Ambiente Tecnica Società. Rivista digitale fondata da Giorgio Nebbia

Editoriale n°41

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Giorgio Nebbia ha avuto in sorte di attraversare quasi per intero il Novecento sino alla conclusione del secondo ventennio del nuovo secolo e millennio. La sua curiosità si rivolgeva a tempi di più lunga durata ma è indubbio che il focus principale fosse concentrato sulle dinamiche della contemporaneità. Nonostante la premessa, per lui doverosa, del carattere non professionale del suo approccio alla storia, mi sembra utile richiamare la sua idea di un lungo Novecento, altro da quello politico, a cui rimanda il nome di questa rivista, con l’obiettivo di fornire materiali per la conoscenza di un “altronovecento”, centrato su società e ambiente, in un rapporto pervasivamente mediato dalla tecnica.

In breve la tesi di Nebbia è che la contemporaneità, nella sua prospettiva il Novecento, non sia affatto breve, essendo attraversata da dinamiche profonde la cui dimensione temporale e spaziale coincide con l’emergere e affermarsi sempre più intenso di un conflitto senza precedenti tra l’operare della specie umana e il suo ambiente di vita, in altri termini il tempo della contemporaneità è quello dell’industrializzazione del mondo. A tale conclusione era spinto dal suo ecologismo scientifico, per usare una definizione che non gli piaceva, ma che torna comoda, vale a dire la comprensione per via scientifica di come funziona la natura, sulle basi ottocentesche dell’evoluzionismo e della nascente ecologia, quindi la conoscenza della storia naturale e, contemporaneamente, della nascita, sviluppo e impatto sempre più forte dell’industria moderna sull’ambiente naturale e umano.

Attorno a questa duplice polarità si costituisce lo scenario che fa da sfondo alle molteplici vicende del lungo Novecento. Un contesto mobile e cangiante, prodotto da forze, azioni e resistenze, naturali e umane. È necessario sottolineare come fatto non scontato che l’interesse di Nebbia per la storia nasce all’interno del suo mestiere di merceologo, secondo l’autodefinizione minimalistica a cui ricorreva abitualmente, dietro cui si nasconde la piena consapevolezza della necessità di conoscere dal di dentro il modo di produzione economico e tecnico delle merci, per orientarsi e possibilmente agire allo scopo di frenare e invertire i processi distruttivi posti in essere sotto la sferza non tanto dei bisogni quanto della finalità del profitto. L’accoppiata ecologismo-anticapitalismo è un altro dei tratti che assumono sempre più rilievo nella produzione intellettuale, divulgativa e di denuncia del nostro, con forte anticipo rispetto a più gettonati ma effimeri maestri del pensiero.

Sarebbe velleitario cercare di fornire una esaustiva esemplificazione dei molti campi di interesse che attrassero la sua attenzione, sia nel suo lavoro specifico di chimico-merceologo, sia nei tantissimi a cui dedicò la sue energie di studioso e divulgatore. Tenendo ferma l’ipotesi di una unitarietà di base, come contraltare dei luoghi diversificati e numerosissimi in cui agì e pubblicò, abbiamo organizzato questo numero della rivista attorno ad alcuni filoni tematici, offrendo poi una scelta ampia dei ricordi e testimonianze successive alla sua scomparsa nel luglio di quest’anno.

