutti i paesi nel 1975 prescrive che si deve evitare la diffusione di tali armi con l’obiettivo (articolo VI) di arrivare ad un futuro disarmo nucleare totale.
Eppure nel 1998 la Corte internazionale di Giustizia ha riconosciuto l’illegalità delle armi nucleari, armi di distruzione di massa come quelle chimiche e biologiche la cui esistenza è stata pure vietata. Nonostante questo non si riesce a far nessun passo verso trattative per il disarmo nucleare.
Soltanto di recente un gruppo di paesi ha preso l’iniziativa di proporre alle Nazioni Unite una risoluzione (A/C.1/71/L.41) che imponga l’avvio di trattative per il disarmo nucleare. Il 26 ottobre 2016 la I Commissione dell’Assemblea Generale ha votato a larga maggioranza a favore di tale risoluzione; l’Italia, che ospita alcune bombe termonucleari americane ad Aviano e Ghedi, ha votato contro.
Per inciso lo stesso giorno il Parlamento Europeo aveva approvato a larga maggioranza una risoluzione (2016/2936(RSP)) di sostegno all’apertura di trattative di disarmo nucleare.
La proposta di risoluzione A/C.1/71/L.41, è stata esaminata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 23 dicembre 2016 ed è stata approvata con 113 voti a favore, 35 contrari (Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Russia, Israele, eccetera) e 13 astensioni (fra cui la Cina).
In questa votazione il rappresentante dell’Italia ha votato a favore dell’avvio di trattative per il disarmo nucleare.
A molti di noi si è allargato il cuore: finalmente un gesto di pace, magari influenzato dall’invito al disarmo nucleare espresso con energia nel messaggio per la giornata della Pace annunciato da Papa Francesco per il 1 gennaio 2017.
Nei giorni successivi alcuni parlamentari hanno presentato delle interrogazioni al governo esprimendo apprezzamento per il voto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e chiedendo che, per coerenza, venga chiesto agli Stati Uniti di ritirare le bombe nucleari depositate in Italia.
Entusiasmo di breve durata. Il viceministro Mario Giro ha risposto, nella seduta della commissione esteri del 2 febbraio 2017: “Desidero chiarire che l’intenzione di voto dell’Italia durante la sessione plenaria della 71ma Assemblea Generale delle Nazioni Unite sulla Risoluzione «Taking forward multilateral disarmament negotiations», è stata alterata da un errore tecnico-materiale che ha interessato anche altri Paesi. L’erronea indicazione di voto favorevole è stata successivamente rettificata dalla nostra Rappresentanza Permanente presso le Nazioni Unite, che ha confermato il voto negativo espresso in Prima Commissione. Secondo quanto mi segnalano, tale errore sembra essere dipeso dalle circostanze in cui è avvenuta la votazione, a tarda ora della notte del 23 dicembre”.
La risposta continua spiegando perché il governo italiano è contrario all’avvio di colloqui per il disarmo nucleare ed è fautore, invece, di un “approccio progressivo” al disarmo.
Comunque nelle registrazioni di voto, in questa fine di febbraio 2017, il voto dell’Italia del 23 dicembre 2016 risulta ancora “YES”, a favore dell’avvio dei negoziati per il disarmo nucleare e non sembra quindi che il governo italiano abbia fatto correggere l’“errore” del suo funzionario.
Il voto italiano a favore di tali negoziati è stato dovuto ad una distrazione del funzionario che era in aula, quasi a mezzanotte dell’antivigilia di Natale, o ad una obiezione di coscienza del funzionario alle direttive del governo, o al pentimento o ripensamento del governo stesso?
Una commedia per il comportamento del governo, e una vergogna se davvero il governo continua nella decisione di opporsi a trattative che allontanino i pericoli di catastrofi rese possibili dall’esplosione anche solo di una bomba nucleare per errore di un operatore o per un atto terroristico.
Mi risulta che ci siano iniziative per chiedere al governo almeno di partecipare alle riunioni della commissione, istituita dalla risoluzione (ora denominata A/RES/71/258) approvata dalle Nazioni Unite, che dovrebbe avviare le trattative per il disarmo nucleare e che si svolgeranno a New York dal 27 al 31 marzo e dal 15 giugno al 7 luglio 2017.
Bisogna continuare a mobilitarci soprattutto alla luce della politica del nuovo presidente degli Stati Uniti che dichiara di voler potenziare e ammodernare il suo arsenale di bombe nucleari, e alla luce delle crescenti tensioni internazionali.
Bisogna continuare a mobilitarci, ricordando l’avvertimento con cui finisce il libro e il film L’ultima spiaggia (1959), davanti ad un pianeta i cui abitanti sono stati sterminati dalla radioattività liberata da una guerra nucleare cominciata “per caso”: “Fratelli, siete ancora in tempo a rinsavire”. Ma il tempo è poco.
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, n.2, 2017
Quattrocentodieci. È tutta questione di merci
Quattrocentodieci. È stato dato gran rilievo, nei giorni scorsi, al fatto che la concentrazione dell’anidride carbonica CO2 nell’atmosfera ha raggiunto il valore di 410 parti per milione in volume (ppmv). Tale concentrazione, misurata da molti anni in una stazione nell’isola di Mauna Loa, nelle Hawaii, in mezzo al Pacifico, sta aumentando fra 2 e 3 ppmv all’anno. Ciò significa che ogni anno circa 15 o 20 miliardi di tonnellate di CO2, il principale gas responsabile del lento continuo riscaldamento del pianeta Terra, si aggiungono ai circa 3.000 miliardi di tonnellate di CO2 già presenti nei 5.000.000 di miliardi di tonnellate di gas dell’atmosfera.
L’anidride carbonica immessa nell’atmosfera (circa 30-35 miliardi di tonnellate all’anno) proviene principalmente dalla combustione dei combustibili fossili, attualmente circa 14 miliardi di tonnellate all’anno fra petrolio, carbone, gas naturale.
Altre fonti di CO2 sono la produzione del cemento (oltre 4 miliardi di tonnellate all’anno), la combustione di rifiuti, gli incendi delle foreste e alcune attività agricole. Una parte, circa la metà di tutta la CO2 immessa nell’atmosfera è assorbita dalla vegetazione sui continenti e dal mare nel continuo contatto fra l’atmosfera e la superficie degli oceani.
Per secoli la concentrazione nell’atmosfera della CO2 è rimasta relativamente costante a circa 280 ppmv; il progressivo, sempre più veloce aumento di tale concentrazione fino agli attuali 410 ppm e oltre, è cominciato all’inizio del Novecento quando il petrolio e poi il gas naturale si sono affiancati al carbone come fonti di energia per la produzione di crescenti quantità di merci richieste da una crescente popolazione mondiale. I processi naturali di “depurazione” dell’atmosfera non ce l’hanno fatta più e una crescente parte della CO2 è rimasta nell’atmosfera stessa, trattenendo una parte del calore solare.
