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Sull’autarchia

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Di seguito una scelta essenziale di contributi scritti da Giorgio Nebbia negli ultimi anni sul tema dell’autarchia prendendo spunto dalla vicenda storica dell’autarchia in epoca fascista.

Autarchie e ecologia

Autarchia è parolaccia: ricorda il fascismo, le ristrettezze, le miserie del decennio 1935-1945 e anche alcune cose ridicole. Di per sé, il termine “autarchia” indica la soluzione di problemi tecnici e produttivi usando le risorse intellettuali e materiali di un singolo paese, isolato; è, insomma, il contrario di Europa e di globalizzazione, i nuovi idoli del XXI secolo. E’ però curioso che proprio in alcuni paesi fautori della globalizzazione, davanti ai problemi di scarsità di materie prime e di impoverimento ambientale, si vadano a reinventare soluzioni tecniche caratteristiche delle autarchie. “Autarchie” al plurale, perché le stesse soluzioni sono state trovate nelle varie autarchie, quelle fasciste (in Italia, in Germania, nella Francia occupata dai nazisti), ma anche quelle dell’Unione Sovietica, degli Stati Uniti, dell’Inghilterra. Si possono identificare almeno tre “età delle autarchie”. Dal 1900 al 1920 (l’alba dell’età del petrolio e la prima guerra mondiale); dal 1930 al 1945 (prima e durante la seconda guerra mondiale); dal 1973 al 1985 (l’età delle crisi del petrolio). Una ripresa dell’interesse per soluzioni autarchiche è in corso dal 2000. Le autarchie hanno in comune alcuni caratteri per i quali userò i termini moderni: il riutilizzo degli oggetti usati; il ricorso a fonti energetiche rinnovabili (solare, eolico); l’utilizzazione di prodotti e sottoprodotti agricoli e forestali per la produzione di merci finora ottenute dal petrolio; il privilegiare la lunga durata e la degradabilità delle merci. La storia delle autarchie è tutta da scrivere e non è facile ricostruirla perché molti documenti sono sepolti negli archivi o sono scomparsi. Le autarchie sono state caratterizzate da stupidità e furbizie; in Italia chi proponeva qualche soluzione bislacca spacciabile come “autarchica” trovava ascolto presso qualche gerarca, spesso ignorante, e riusciva a farsi finanziare imprese destinate all’insuccesso; quando scarseggiava il ferro per i cannoni qualcuno si fece finanziare la raccolta, mediante calamite, dei minuscoli granuli di ferro presenti nelle spiagge laziali e pugliesi; la quantità di ferro era irrilevante come lo fu quella del ferro ricavato dalla raccolta delle cancellate metalliche delle case. Circolava in epoca fascista una barzelletta che però non posso scrivere, perché prevedeva la trasformazione in burro di una materia prima non nominabile per ragioni di decenza.

Eppure alcune soluzioni “autarchiche” presentano di nuovo interesse proprio per motivi ecologici. Oggi è di gran moda, come sostituto della benzina, il bioetanolo che è poi l’alcol etilico ottenuto per fermentazione dai carboidrati ricavati da piante zuccherine, da amido di cereali e di tuberi e da materie lignocellulosiche come legno e paglia. L’alcol è stato il carburante per motori a scoppio all’alba dell’era dell’automobile, sostenuto da Ford, poi usato nelle gare automobilistiche, poi usato per riscaldamento domestico e poi ancora come carburante durante la seconda guerra mondiale, e poi negli anni settanta per evitare l’impiego del velenoso piombo tetraetile come antidetonante. Prima della petrolchimica l’alcol etilico è stato usato anche come materia prima per il butadiene necessario per la gomma sintetica, un butadiene dalla biomassa, quindi.