La prima sezione, a cura di Cesare Silvi, è dedicata all’energia solare. In qualche modo una scelta obbligata per due motivi: l’interesse di lunga data, risalente ai primi anni ’50, che Giorgio Nebbia ha dimostrato per le tecnologie, antiche e recenti, volte a utilizzare l’energia contenuta nella luce del sole messa a disposizione gratuitamente per l’umanità e ogni forma di vita sulla Terra. Impossibile richiamare la quantità di contributi, di ricerca e di divulgazione, prodotti in circa settant’anni di attività. Una prima traccia è ricavabile dall’antologia di testi risalenti al periodo di collaborazione col GSES (Gruppo per la Storia dell’Energia Solare). Il secondo motivo discende dall’attualità innegabile, seppure inaspettata sino a pochi anni addietro, delle energie rinnovabili, tutte e quante, in modo diretto o indiretto, derivate dal sole, senza gli effetti inquinanti dei combustibili fossili o con il ricorso alla non meno inquinante energia nucleare. Ne consegue la necessità, seppure pervicacemente osteggiata, della transizione energetica, conservando per il futuro il patrimonio di fonti di energia e materie prime, anch’esse di origine solare, accumulate attraverso le ere geologiche e che la modernità contemporanea sta dilapidando, determinando emergenze incombenti come quella climatica; causando altresì guerre e disastri umanitari. L’opzione per il solare, da intendersi nelle sue molteplici forme, con piena apertura all’innovazione tecnologica, intelligente e soft, è netta quanto la coerente opposizione al nucleare, sicuramente il più grande fallimento della tecnologia industriale del Novecento: la verifica in corpore vili dell’impossibilità di oltrepassare i limiti senza distruzioni immediate e perduranti nel tempo.

La seconda sezione tematica è dedicata a un dibattito sul concetto, e i plurimi usi linguistici, di bioeconomia, in stretta connessione con quelli di economia e ecologia. È relativamente condivisa l’immagine che la cultura ecologica propugni una nuova e rinnovata sensibilità verso la natura, gli esseri viventi, l’ambiente in tutte le sue componenti, fisiche, biologiche, storiche. Assume così forma una inedita koinè, che riprende e rivivifica culture altre nello spazio e nel tempo da quella dominante. È un passaggio difficile, incerto, affidato alle scelte dei singoli e delle collettività. Ma il cambiamento di sensibilità può diventare efficace solo se accompagnato e intrecciato con conoscenze e saperi che derivano dalla ricerca scientifica, dalle acquisizioni, sempre perfettibili e modificabili, della scienza.

Su questo versante per Giorgio Nebbia è di grande rilievo l’incontro con il pensiero di Nicholas Georgescu Roegen, economista eretico che dagli anni ’70, rifacendosi alle leggi della termodinamica e al principio di entropia, introduce il concetto di “bioeconomia”, da intendersi nel senso che l’economia deve necessariamente sottostare al funzionamento che regola, su basi fisico-chimiche, l’energia, la vita, tutto ciò che esiste materialmente, ed è parte di un processo storico irreversibile. Parallelamente Nebbia sta sviluppando la sua ricerca sulla contabilità delle merci, in valori fisico-energetici e non meramente monetari. Le loro prospettive si incontrano nella critica della crescita senza fine della produzione economica, interrotta solo temporaneamente da crisi cicliche. Al contrario, per non accelerare i processi distruttivi, entropici, l’economia deve essere detronizzata dal posto assegnatole dalla civiltà capitalistico-industriale, e sottostare a principi e pratiche di salvaguardia del bene collettivo maggiore: l’ambiente di vita in costante evoluzione, i cicli naturali, la cui alterazione sistemica determina retroazioni sempre più difficili da controllare e a cui porre riparo.

La bioeconomia nell’accezione proposta colloca al centro l’ecologia, asse portante di una nuova forma di società, che non rinuncia al progresso, al sapere scientifico e tecnologico, ma lo orienta seguendo le indicazioni della bussola ecologica, al fine di alleggerire l’impatto della società sul pianeta, nella consapevolezza dei limiti, fragilità, caducità, della specie e dei singoli individui, rinunciando ai miti prometeici di dominio sulla natura. Una lezione di scienza e saggezza, dal sapore leopardiano, estranea al pensiero egemone che ne ha subito rovesciato il significato e le implicazioni. Così la bioeconomia viene intesa come la possibilità di modellare tecnologicamente la vita, facendone il nuovo motore dell’economia, l’ennesima nuova frontiera del capitale.