È nelle merci, nei processi della loro produzione, nell’uso che ne viene fatto e nei processi di eliminazione dei rifiuti, quindi, la vera causa del riscaldamento planetario che sta spaventando i governanti del mondo – e gli abitanti della Terra alle prese con bizzarrie climatiche, periodi di siccità o di piogge improvvise, progressiva lenta ma apprezzabile fusione dei ghiacci permanenti e lento aumento della superficie dei mari.
È abbastanza curioso che molti considerino “merce” una parolaccia; eppure tutte le cose usate per soddisfare i bisogni umani di spostarsi, nutrirsi, comunicare, abitare, tutti gli oggetti commerciati, vestiti e carne in scatola, automobili e scarpe, gasolio e telefoni cellulari, giornali ed elettricità, eccetera, sono merci, fabbricate usando e trasformando le risorse naturali vegetali, animali, minerarie del pianeta.
Le stesse operazioni finanziarie, il prodotto interno lordo, lo spostamento di ogni soldo, si tratti di euro, di dollari o di yuan, sono accompagnati da spostamenti di merci, di materia ed energia.
I 60.000 miliardi circa di euro che rappresentano il prodotto interno lordo mondiale annuo sono associati al movimento, ogni anno, di circa 50 miliardi di tonnellate di merci, prodotti agricoli, minerali, navi, metalli, plastica, mobili, cemento, pane, eccetera, e acqua, 4.000 miliardi di tonnellate, merce anche lei.
E tutta questa materia si ritrova, durante la trasformazione e dopo l’uso, come “merci usate” sotto forma di scorie, rifiuti solidi, liquidi e gassosi che finiscono nel suolo, nelle acque, nell’atmosfera, peggiorandone la qualità “ecologica”. Fra questi quella CO2 di cui si parlava all’inizio, e altre diecine di miliardi di tonnellate di materiali.
In altre parole esiste un rapporto diretto fra le modificazioni dell’ambiente e la produzione e l’uso, l’esistenza stessa, delle merci.
Nel 1970 Barry Commoner ha scritto che le alterazioni annue dell’ambiente planetario dipendono dal numero di abitanti della Terra, moltiplicato per i chili di merce usati in media da ciascuna persona in un anno, moltiplicato per la “qualità” di ciascuna merce, intesa come quantità di energia, di minerali, di altri prodotti, di acqua richiesta e di rifiuti generati per ogni chilo di merce usata.
“Qualità merceologica” che, a ben vedere, rappresenta il vero “valore” di una merce o di un servizio.
Gli ambientalisti hanno inventato degli indicatori degli effetti ambientali chiamati “impronta” ecologica, da valutare attraverso l’analisi del “ciclo vitale”, eccetera: di merci stanno parlando.
Ho avuto la sorte di essere sbeffeggiato per molti decenni di insegnamento universitario perché la mia disciplina era la merceologia; a molti miei colleghi faceva ridere l’esistenza stessa di un campo di studio che si occupava di frumento e carbone, di alluminio, e di olio, di merci, insomma, dimenticando, o forse senza aver mai saputo, che Carlo Marx, nel primo capitolo del primo libro del Capitale, quello intitolato “La merce”, dice che intende svolgere la critica dell’economia politica capitalistica cominciando dal concetto di valore di scambio. E precisa che le merci hanno anche un valore d’uso che però è l’oggetto di studio di una speciale disciplina, la merceologia (einer eigenen Disziplin, der Warenkunde).
È proprio questa ultima forma di valore quella da cui dipende il maggiore o minore danno ambientale, il “costo” ambientale, delle attività umane. Se si vuole rallentare gli effetti nefasti degli inquinamenti e dei mutamenti climatici si può agire sulla diminuzione della massa delle merci usate e sprecate nei paesi ricchi – perché i paesi poveri di più merci avranno bisogno, se non altro per uscire dal buio della miseria e delle malattie – ma soprattutto sulla modificazione delle merci esistenti, su una seconda tecnologia. Un bel lavoro per ingegneri, chimici, biologi per tutto l’intero secolo.
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, nn.4-5, 2017
Chiamata alle armi per una nuova contestazione ecologica
Col suo brutale discorso del 1° giugno di quest’anno il presidente Trump (1) ha dichiarato che gli Stati Uniti non intendono più aderire agli impegni presi dal suo predecessore a Parigi nel dicembre 2015 sulle azioni per attenuare le cause dei cambiamenti climatici perché tali azioni limiterebbero certe attività importanti per l’economia e i lavoratori del suo paese (l’uso del carbone come combustibile), faciliterebbero le importazioni di autoveicoli meno inquinanti con danno per l’industria automobilistica americana e imporrebbero ai consumatori americani maggiori costi per merci alternative e maggiori tasse per risarcimenti finanziari ai paesi danneggiati.
Come è ben noto, i cambiamenti climatici sono dovuti a varie cause, tutte di carattere economico e merceologico, distribuite diversamente fra i vari paesi, come sono distribuiti diversamente i danni e i relativi costi.
La principale causa è costituita dalla modificazione della composizione chimica dell’atmosfera per la crescente immissione di “gas serra”: anidride carbonica proveniente dalla combustione dei combustibili fossili (in ordine decrescente di danno, carbone, prodotti petroliferi, gas naturale), metano proveniente dall’estrazione e trasporto del gas naturale e dalla zootecnia intensiva, e alcuni altri.
In secondo luogo i cambiamenti climatici sono dovuti al taglio delle foreste praticato per “liberare” nuovi spazi da dedicare all’agricoltura e all’estrazione di minerali, soprattutto per ricavarne merci destinate all’esportazione, e alle modificazioni della struttura del suolo a causa delle coltivazioni intensive che assicurano maggiori profitti agli agricoltori e per l’espansione degli spazi urbanizzati.
I soggetti coinvolti sono approssimativamente due: gli inquinatori, soprattutto i paesi industriali tradizionali o di nuova industrializzazione (diciamo i ricchi), e gli inquinati, diciamo i poveri, quelli che sono esposti alla siccità, alla desertificazione, e, d’altra parte, ad alluvioni e allagamenti.
Con varie contraddizioni: sono danneggiati anche i paesi inquinatori (le alluvioni e la siccità colpiscono anche Europa, Stati Uniti e Cina, importanti inquinatori) e d’altra parte anche i paesi poveri, che subiscono maggiormente le conseguenze dei mutamenti climatici, ne sono anch’essi responsabili in parte, soprattutto per la distruzione delle foreste o le attività minerarie.