Qualsiasi materiale naturale contenente carbonio, idrogeno e ossigeno, per riscaldamento si trasforma in gas che possono essere usati come combustibili o combinati in idrocarburi simili a quelli che si ottengono nella distillazione del petrolio. Siamo rimasti in pochi ormai a ricordare i “gassogeni”, grossi pentoloni applicati nel retro degli autobus o dei camion, contenenti un fornello nel quale veniva scaldata della legna che si scomponeva in idrogeno e ossido di carbonio, miscela di gas che venivano poi avviati nel motore del veicolo. Si trattava di aggeggi rudimentali che, col tempo, sono stati perfezionati al punto che oggi, per “pirolisi” di materie organiche, si possono ottenere gas utilizzabili come combustibili e materie prime industriali. Ogni volta che, nel corso del Novecento, è scarseggiato il petrolio, i paesi industriali si sono rivolti al carbone che, per gassificazione, ha fornito materie trasformabili in benzina; la Stanic di Bari, ormai un rudere, è nata nel 1938 per la produzione di benzina sintetica per idrogenazione dei carboni e bitumi albanesi.

Nella prima metà del Novecento si studiava e si insegnava un vasto capitolo di chimica del legno dal quale, con vari processi, era possibile ottenere alcol metilico e materie prime industriali. Un altro importante capitolo della chimica industriale riguarda le fermentazioni con le quali è possibile trasformare i vari zuccheri in innumerevoli sostanze: dall’alcol butilico, anch’esso impiegabile come carburante, all’acetone, alla glicerina che peraltro si forma in grandi quantità anche dai grassi naturali quando sono trasformati nel ”biodiesel” il sostituto di origine vegetale del gasolio per motori diesel. E dalla glicerina si ottenevano il propilene e molti altri derivati finora prodotti per via petrolchimica.

Sta nascendo una nuova attenzione per le fibre tessili vegetali la cui produzione è stata soffocata dalle fibre tessili sintetiche. L’Italia era all’avanguardia nella produzione della canapa e del lino, praticata anche nel Mezzogiorno con tecniche molto raffinate. Sia la canapa sia il lino vengono separati dalle rispettive “bacchette” mediante trattamento entro “maceri”, vasche piene d’acqua contenenti microrganismi che scompongono il collante che le teneva unite. Molte di queste pratiche sono state dimenticate e oggi importiamo fibre vegetali che una volta erano “autarchiche” e oggi vengono richieste da una ondata di moda ecologista. In periodo autarchico erano state studiate utilizzazioni della ginestra, pianta diffusa c da cui è possibile ricavare fibre tessili o cellulosa da carta. Piante capaci di fornire gomma simile a quella delle foreste tropicali possono essere coltivate anche nei nostri climi e sopravvivono in California e in Russia. Coltivazioni della pianta da gomma guayule erano cominciate anche in Puglia nel 1938-40, poi abbandonate. Il petrolio a basso prezzo e i successi dell’industria petrolchimica hanno spazzato via tutte queste conoscenze; che si debba andare a studiarle di nuovo, ora che il petrolio oscilla fra 90 e cento dollari al barile?

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Autarchia è, a rigore, l’insieme di azioni che vengono messe in prati­ca da un Paese o da una comunità per approvvigionarsi dei beni mate­riali (ma anche immateriali, come cultura, letteratura, cinema) neces­sari utilizzando risorse disponibili sul posto. Nel linguaggio comune qui in Italia, autarchia è parolaccia perché è stata usata in abbondan­za dal governo fascista soprattutto a partire dal 1930, al fine di evita­re le importazioni, dai Paesi “nemici”, dei materiali e delle merci ne­cessari per la vita quotidiana e per la preparazione e conduzione della guerra.

L’autarchia fascista è stata caratterizzata da alcune scelte tecniche e merceologiche sbagliate, talvolta ridicole, spesso inefficaci, e anche da un asservimento al regime fascista di gran parte del mondo accademi­co italiano e di tecnici e imprenditori industriali, con viltà, speculazio­ni personali e profitti di carriera e di soldi.