Una sorta di via mediana viene proposta dai fautori della sostenibilità, che mirano a conciliare economia ed ecologia, proponendo la generalizzazione dell’economia circolare. Un’impostazione rispetto a cui Nebbia è critico, sia sul piano teorico, essendo in palese conflitto con i principi basilari della bioeconomia nell’accezione di Georgescu Roegen e sua, sia per motivi pratici, per i rischi di manipolazione lessicale e effettuale dei dati di realtà. Su questi temi si sviluppa il dialogo con Alberto Berton, un work in progress inedito, con approfondimenti di grande interesse e attualità che prendono spunto dall’indubbio successo del “biologico” in campo alimentare e agricolo. Un esempio, con tutte le cautele e controlli del caso, di come l’incidenza di una crisi inaspettata, delle retroazioni negative prodotte dalla generalizzazione dell’agroindustria, abbia sollecitato un ripensamento radicale nei modi di produrre e consumare.

Al centro dell’agroecologia, intesa in senso lato, c’è l’indicazione di utilizzare al meglio le risorse locali, secondo lo slogan del “km zero”. Negli anni ’30 del Novecento l’Italia era stata un campo di sperimentazione, al netto della propaganda e dei numerosi fallimenti, nell’utilizzo delle risorse locali, in quel caso nazionali, agricole e industriali, come risposta politica del fascismo alle sanzioni internazionali per la guerra di conquista dell’Etiopia. Sotto uno stimolo esogeno, per far fronte ad uno stato di necessità, specie sul fronte delle materie prime, si inventano soluzioni alternative, talvolta geniali, ad esempio nell’utilizzo a fini manifatturieri dei prodotti agricoli.

L’interesse per la vicenda autarchica non è solo di carattere storico, essa deriva dalla critica all’insostenibilità della globalizzazione, già propagandata come vittoria finale del capitalismo su ogni altra forma economica e politica. In realtà le conseguenze sociali, politiche e ambientali della generalizzazione incontrollata del mercato “autoregolantesi” su scala planetaria, indicarono in tempi molto rapidi, culminanti nella crisi del 2008 (del tutto aperta), la necessità di frenare e invertire la rotta, da cui il fiorire di neo nazionalismi dai tratti reazionari e regressivi, incapaci tanto quanto il liberismo, di affrontare l’inaggirabile questione ambientale. Anzi essi si sono fatti portavoce del negazionismo in nome della continuazione e radicalizzazione delle politiche industriali più ottusamente distruttive. La sezione è curata da Marino Ruzzenenti che ha avuto Giorgio Nebbia come principale interlocutore per il suo originale lavoro su “L’autarchia verde” (Jaca Book, 2011).

L’ultimo, nutritissimo, gruppo di contributi sono introdotti e scelti da Giovanna Ricoveri, con Marinella Correggia, Gloria Malaspina e Giovanni Carrosio e riguardano la collaborazione di Nebbia a “Capitalismo Natura Socialismo” (CNS). Il tema centrale è quello dell’ecologia politica, ovvero della necessità sinora inevasa di tradurre in politica le indicazioni pressanti e chiarissime che emergono dalla crisi ecologica, dalla palese insostenibilità ambientale della attuale civiltà capitalistico-industriale. È impossibile dar conto della pluralità di spunti e suggestioni, dalle più minute e specifiche, alle più ardue e difficili da affrontare e risolvere. Mi limito a qualche cenno: nel pieno dell’ubriacatura sul digitale, presentato come salto tecnologico salvifico e messianico, ovvero come catastrofe culturale, la posizione di Nebbia risulta equilibrata e serena. Il www e gli sviluppi successivi offrono opportunità che debbono essere utilizzate per un ampliamento democratico della conoscenza e delle conoscenze, tumultuoso e caotico ma innegabile rispetto al classismo ed élitarismo del passato. L’attenzione critica va sviluppata su più fronti; quello che prediligeva era lo smascheramento dei miti della comunicazione, a partire dalla pretesa smaterializzazione della sfera digitale, non riuscendo a vedere o occultando i consumi energetici molto rilevanti nonché il ricorso a materie prime strategiche e insanguinate, rapinate a paesi e territori poveri, in preda a guerre alimentate dall’odierno neocolonialismo.