Gli accordi di Parigi, come è noto, vincolano i paesi inquinatori a limitare le attività responsabili dei mutamenti climatici (usare meno combustibili fossili, soprattutto carbone, ricorrere a energie rinnovabili, produrre merci, soprattutto autoveicoli, che inquinano meno a parità di servizio, per esempio di chilometri percorsi), e a risarcire i paesi poveri che subiscono maggiormente i danni dei mutamenti climatici.
Il più comune strumento è una imposta, pagata dagli inquinatori in proporzione alla quantità di gas serra emessi, destinata ad azioni di rimboschimento, ad aiuti ai popoli alluvionati o resi sterili dalla siccità.
Meccanismi da regolare con accordi commerciali – si tratta di un vero e proprio commercio del diritto di inquinare, una specie di commercio delle indulgenze – abbastanza complicati.
Per farla breve, si tratta di soldi che gli inquinatori devono tirare fuori, con tasse e perdita di posti di lavoro e modificazioni dei consumi – cose sgradevolissime per la società globalizzata basata sulla legge fondamentale del capitalismo: la crescita del prodotto interno lordo, alla quale devono ubbidire i governanti per compiacere gli elettori che pensano ai soldi e agli affari.
Si capisce bene, quindi, perché il presidente Trump, con la sua abituale brutalità, ha detto che lui “deve” pensare agli interessi dei lavoratori, dei cittadini e dei finanzieri americani e non al futuro del pianeta Terra e alla sorte dei paesi desertificati o alluvionati.
A dire la verità, probabilmente – come ha messo in evidenza Giovanna Ricoveri nel suo editoriale – tutti i paesi industriali inquinatori pensano la stessa cosa pur dichiarando a gran voce la fedeltà agli accordi di Parigi.
In un certo senso coloro a cui stesse a cuore davvero il futuro del pianeta dovrebbero essere riconoscenti a Trump per aver ricordato con chiarezza i veri caratteri dei rapporti fra natura, società ed economia.
Ai tempi dei primi movimenti di contestazione “ecologica”, all’inizio degli anni settanta, nel nome dell’ecologia sembrava possibile fermare lo sfruttamento della natura, rallentare i consumi superflui e i relativi sprechi e rifiuti, attenuare le disuguaglianze fra ricchi e poveri. Poi, col passare degli anni, i movimenti ambientalisti si sono appiattiti sui valori e le “leggi” dell’economia globalizzata. Molti sono diventati collaboratori dei governi nelle imprese apparentemente verdi, sostenibili, sono diventati sostenitori delle merci biocompatibili, delle fonti di energia rinnovabili (solare e eolico) in realtà occasioni di nuovi affari e commerci.
Trump ci ha ricordato che i problemi ambientali sono un nuovo volto della lotta di classe fra ricchi/inquinatori e poveri/inquinati e la loro soluzione – e la salvezza del pianeta – sono ottenibili soltanto recuperando la voglia di lottare per superare il capitalismo, per una maggiore giustizia sociale, premessa anche per la liberazione dalla violenza fra le persone, i paesi, le generazioni – oltre che verso la natura.
(1)Video del discorso: https://www.whitehouse.gov/blog/2017/06/01/president-donald-j-trump-announces-us-withdrawal-paris-climate-accord
e trascrizione: https://www.washingtonpost.com/news/the-fix/wp/2017/06/01/transcript-president-trumps-remarks-on-leaving-the-paris-climate-deal-annotated/?hpid=hp_hp-top-table-high_fix-annotation-550pm%3Ahomepage%2Fstory&utm_term=.76481502714f
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, n.6, 2017
Il servizio idrogeologico, la grande opera che non c’è
Alle prime intense piogge di questi giorni, la mente corre ai “novembre” dell’alluvione del Polesine, di Firenze e Venezia e a tutte quelle che ho visto nel corso della mia vita. Dopo la più calda estate degli ultimi cento anni sono cominciate le piogge, improvvise e violentissime.
Diecine di centimetri di acqua caduta in un solo giorno, in zone spesso relativamente ristrette. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti; paesi allagati, case distrutte, fabbriche ferme, campi che hanno perduto i raccolti, prima per la siccità e ora per gli allagamenti. Miliardi di euro di soldi, pubblici per ricostruire strade e per risarcire i danni, privati, ma soprattutto beni materiali spazzati via e dolori, spesso morti.
Le cause sono due, su entrambe si potrebbe intervenire, se si volesse.
Le bizzarrie di siccità e piogge sono dovute ad un ormai innegabile mutamento del clima rispetto ai decenni e secoli precedenti: mari più caldi a livello planetario, fusione dei ghiacciai permanenti, modificazioni irreversibili del grande ciclo dell’acqua planetario.
Se ce ne fosse stato bisogno lo hanno ripetuto, nei giorni scorsi, anche gli scienziati dell’amministrazione dello scettico presidente Trump.
La rivoluzione industriale del carbone dell’Ottocento, ma soprattutto nell’ultimo mezzo secolo l’età del petrolio, con l’aumento del consumo dei combustibili fossili, l’irrinunciabile alimento della società dei consumi – nei paesi industriali, in quelli di recente industrializzazione e in quelli poveri che aspirano ai modelli di vita europei ed americani – hanno provocato un crescente flusso di gas (anidride carbonica, metano e altri) che, immessi nell’atmosfera, ne alterano la composizione chimica.
Questo fenomeno, come è noto, fa lentamente aumentare la quantità di calore solare che resta “intrappolato” nell’atmosfera e che riscalda, di conseguenza, continenti ed oceani.
Da decenni gli scienziati chiedono ai governanti della Terra di rallentare il flusso nell’atmosfera dei gas che alterano il clima, modificando la produzione e il consumo di merci e di servizi, ”limitando” le attività che comportano un crescente consumo di combustibili fossili.
Nei prossimi giorni a Bonn sentiremo i governanti del mondo discutere, per la ventitreesima volta, di un grado e mezzo o di due gradi di riscaldamento, di “ppm” di gas serra, se sono più colpevoli il carbone o il metano o le flatulenze dei bovini, concludere con dichiarazioni di buona volontà, anche se nessun governante dei paesi maggiori inquinatori vuole scontentare i venditori di carbone, di automobili, di petrolio, di gas, di elettricità, eccetera.
Tutto questo per dire che la situazione continuerà per anni come la conosciamo adesso, con tutti i suoi danni d’estate e d’inverno.
Ciò premesso, i danni dei mutamenti climatici sulle attività umane derivano soprattutto dal fatto che l’acqua piovana, per quanto intensa, non trova più le strade per raggiungere il mare da dove si è originata, quelle strade, rigagnoli e poi torrenti e poi fossi e poi fiumi, che la natura nei millenni aveva predisposto per agevolarne il moto lungo le valli e nelle pianure.