Questo volume, però, ben lungi da valenze nostalgiche, ma a rischio di apparire a certuni “politicamente scorretto”, coglie nell’autarchia italiana del periodo alcuni aspetti utili per gli orizzonti attuali. Innumerevoli volte nella storia umana una popolazione o un Paese hanno dovuto “arrangiarsi” con le risorse locali, contare sulle proprie forze, fare di più con meno, per risolvere i propri problemi di soprav­vivenza. Queste condizioni si verificano quasi sempre nei periodi in cui un Paese è in guerra perché vengono meno le fonti di approvvigio­namento che in genere sono accessibili quando il mondo è in pace e i commerci superano i confini politici. Talvolta le soluzioni autarchiche hanno stimolato azioni e scoperte ingegnose, che si sono rivelate ferti­li anche quando le condizioni di emergenza sono cessate.

Fu costretto a ricorrere a soluzioni autarchiche Hernán Cortés quando, agli inizi del Cinquecento, si trovò solo nel Messico: era privo dello zolfo (l’oro della Sicilia) necessario per la polvere da sparo, che non poteva venire dall’Europa, e scoprì che ce n’era un giacimento nel cratere del terribile vulcano Popocatepetl; così fece calare il suo com­pagno Francisco Montano, dentro una cesta legata con una corda, per grattare un po’ di tale zolfo e poté continuare “la conquista”. Ricorse a soluzioni autarchiche Napoleone durante il Blocco continentale, agli inizi dell’Ottocento, quando, privo dello zucchero “coloniale”, sfrut­tò abilmente la scoperta di Achard di estrarre zucchero dalle barba­bietole; fu estesa la coltivazione delle bietole, furono costruiti zucche­rifici e tutto questo dette vita all’industria saccarifera europea. Ricorse a soluzioni autarchiche il popolo degli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale quando avviò coltivazioni di guayule, non potendo ricevere gomma naturale dalla Malesia occupata dai giapponesi.

Si potrebbe scrivere un intero libro sulle autarchie, anche solo su quelle che, nello stesso tempo in cui il fascismo imperversava in Italia, si svilupparono nei democratici Stati Uniti, nell’Unione Sovietica bol­scevica, nella Germania nazista, nella Francia fascista di Vichy e altro­ve. Del resto un’altra stagione di autarchie si era già avuta durante la prima guerra mondiale.

Quelle del periodo fascista erano tutte “stupidisie”? Alcune sì. Cir­colava durante il fascismo una barzelletta. Alcuni “scienziati” si pre­sentano a un alto gerarca proponendogli un processo per trasformare in burro una cosa che non posso nominare. Il gerarca entusiasta va da Mussolini e gli chiede per le ricerche dei finanziamenti che vengono generosamente concessi. Ogni tanto il gerarca chiedeva agli “scienzia­ti” notizie sui progressi e otteneva rassicuranti notizie; alla fine Mus­solini chiese a sua volta al gerarca come andassero le cose e il gerar­ca tutto arrabbiato convocò gli “scienziati”, che lo tranquillizzarono: «Eccellenza, abbiamo fatto grandi progressi: la spalmabilità sul pane è perfetta; abbiamo solo alcuni problemi col sapore e l’odore».

Ho cominciato la mia carriera di chimico nel 1946 e nell’Università si respirava ancora una parte dell’aria dell’autarchia; molti baroni del­la chimica e dell’ingegneria erano stati quelli che avevano collaborato, nel bene e nel male, all’autarchia fascista. Nello stesso tempo era possibile guardare in faccia quanto si veniva a conoscere delle soluzioni autarchiche, disinquinate dalle “stupidisie”: alcune erano sopravvis­sute e alcune erano anche state ingegnose. Questa pagina della storia dell’industria meritava di essere riletta e approfondita nei suoi aspetti tecnici e merceologici; perché di produrre merci si trattava, metalli e prodotti chimici, detersivi e prodotti alimentari, gomma e fibre tessi­li: è un grande merito, a mio modesto parere, del libro di Marino Ruzzenenti l’aver esplorato questi aspetti in un momento in cui, ironica­mente, l’autarchia si sta vendicando.