In Italia, nel dissennato uso del territorio di tanti decenni sono stati costruiti, autorizzati ed abusivi, edifici, strade, ponti, ferrovie, senza alcuna attenzione al moto delle acque, anzi alcuni interventi rappresentano veri ostacoli al moto delle acque; per alcune “infrastrutture”, come le chiamano, sono stati sbancati i fianchi delle valli e sono così stati accelerati i fenomeni erosivi che lasciano un suolo nudo su cui più facilmente e violentemente scorrono le acque.
Spesso dove è arrivata la presenza umana la copertura vegetale è stata considerata inutile; dove si pensa che siano d’intralcio alle opere “economiche”, alberi e macchia vengono estirpati o bruciati. Quest’estate poi la forza devastante degli incendi ha reso il suolo di centinaia di migliaia di ettari ancora più esposto all’erosione.
Per attenuare i dolori e i costi delle alluvioni ci sono (ci sarebbero) alcune cose da fare: prima di tutto opere di rimboschimento e incentivi per riportare l’agricoltura nelle zone collinari perché la cura del bosco e il paziente e rispettoso lavoro degli agricoltori sono i principali rimedi per regolare il flusso delle acque nel loro cammino dalle valli al mare.
Se il suolo è coperto di vegetazione la forza di caduta delle gocce d’acqua si “scarica” sulle foglie e sui rami, che sono elastici e flessibili, e l’acqua scivola dolcemente verso il suolo e scorre sul terreno con molto minore forza erosiva e distruttiva.
Quest’anno avremmo avuto un lungo periodo senza piogge che avrebbe consentito, ad un governo previdente, di far ispezionare tutte le vie di acqua e di far sgombrare le rocce e la vegetazione e gli ostacoli che le ingombrano e che rendono le valli più esposte alle frane.
Vorrei fare la modesta proposta di istituire un Servizio Idrogeologico Nazionale che tenga sotto continuo controllo lo stato dei corsi dei fiumi, proceda alla pulizia e manutenzione di tutte le strade percorse dall’acqua nel suo moto verso il mare, dei fossi, dei torrenti e dei fiumi maggiori al fine di rimuovere gli ostacoli incontrati dalle acque e di tenere aperte le vie naturali del loro scorrimento, che predisponga la liberazione dei fiumi e canali che sono stati “intubati” e coperti per guadagnare spazio per strade e edifici. Quando un flusso più intenso di acqua incontra queste prigioni artificiali, l’acqua “si arrabbia” e torna violentemente in superficie e porta distruzione e morte.
La istituzione di un Servizio Idrogeologico Nazionale consentirebbe la creazione di diecine di migliaia di posti di lavoro; capisco che è forse difficile trovare dei laureati che accettino di camminare lungo i torrenti e i canali, di controllare e identificare gli ostacoli al moto delle acque, di pulire i tombini nelle città, ma ci sarà pur gente che ha voglia di farlo considerando che questo servizio è il più importante, anzi unico, sistema per evitare disastri futuri.
So bene quanto sia difficile questo progetto ma so anche quanta ricchezza e lavoro potrebbero essere mobilitati e quanti costi monetari e dolori futuri potrebbero essere evitati.
Infine all’ingresso dei vari ministeri dell’ambiente, delle infrastrutture e delle loro agenzie e uffici periferici che parlano di sostenibilità e di resilienza, proporrei di scrivere l’ammonimento di Albert Schweitzer: «L’uomo ha perso la capacità di prevedere e prevenire; finirà per distruggere la Terra».
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, nn.11-12, 2017
L’Ilva non è un salotto
Il caso ILVA riassume in se tutti gli aspetti e le contraddizioni della società industriale moderna basata sulla produzione e sul commercio di cose, di beni materiali. L’acciaio è una di queste merci utili, anzi indispensabili. Se l’acciaio improvvisamente sparisse scomparirebbero le automobili, i frigoriferi, le lavatrici, le case crollerebbero per il venir meno dell’armatura del cemento, non ci sarebbero ponti per attraversare i fiumi, si fermerebbe la stessa agricoltura.
Purtroppo il processo per la produzione dell’acciaio a ciclo integrale, quello di Taranto, è lungo e inquinante ed è dannoso per la salute dei lavoratori dentro la fabbrica, e dei loro familiari che abitano i quartieri vicini.
Tutto comincia con le grandi navi che trasportano, attraverso gli oceani, il carbone e il minerale di ferro; queste materie prime pulverulente sono scaricate, mediante nastri trasportatori, nei rispettivi “parchi” a cielo aperto, esposti al vento. Nelle cokerie il carbone viene trasformato, per riscaldamento ad alta temperatura, in coke, la forma adatta per il trattamento dei minerali di ferro, con formazione di sottoprodotti gassosi, liquidi e solidi, nocivi e in parte cancerogeni; sottoprodotti in parte riutilizzati nella stessa acciaieria, in parte recuperati, in parte dispersi nell’aria dentro e fuori la fabbrica. Il minerale, costituito da ossidi di ferro, viene miscelato con coke e scaldato nell’impianto di agglomerazione in modo da essere meglio trasformato nell’altoforno. L’altoforno, un lungo tubo verticale, viene caricato di agglomerato, di calcare estratto dalle cave vicino lo stabilimento; il coke ad alta temperatura porta via l’ossigeno dal minerale di ferro e si forma un ferro greggio, la ghisa, insieme a scorie e a una corrente di gas ricchi di sostanze nocive, polveri, eccetera, anche queste in parte filtrate, in parte disperse nell’aria. La ghisa viene trasportata mediante speciali carri, allo stato fuso, ai convertitori in cui l’ossigeno la trasforma, insieme a rottame, nell’acciaio vero e proprio; anche qui con formazioni di gas e polveri e scorie. L’acciaio fuso viene poi trasformato in pezzi di varie dimensioni che a loro volta verranno trattati nei laminatori a caldo e nei laminatoi a freddo, fornendo lamiere, fili, tubi.
Questa è un’acciaieria, non è un salotto; fuoco, e fumi e polveri che oscurano il bel cielo di Puglia e sporcano i polmoni e le terrazze delle case. Lavorare nell’acciaieria è faticoso e pericoloso eppure è stato il sogno di varie generazioni pugliesi: all’Italsider si è formata una classe operaia, il salario ha consentito a molte migliaia di persone di mandare i figli all’Università, di comprare l’automobile e la casa. Il maggiore benessere è stato pagato da un crescente inquinamento, dalla comparsa di malattie, alcune mortali.
Da alcuni anni la protesta contro l’inquinamento si è fatta così forte da innescare infinite discussioni sul futuro dello stabilimento e dell’occupazione da cui dipende la vita di diecine di migliaia di persone. Il lavoro serve e viene pagato per produrre merci e servizi e, nel caso di Taranto, per produrre acciaio da vendere a qualcuno – e inquinamento.
Nel 1960, quando è stato pensato il “quarto” centro siderurgico italiano a Taranto, la produzione di acciaio era stata prevista di circa 6 milioni di tonnellate all’anno, la produzione mondiale era di 350 milioni di t/anno e la richiesta era elevata. Oggi la produzione presunta di Taranto, 8 milioni di t/anno, si deve confrontare con una produzione mondiale di acciaio di 1700 milioni di t/anno, il che significa che il “grande” stabilimento di Taranto è quasi irrilevante nel mercato mondiale dell’acciaio.
Questo va tenuto presente quando si cercano dei soldi per tenere in vita la produzione di Taranto. Chi investe soldi, sia lo stato o un privato, deve recuperare questi soldi vendendo acciaio. Dopo tante discussioni sembra che un adeguato investimento sia stato trovato nella società ArcelorMittal che già produce circa 100 milioni di t/anno di acciaio nel mondo.
A mio parere per Taranto ci son tre strade possibili. La prima è spendere soldi a fondo perduto per sistemare un poco le parti più inquinanti – parchi minerali e carbone, altoforni più vecchi, agglomerazione, cokerie – e riprendere la produzione con un po’ meno di inquinamento ma con inevitabile diminuzione del personale richiesta dai compratori anche per alleggerire il costo dei salari sul ricavato dalla vendita dell’acciaio.
La seconda soluzione è un cambiamento radicale del ciclo produttivo e qui si sono sbizzarrite le fantasie. Una proposta è abbandonare l’uso del carbone e usare il gas naturale per la riduzione diretta del minerale e successiva trasformazione del preridotto in acciaio col forno elettrico. Il che significherebbe la totale costosa ristrutturazione dello stabilimento, l’eliminazione dei parchi di minerali e carbone, degli altoforni, della cokeria, e dell’agglomerazione, cioè dei settori oggi più inquinanti, anche se con inquinamenti di altro tipo. Un qualche miglioramento dell’ambiente ma l’interruzione della produzione per anni e perdita di occupazione. Una alternativa nella stessa direzione e con gli stessi effetti potrebbe essere quella di importare minerale preridotto da trasformare in acciaio nei forni elettrici.
La terza alternativa sarebbe, come chiedono alcuni, la chiusura e lo smantellamento e bonifica dello stabilimento, col che migliorerebbe la situazione ambientale, ci sarebbe una qualche occupazione per le operazioni di smantellamento e bonifica, un forte investimento a fondo perduto da parte di qualcuno nel nome della salute e della vita dei cittadini e dei disoccupati. 2018
Quando si parla di occupazione non va dimenticato che esiste anche quella delle attività portuali e di trasporto delle materie prime che sarebbe influenzata da qualsiasi alternativa all’esistente.
La scelta per il futuro dipende da soggetti con interessi contrastanti. La popolazione e gli amministratori locali che vogliono aria pulita ma anche occupazione; gli imprenditori che vogliono produrre acciaio da vendere spendendo il meno possibile; lo stato che vorrebbe cittadini contenti per il miglioramento ambientale, investitori che ci mettano dei soldi e vorrebbe spendere il meno possibile in sussidi a fondo perduto. Purtroppo tutto non si può avere.
Non si tratta di discorsi su cose astratte ma di merci, di movimentazione e trasporto di circa 50 milioni di tonnellate all’anno di materie prime e materiali, di produrre e vendere dieci milioni di tonnellate all’anno di lamiere, di rotaie, di tubi e tondini e fili d’acciaio in un mercato mondiale che sarà sempre più sovraffollato di acciaierie.
Un compito non facile per il futuro governo che renderà un servizio al paese se, messi da parte bizze e sogni, si renderà conto che il mondo va avanti con minerali, acciaio, alluminio, petrolio, benzina, gasolio, elettricità, rame, cemento, eccetera, tutte cose utili, ma purtroppo inquinanti anche se indispensabili per fabbricare case e automobili, produrre frumento e patate, allevare bestiame da carne, ottenere tessuti e scarpe e giornali, eccetera.
Dopo la prima grande crisi petrolifera del 1973 l’Economist pubblicò un articolo intitolato:
“Commodity power”; tutto il potere alle merci. Vadano a leggerselo i futuri ministri.
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, nn.2-3, 2018
Parla una goccia d’acqua. World Water Day 2018
Il 22 marzo è la mia giornata e quest’anno voglio parlare di me: sono la goccia di acqua. Di gocce simili a me ce ne sono in numero sterminato, tutte intorno a voi, nel mare davanti a Barletta o Bari o Brindisi o Gallipoli o Taranto, ma siamo tutte in continuo movimento e ciascuna di noi ha una sua storia. Io sono in questo momento nel mare, ma sta sorgendo il Sole e il suo calore scalda me e tutte le mie compagne. Questo calore mi trasforma dallo stato di goccia liquida allo stato di vapore e mi disperdo perciò nell’aria. C’è una forza che mi spinge verso l’alto, nell’atmosfera, ma ben presto mi sento circondata da aria fredda che mi costringe a tornare, dallo stato di vapore, allo stato di goccia d’acqua, che è poi lo stato più naturale per me, che mi piace di più.
Come goccia sono più pesante dell’aria e scendo rapidamente; molte mie compagne, e qualche volta anch’io, ricadiamo di nuovo nel mare, ma oggi cado sul suolo di una zona interna della Puglia. Benché sia così piccina, arrivo sul terreno con una forza di caduta enorme al punto da disgregare le rocce e da sollevare tutto intorno la polvere; non per vantarmi (e non ci sarebbe da vantarsi) nella mia caduta sul suolo scavo un cratere quasi come una bomba. Il terreno su cui sono caduta è inclinato e io scendo in basso, verso quella che voi chiamate pianura e costa, trascinandomi dietro un po’ della polvere disgregata dal terreno.
Il mio cammino finisce dopo poco in un lago artificiale, di quelli che voi umani costruite per raccogliere l’acqua delle piogge e utilizzarla d’estate. Ma ci resto poco; sento una grande forza che mi trascina; voi umani le chiamate pompe e una di queste mi attira e mi spinge dentro un lungo tubo; per un po’ di tempo non vedo niente, ma poi ritrovo la luce uscendo da un rubinetto e mi ritrovo fra le mani di un bambino che si sta lavando. La cosa mi piace fino a un certo punto perché il bambino si toglie lo sporco dalle mani con una roba schiumosa, quella che voi chiamate sapone, e io mi ritrovo tutta inquinata.