Fortunatamente siamo (quasi dovunque, nel mondo) in pace e la scarsità di alcune materie prime è provocata non dai limiti negli scam­bi, nel bene e nel male ormai globali, come si suol dire, ma nella na­tura. Anche le società industrializzate tecnicamente avanzate devono imparare a contare sulle proprie forze, a fare di più con meno, sotto i vincoli di materie prime non rinnovabili che si fanno più scarse, di al­terazioni dell’ambiente dovute a inquinamenti, sotto i vincoli dei limi­ti fisici della natura come fonte di materie e dei limiti della capacità dei corpi naturali di ricevere le scorie delle nostre attività. Un’autar­chia va oggi praticata perché abitiamo tutti in un’unica “nazione”, il pianeta Terra, i cui confini sono chiusi: possiamo trarre quello che ci occorre soltanto dal suo interno e la “nazione planetaria” soffre degli stessi limiti che affliggevano i Paesi in guerra nel XX secolo. Contare sulle proprie forze, fare di più con meno non sono capricci, ma linee della politica economica da adottare nel XXI secolo.

Da qui l’importanza di ripescare soluzioni tecnico-scientifiche del­le vecchie autarchie, di rileggerle alla luce delle innovazioni che sono state fatte, dei nuovi materiali e processi oggi disponibili. E’ quanto fa il libro di Marino Ruzzenenti, non a caso uno storico dell’industria e dell’ambiente, accompagnando il lettore alla scoperta di persone, stu­diosi e inventori dimenticati, di imprese e fabbriche scomparse che pure hanno dato lavoro e sviluppato cultura operaia praticamente in tutta l’Italia, dal Nord industriale al Mezzogiorno agricolo, alle isole ricche di risorse minerarie.

In questo senso l’autarchia rappresentò un momento di ulteriore allargamento dell’industrializzazione, senza peraltro portare benefìci né agli operai né ai contadini, che videro peggiorare le loro posizioni rispetto alle altre classi sociali; infatti la diffusione e intensificazione del lavoro non andava di pari passo con l’incremento dei salari. Oggi il peggioramento della condizione dei lavoratori, la mancanza di lavoro e la sua precarietà sono dovuti al mercato mondiale che unifica il ca­pitale mentre frantuma i lavoratori e distrugge l’ambiente. Un’inver­sione di rotta che salvaguardi il lavoro e l’ambiente deve passare anche attraverso l’utilizzo e la valorizzazione delle risorse locali. L’autarchia, se non è intesa come rinserramento ostile contro il diverso, può esse­re uno strumento per diminuire l’impatto sull’ambiente e ampliare le occasioni di lavoro e di innovazione nell’uso di ciò che ogni territorio è in grado di offrire.

Molte delle attuali produzioni sono resurrezioni di invenzioni già state fatte nei decenni passati e abbandonate perché mancavano tecnologie e materiali adeguati o perché non erano favorevoli le con­dizioni politico-economiche o perché erano frenate da altri potenti in­teressi economici.

Nel tempo del fascismo i rottami di ferro venivano tratti estirpan­do le cancellate metalliche perché scarseggiavano i minerali ferrosi; oggi oltre la metà dell’acciaio nel mondo è prodotto dai rottami con i processi a ossigeno e al forno elettrico e la Cina e l’India raccattano, per le loro acciaierie, in tutto il mondo i rottami metallici che anzi au­mentano, ironicamente, “grazie” ai premi in denaro – gli “ecoincentivi” – dati a chi si libera dei vecchi autoveicoli ed elettrodomestici, a condizione che ne compri di nuovi, dichiarati più “ecologici”. Nel campo dei detersivi i tipi più moderni contengono… sapone, il vec­chio “sapone di Marsiglia”, dopo che sono stati constatati vari incon­venienti dei tensioattivi sintetici. La lotta ai parassiti viene fatta con i vecchi insetticidi “naturali”, che stanno soppiantando gli insetticidi sintetici clorurati. Non era stupido l’alcol carburante che può sosti­tuire la benzina di origine petrolifera, avendo anche un buon nume­ro di ottano, se è fabbricato, come avveniva negli anni Trenta, da sot­toprodotti e scarti agricoli e forestali e non da prodotti agricoli utili a fini alimentari, come si fa oggi in molti Paesi del mondo dopo averlo ribattezzato “bioetanolo”.

Il libro ricorda che stiamo assistendo alla resurrezione dell’interes­se per le fibre tessili naturali, addirittura a livello delle Nazioni Uni­te, come alternativa a quelle sintetiche e occasione per lo sviluppo dei Paesi produttori, che potremmo anche essere noi europei industrializ­zati se riscoprissimo le tecnologie del lino, della canapa e perfino del­la ginestra, con vantaggi per la difesa del suolo e per l’occupazione. Il rayon al cuprammonio, la “seta Bemberg” a base di cellulosa, sta vi­vendo una nuova stagione per tessuti di pregio.

E quanto a quel sottoprodotto che gli “scienziati” della barzellet­ta volevano trasformare in burro, non stiamo forse adesso osservando che i milioni di tonnellate di tale sottoprodotto, ricco di azoto e fosfo­ro, diventano fonte di inquinamento se gettati ogni anno nei fiumi e nel mare mentre possono permettere di risparmiare concimi artificia­li se recuperati dalle fogne e dalle porcilaie e impiegato in quella tan­to lodata “agricoltura biologica”?

Nello stesso campo delle fonti energetiche rinnovabili, tutte le rea­lizzazioni odierne, ad eccezione forse di quelle basate sulle celle foto­voltaiche al silicio inventate nel 1952, sono perfezionamenti di inven­zioni e impianti già descritti in tutto il Novecento; il libro di Marino Ruzzenenti ripercorre pagine dimenticate della storia dell’energia so­lare in Italia; i motori eolici hanno pompato con successo acqua nelle zone agricole in tutto il mondo e in Italia nelle zone della riforma fon­diaria dal 1920 in avanti; le pompe eoliche Vivarelli, esempi di quel­lo che scopriamo adesso come eolico decentrato, erano esportate nel mondo.

Lo studio dei prodotti e dei processi del periodo autarchico italia­no non esenta, ovviamente, dal giudizio di ferma condanna del regi­me fascista, delle sue avventure razziali, militari e colonialistiche, delle sue stupidità e ignoranza. Non si tratta di rilanciare il ruralismo fasci­sta o nazista, la virtù delle famiglie contadine, ma di riconoscere che la terra, in pianura, collina, montagna, è la base per produzioni anche tecnicamente avanzate, con vantaggi per la decongestione delle zone urbane, per la difesa delle acque e la prevenzione di frane e alluvioni.

La transizione verso un'”autarchia” planetaria richiede più cono­scenze scientifiche e più tecnologia per usare, nell’interesse della na­zione planetaria, le sostanze che il mondo vegetale, animale, minerale, nasconde dentro di sé e di cui sappiamo poco o ci siamo dimenticati. Nello stesso tempo la storia della tecnica permette di evitare tentativi ed errori che hanno già avuto una risposta nel passato; da qui l’impor­tanza di questo libro. Volenti o nolenti, il «passato è prologo».