Dopo qualche istante sono trascinata, con tante mie compagne, lungo lo scarico del lavandino e qui le cose cominciano a mettersi male; lo scarico è collegato con altri tubi e altri tubi ancora e qui sono circondata da tantissime mie compagne ancora più sporche e inquinate di me; tutto intorno a noi, povere gocce d’acqua, ci sono porcherie, residui di cibo, sostanze schiumose, avanzi di fibre che, mi dicono, vengono dalle macchine che voi chiamate lavatrici. Voi umani scrivete delle belle poesie sull’acqua e anche un vostro santo ha detto che l’acqua è vostra sorella, ma all’atto pratico ci trattate davvero male. Alla fine arrivo in un aggeggio che chiamano depuratore e, con vari maltrattamenti, separano da me almeno una parte delle sporcizie con cui ho viaggiato nelle ultime ore. Finalmente un tubo mi rigetta nel mare; ero così contenta di viaggiare nell’aria e sul suolo, ma adesso mi rendo conto di avere passato una brutta avventura; speriamo vada meglio la prossima volta. Dopo qualche giorno di nuovo il calore solare mi fa evaporare dal mare e questa volta vengo trascinata da un vortice di vento che mi porta in alto e lontano. Nel mio stato di vapore guardo sotto di me e vedo altri grandi mari e terre e questa volta trovo uno strato freddo a grande altezza e finalmente torno allo stato liquido di goccia e scendo verso il suolo.
Nella mia precedente caduta sulla terra nessuno si è occupato di me e mi hanno anzi maltrattata con le lavatrici e le fogne e di depuratori, ma adesso, mentre sto scendendo, vedo tante mani alzate verso di me ci sono tanti bambini e la loro pelle è colorata di scuro, molto diversa da quella bianca del bambino che mi ha usato per lavarsi le mani. La mani di questi bambini mi toccano, mi accarezzano, come se fossi un regalo del cielo; da quel che capisco, da mesi non vedevano una goccia di acqua e ne avevano disperato bisogno per preparare il cibo, per bere, per irrigare i campi da cui trarre i raccolti, per abbeverare i magri animali che vedo intorno a me. Questi umani almeno mi dicono grazie e mi raccolgono come una cosa preziosa; ogni piccola goccia di acqua come me viene messa entro vasi e stanno tutti attenti perché nessuna di noi cada a terra o vada persa.
Chi sa perché voi umani siete così diversi nei confronti della umile e preziosa goccia di acqua.
Mi piacerebbe che la prossima volta che scendo su una delle vostre terre, piene di automobili e di pompe e lavatrici e tubi, mi salutaste con affetto o almeno con rispetto. Se qualche volta qualcuna di noi scorre troppo rapidamente verso la pianura e allaga i vostri campi non è colpa nostra; siete voi che avete maltrattato il suolo dimenticando che noi gocce d’acqua abbiamo le nostre regole e forze e possiamo arrivare nella vostra vita senza danni se imparate a conoscere come ci muoviamo sul suolo, nel sottosuolo, fra gli alberi e dentro le foglie.
L’acqua è vita e noi gocce d’acqua la vita portiamo a tutti voi terrestri, di pelle bianca o colorata.
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, nn.3-4, 2018
Produrre per cosa, per chi e dove
L’unico importante problema del futuro del nostro paese riguarda la produzione e i consumi.
Noi tutti siamo sollecitati a consumare; è un invito del governo, della pubblicità, anche di quella recente delle aziende pubblicitarie che ci spiega che l’economia tira se si consuma. Consumare di più è lodevole e anzi necessario – dicono – per assicurare l’occupazione. La catena è chiara: acquistare più merci e servizi significa incentivare la produzione che significa più lavoro, più redditi ai lavoratori e alle loro famiglie che quindi possono acquistare più merci e servizi; i quali servizi a loro volta richiedono merci, materiali ed energia. La mobilità è assicurata con autoveicoli di acciaio, plastica e gomma, che si muovono se alimentati con benzina, che si ricava importando petrolio; le comunicazioni sono assicurate con televisori, telefoni, computer che sono di plastica, metalli vari, che ricevono radiazioni emesse da antenne metalliche e tutti richiedono elettricità che si ottiene dal petrolio; gli alimenti richiedono prodotti agricoli, lattine metalliche, imballaggi di plastica e cartone, impianti di trasformazione e conservazione fatti di metalli e alimentati con energia.
L’imperativo di “consumare” come virtù assoluta ha tre inconvenienti. Il primo è che la capacità di acquisto delle famiglie si satura, se non altro per motivi di spazio; una famiglia non può possedere tre automobili, quattro frigoriferi, sette divani, dieci orologi e quindici telefoni cellulari. Purtroppo di questa saturazione del mercato ci si accorge quando è troppo tardi. All’inizio i venditori sono presi dalla frenesia di accontentare e sollecitare dei compratori sempre alla ricerca di altri e nuovi oggetti, ma arriva un momento in cui, o perché passa la moda, o perché cominciano a scarseggiare i soldi, i compratori vengono meno e la produzione resta invenduta. I produttori devono smettere di produrre e licenziano i lavoratori. Nessun governo ha il coraggio di avvertire gli imprenditori quando appaiono i segni della saturazione del mercato e quando tale crisi arriva – è il caso degli autoveicoli, dei telefoni cellulari, dei computers, degli elettrodomestici, degli arredi domestici – i governi devono fare i conti con le tensioni sociali dovuti alla disoccupazione.
Il secondo inconveniente è che, grazie alla globalizzazione, le merci che acquistiamo sono prodotte dovunque nel mondo, con un sempre minore impiego di lavoro italiano; ogni oggetto che acquistiamo “contiene” ferro proveniente dall’America, plastica ottenuta col petrolio asiatico, oro e tantalio di provenienza africana, rame di provenienza canadese o cilena e, soprattutto, lavoro a basso costo di Singapore o indiano o albanese. Purtroppo non è vero che l’aumento dei consumi fa aumentare in Italia la produzione e il reddito dei lavoratori; fa aumentare le importazioni, pagate solo in parte e sempre meno con le esportazioni di merci italiane, e fa aumentare l’indebitamento dei lavoratori-consumatori. Quando i venditori promettono “tasso zero” per i prestiti con cui acquistare nuovi oggetti e merci, il felice acquirente non dimentichi che un giorno dovrà restituire i soldi ai benefici finanziatori. Si può anche essere contenti che l’Italia contribuisca alla crescita economica degli altri continenti andando a fabbricare oggetti con materie prime straniere e lavoratori stranieri in paesi lontani, ma ciò comporta minore occupazione e minore reddito e quindi minore capacità di acquisto, per i lavoratori italiani.
D’altra parte se si vuole essere europeisti, internazionalisti, terzomondisti, se si vuole che anche i lavoratori del Sud del mondo abbiano salari equi e condizioni di lavoro migliori; se si vuole che i paesi del Sud del mondo ricevano prezzi equi per i loro minerali, prodotti agricoli e forestali, materie prime e manufatti; se si vuole che vengano applicate, anche nel Sud del mondo, norme decenti per la difesa della salute e dell’ambiente e contro gli inquinamenti – tutte le cose che giustamente chiedono i movimenti alla ricerca di un nuovo mondo – bisogna rassegnarsi, in Italia, ad un inevitabile aumento del prezzo delle merci e ad una diminuzione dei consumi.
Il terzo inconveniente sta nel fatto che per acquistare nuovi oggetti bisogna buttare via i precedenti “vecchi” oggetti. È il risultato della politica seguita da anni con la “rottamazione”: se si butta fra i rottami la vecchia automobile, il vecchio televisore, il vecchio computer, qualcuno – a volta a volta, il governo, o il venditore – fa pagare di meno le merci nuove, magari facendo credere che l’acquirente rende un servizio all’ecologia. Le discariche di rifiuti sono piene di autoveicoli, frigoriferi, lavatrici, macchinari vari, spesso ancora in buone condizioni e funzionanti, con il loro carico di sostanze tossiche o inquinanti che aspettano solo che la corrosione le faccia finire a intossicare le acque e il suolo.
La salvezza può essere cercata soltanto in una revisione critica di quello che si produce e dove e come. Se è centrale l’aumento (o almeno la conservazione) dell’occupazione, bisogna allora chiedersi che cosa possano produrre, di vendibile, di utile, le fabbriche che stanno licenziando i lavoratori. Chi produceva autoveicoli di modelli che hanno saturato il mercato e che le strade urbane non possono più sopportare, potrebbe produrre mezzi di trasporto collettivi, migliori degli autobus che circolano nelle nostre città, delle carrozze ferroviarie che circolano sulle nostre rotaie? o mezzi di trasporto adatti per i paesi emergenti, dove non ci sono autostrade ma strade sterrate? o mezzi di trasporto riciclabili? e la stessa domanda si può porre per gli elettrodomestici, i televisori, gli strumenti di telecomunicazione, i tessuti e le scarpe, eccetera. O non si potrà assicurare occupazione nelle operazioni di ricupero, dalle montagne di scarti, di materie ancora utilizzabili, dalla plastica, ai metalli comuni, ai metalli preziosi dei circuiti elettronici? O non si potrà creare occupazione nelle opere pubbliche di difesa del suolo e di aumento delle risorse idriche?
L’obiezione è che le imprese sono libere di fare quello che vogliono senza nessun controllo, ma la disoccupazione che segue la fine dei profitti facili fatti dalle imprese producendo merci sbagliate, è fonte di costi e di dolori per la collettività. Possibile che la collettività e i suoi governi non abbiano niente da dire? Eppure, quando vogliono fare dei favori alle imprese, i governi del libero mercato sanno trovare gli strumenti adatti: maggiori o minori imposte sulle merci o manufatti di cui vogliono scoraggiare o aumentare i consumi, standards merceologici che favoriscono le esportazioni o scoraggiano le importazioni. Perché la collettività non dovrebbe chiedere ai governi un controllo sulla, e un orientamento della, qualità della produzione sotto il vincolo della difesa dell’occupazione?
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, nn.5-6, 2018
La fusione dei ghiacciai
Ma sarà poi vera questa storia del riscaldamento globale a cui la direttrice dedica l’editoriale di questo numero della rivista? Molti ne dubitano, c‘è tutta una letteratura sull’argomento.
Alcuni hanno fatto accurate indagini su quello che è successo migliaia o centinaia di anni fa per verificare se gli oceani e i mari si sono innalzati o abbassati e possono assicurare che ci sono sempre state quelle oscillazioni che gli ecologisti attribuiscono al riscaldamento globale di origine antropica. Alcuni sono andati a cecare segni di cambiamenti climatici nei pezzi di ghiaccio estratti con trivelle da ghiacciai antichissimi. Estati torride, piogge improvvise, inverni freddi, i meno giovani li ricordano anche nei decenni passati.
Eppure il riscaldamento globale c’è davvero e l’inizio della crisi climatica attuale può essere fatta risalire all’ingresso, sulla scena globale, del petrolio e del metano che si sono prepotentemente affiancati al carbone, il protagonista della prima industrializzazione, innescando come fonti di energia la grande rivoluzione produttiva e merceologica del XX secolo.
Gli idrocarburi del petrolio e del gas naturale hanno accelerato la produzione dell’energia elettrica, degli autoveicoli, diventati oggi 1400 milioni nel mondo, della chimica sintetica che produce concimi e materie plastiche. Idrocarburi, come dice il nome, composti di idrogeno e di carbonio, che liberano energia combinandosi con l’ossigeno; durante la combustione il carbonio si trasforma nel gas anidride carbonica; l’estrazione e l’uso del gas naturale, costituito da metano, lasciano scappare nell’atmosfera parte di questo idrocarburo. L’aumento della concentrazione di questi due gas “serra” nell’atmosfera, fa sì che nell’atmosfera venga trattenuta una crescente quantità di calore, proprio come fa il vetro di una serra. E una volta che anidride carbonica e metano sono entrati nell’atmosfera vi restano per decenni. Si pensi che la quantità di anidride carbonica presente nei 5 milioni di miliardi di tonnellate dei gas atmosferici (principalmente azoto e ossigeno) era 2500 miliardi di tonnellate nel 1950; adesso nel 2018 è aumentata a 3000 miliardi di tonnellate a riprova che nessuno la sposta più. E a tale massa ogni anno si aggiungono un’altra ventina di miliardi di tonnellate di gas serra.
Hanno un bel da dire che se verranno rispettati gli “accordi di Parigi”, diminuiranno le emissioni antropiche di anidride carbonica; se venissero rispettati diminuirebbe la “nuova” quantità immessa ogni anno ma la concentrazione totale di questo e degli altri gas serra continuerebbe ad aumentare e continuerebbero i mutamenti climatici disastrosi; ancora peggio se, come sembra, i principali paesi inquinatori non faranno niente per limitare produzioni e consumi con conseguente aumento delle emissioni di gas serra e dei danni climatici. Né confortano i molti progetti di seppellire nel sottosuolo l’anidride carbonica, di filtrarla all’uscita dai camini, tutti finora falliti.