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Autarchia verde

Autarchia è l’insieme di azioni che vengono praticate da un paese o da una comunità per approvvigionarsi dei beni materiali necessari utilizzando risorse disponibili sul posto. In generale si deve ricorrere a soluzioni autarchiche quando un paese o una comunità sono isolate, non possono o non vogliono scambiare merci e servizi con i paesi vicini. Questo si è verificato molte volte nella storia. Nel 1806 quando Napoleone vietò l’ingresso nei porti francesi delle navi che portavano lo zucchero di canna prodotto nelle colonie inglesi, fu incentivata la produzione autarchica di zucchero dalle barbabietole che crescono in Europa; durante tutte le guerre un paese deve produrre al proprio interno i beni che prima otteneva importandoli dai paesi nemici.

Una politica autarchica si ebbe in Italia durante il fascismo quando la Società delle Nazioni (quella che sarebbe diventata l’Organizzazione delle Nazioni Unite) vietò l’esportazione verso l’Italia di alcune materie prime. Ma negli stessi anni l’Unione Sovietica, isolata politicamente, dovette cercare soluzioni autarchiche per alcune materie prime fra cui la gomma di importazione e risolse il problema con la produzione di gomma sintetica. La gomma naturale venne a mancare negli anni quaranta del Novecento negli Stati Uniti, che produssero una gomma autarchica da piante che crescevano in California e Arizona. Talvolta le soluzioni autarchiche erano ingenue e economicamente inaccettabili e sono state presto abbandonate, ma altre si sono rivelate tecnicamente ingegnose e sono risultate valide anche quando l’isolamento è finito.

Abbastanza curiosamente in questo momento in cui sono possibili scambi internazionali globali, in cui praticamente non esistono, se non in casi limitati, paesi isolati dagli scambi con altri, la necessità di un’autarchia si ripresenta, ma su scala planetaria. Dal momento che non c’è nessun altro pianeta, al di fuori della Terra, da cui ottenere minerali e materie le cui riserve terrestri sono in via di esaurimento, occorre cercare altre risorse, all’interno del nostro pianeta, da utilizzare con quelle soluzioni che oggi chiamiamo “verdi, “ecologiche” e che spesso vanno ricercate fra le invenzioni autarchiche, fatte molti decenni fa e dimenticate.

Un’esplorazione della storia delle autarchie, con particolare riferimento a quella italiana degli anni trenta, è stata fatta in un prezioso libro, apparso di recente, “L’autarchia verde” (Milano, Jacabook) scritto dal prof. Marino Ruzzenenti un attento studioso di storia dell’industria e dell’ambiente della Fondazione di storia contemporanea Luigi Micheletti di Brescia. Il recupero di rottami metallici da trasformare in nuovi metalli, reso possibile attraverso la raccolta differenziata dei rifiuti, di cui tanto si parla, è una tipica soluzione autarchica che veniva praticata in Italia negli anni trenta, ma anche in tutti i paesi durante la prima e la seconda guerra mondiale.

La necessità di produrre nuovi metalli dai rottami ha spinto alla scoperta di nuovi processi che hanno fatto progredire la tecnologia siderurgica al punto che oggi circa la metà dei 1300 milioni di tonnellate di acciaio prodotti nel mondo è ottenuta per riciclo dei rottami. La riscoperta “ecologica” dei carburanti per autotrazione ottenuti dalla biomassa (alcol etilico, carburanti diesel ottenuti dai grassi) ha utilizzato tecnologie autarchiche che erano state messe a punto negli anni trenta quando si profilava (già allora) la scarsità delle riserve mondiali di petrolio.

Oggi vengono riscoperte come “verdi”, in alternativa alle fibre sintetiche derivate dal petrolio, molte fibre naturali che erano state utilizzate in periodo autarchico come quelle ricavate dalla ginestra, dalla canapa, la fibra bemberg ottenuta dalla cellulosa agricola o quelle ottenute da proteine vegetali. La crescente attenzione per le materie plastiche dette ”biodegradabili” si basa su molecole ricavate dall’amido e dalla cellulosa, già sperimentate decenni fa in vari paesi.

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