Ma se poi aveste dei dubbi sull’esistenza del lento inesorabile riscaldamento del pianeta, andate a guardare i grandi ghiacciai delle zone artiche in cui il ghiaccio, in crescenti quantità, fonde e si trasforma in acqua dolce che si miscela con l’acqua salata degli oceani, alterando delicati equilibri ecologici. Con l’aggravante che nei ghiacci sono intrappolate tracce di metano, l’altro gas serra, che va ad aggiungersi nell’atmosfera a mano a mano che i ghiacci fondono.
Se poi non volete andare a verificare la situazione nelle zone artiche, andate a vedere i ghiacciai italiani. Nel 1920 la superficie del ghiacciaio dell’Adamello era di 2500 ettari, adesso è di meno di 1500 ettari. Sull’Adamello ancora pochi anni fa d’estate c’era ghiaccio e veniva praticato lo sci alpinismo; adesso c’è terra brulla e un piccolo pezzo di ghiacciaio residuo è coperto con un telo di plastica per proteggerlo dal sole e cercare di salvarlo per il prossimo inverno turistico.
Nella storia geologica della Terra ci sono stati avanzate e ritiri dei ghiacciai ma nel corso di millenni, non di decenni come ora. La rapida fusione dei ghiacciai è la riprova sperimentale, visiva, dell’equazione: crescita della popolazione?crescita della richiesta e della produzione di beni materiali?crescita delle immissioni di gas nell’atmosfera?aumento della massa di gas serra trattenuti nell’atmosfera?aumento della temperatura media del pianeta. Una equazione che era stata analizzata ed aveva avuto una rappresentazione grafica nel libro “I limiti alla crescita”, apparso nel 1972, tanto vituperato e poi dimenticato e opportunamente ristampato dalla casa editrice LuCe di Massa proprio in questi giorni. Una utile lettura che vivamente raccomando.
Se vogliamo evitare che il fenomeno si aggravi e ci faccia andare tutti sott’acqua, la soluzione va cercata in una revisione dei nostri consumi sfrenati dominati dal mito che il dovere dell’economia consista invece proprio della crescita di tali consumi.
Eppure anche qui proprio di economia si tratta: le conseguenze del riscaldamento globale si manifestano in perdita di soldi. Sapete chi se ne preoccupa seriamente? le compagnie di assicurazioni che vedono il pericolo di dover pagare crescenti rimborsi agli assicurati, agli agricoltori che hanno perso i raccolti e ai proprietari delle case spazzate via dalle alluvioni.
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, nn.7-8, 2018
L’effetto serra del consumismo
Presidenti, ministri, funzionari, imprenditori, compagnie di assicurazioni, lobbysti, si incontrano per la 24a volta dal 1995, a Katowice, per la Conferenza delle parti (COP) interessate al rallentamento del riscaldamento planetario e delle sue dannose conseguenze. Tale riscaldamento dipende prevalentemente dalla modificazione della composizione chimica dell’atmosfera conseguente l’immissione nella stessa atmosfera di vari gas; li chiamano gas serra perché contribuiscono a trattenere all’interno dell’atmosfera e quindi dell’intero pianeta, una crescente frazione della radiazione solare.
Il riscaldamento del pianeta provoca tempeste improvvise, avanzata dei deserti, modificazione della temperatura e salinità dei mari, fusione di ghiacci, eccetera. Si parla di oltre 40 miliardi di tonnellate all’anno di anidride carbonica, metano, ossidi di azoto, per la maggior parte derivanti dall’uso diretto e indiretto delle fonti di energia fossili: carbone, petrolio, gas naturale.
Una parte dei gas serra viene eliminata dall’atmosfera, trascinata dalle piogge nei mari; una parte contribuisce alla fotosintesi; una parte va ad aggiungersi ai gas serra che già sono presenti nell’atmosfera, aumentandone la concentrazione, che già è oltre 400 volumi ogni milione di volumi totali di gas dell’atmosfera (ppm), di circa due ppm all’anno.
I governanti cominciano ad essere spaventati dal fatto che i cambiamenti climatici comportano dei costi, necessari per risarcire i proprietari delle case allagate, dei campi alluvionati, per ricostruire le strade franate, e da anni si incontrano, senza successo, per arzigogolare qualche strumento fiscale o monetario per rallentare il riscaldamento globale. Perché a queste riunioni annuali dei governi non si parla di natura o di ecologia, ma di soldi.
Qualcuno vorrebbe aumentare la superficie delle foreste che assorbono una parte dell’anidride carbonica emessa dai camini e qualcuno vorrebbe spianare le foreste esistenti per trasformarle in pascoli e allevamenti di cui vendere la carne; qualcuno vorrebbe modificare le automobili inquinanti e qualcuno vorrebbe venderne di più per la maggior gloria dei fabbricanti.
Qualcuno vorrebbe produrre più elettricità dal sole e dal vento per favorire i venditori di pannelli solari e di turbine eoliche, e qualcuno vorrebbe produrre più elettricità dal carbone e dal gas naturale che emettono più gas serra. Qualcuno propone di seppellire i gas serra in miniere sotterranee abbandonate o nel fondo degli oceani o di costruire delle barriere con cui proteggere le zone costiere dall’innalzamento dei mari.
Ma c’è qualcosa di cui nessuno parla: le merci, l’uso delle merci; qualsiasi oggetto (e servizio) – un etto di carne, una lattina di conserva di pomodoro, un foglio di carta, un minuto di telefonata, un chilometro percorso, eccetera – comporta estrazione dalla natura di materiali (agricoli, forestali, minerali, energetici) che, nella trasformazione e nell’uso immette nell’ambiente residui solidi, liquidi e gas fra cui quelli che alterano irreversibilmente il clima. Più oggetti, più merci, più modificazioni climatiche.
Ogni persona per vivere, più o meno, ha bisogno di oggetti e contribuisce a peggiorare l’ambiente, irreversibilmente; non ci sono filtri, resilienza, sostenibilità, e chiacchiere; non ci sono altri pianeti da abitare. D’altra parte l’aumento dei consumi delle merci e dell’energia è imposto dalle regole della società capitalistica e considerato come cosa buona per venditori di combustibili, fabbricanti, padroni e lavoratori e commercianti e per gli stessi “consumatori”, intossicati dalla pubblicità, complici e vittime delle violenze alla natura. Se i governanti non hanno voglia di mettere in discussione il mondo dei soldi e degli affari, si tengano le città allagate e i campi inariditi e non vadano neanche in processione nelle loro inutili conferenze, così almeno risparmiano le spese del viaggio e degli alberghi.
Ecologia Politica-CNS, Ricerche per l’alternativa, nn.9-10, 2018