I conflitti ambientali sono il filo rosso degli interventi pubblicistici di Nebbia, i suoi apporti discendono dalle conoscenze fisico-chimiche, ecologiche in senso lato, che padroneggia per gli studi e i rapporti avuti lungo i decenni e che lo hanno visto interlocutore di tantissime note e meno note personalità della ricerca, al di là delle frontiere dell’ambientalismo. L’esplorazione del suo archivio offrirà molte sorprese oltre che ovvie conferme (cito a puro titolo di esempio l’intenso rapporto avuto con il biologo e genetista Franco M. Scudo). Tra i conflitti ambientali la questione che lo ha maggiormente interrogato e appassionato è quella della contraddizione irrisolta tra ambiente e lavoro, con il risvolto delle condizioni interne ai luoghi di lavoro. In termini eclatanti il conflitto doloroso e lacerante tra popolazioni, lavoratori, ambientalisti, diritto al lavoro e alla salute, è una cartina di tornasole per misurare l’inadeguatezza della politica. Presente dalle origini del processo di industrializzazione, il conflitto ambiente-lavoro, è al centro della scena, in forma esplicita o latente. Le articolate analisi che vi dedica Giorgio Nebbia sono un punto di riferimento, un lascito per il futuro.

Alla luce del presente, i nostri metri di valutazione sono costretti a cambiare, anche radicalmente: la scala delle priorità va ridefinita. Esemplifico tornando sull’epoca conclusiva del “secolo breve”. Come è stato possibile, un po’ da parte di tutti, condividere il giudizio secondo cui la fine della guerra mondiale avrebbe inaugurato una sorta di “età dell’oro” chiusasi troppo presto? Venivano in tal modo oscurati due fatti pesanti come macigni, uno estremamente palese ma rimosso, l’altro venuto alla luce progressivamente, cumulativamente, sino ad occupare sempre più la scena. In definitiva è andata in frantumi l’idea un po’ kafkiana di edificare una società del benessere sullo sfondo del terrore atomico. Abbiamo avuto sicuramente decenni di sviluppo economico, ipotecati però dal pegno pagato alla guerra totale, accantonata ma non troppo, incombente alle spalle delle tante guerre locali. Decenni di credo condiviso nella crescita industriale e dei consumi, con il risvolto a lungo banalizzato della crisi ecologica, sfociati nella vittoria del capitalismo nordamericano sul socialismo russo-sovietico, ma non sulla pragmatica variante cinese. L’umanità contemporanea si rivela antiquata in primo luogo nel persistere della cultura e della pratica della guerra, consustanziale con le pratiche di guerra alla natura.

Nella traiettoria di un impegno su più versanti, la scelta per la pace segna la discontinuità maggiore, il fine ultimo da mantenere fermo per rispettare e tradurre in pratica il punto di non ritorno segnato dalla Seconda guerra mondiale con lo sterminio su scala industriale del “nemico” e le bombe atomiche. O la preistoria finisce e con essa la violenza e il terrore nei rapporti tra le persone e i popoli oppure ogni progresso è destinato a essere travolto. L’ecologia politica poggia su due pilastri: un rapporto meno distruttivo possibile con l’ambiente, la fine della guerra come orizzonte insuperabile, decisore in ultima istanza della politica. Entrambe le opzioni appaiono utopiche e irrealizzabili. Perché gli uomini dovrebbero e potrebbero realizzare ciò che hanno sempre rifiutato, pur in una gamma diversissima di atteggiamenti e scelte? La risposta che sommessamente ma ostinatamente Giorgio Nebbia offre si può forse riassumere in questi termini: l’umanità è posta di fronte ad un aut aut, può scegliere se consapevolmente autodistruggersi o vivere in un futuro dignitoso, non idilliaco ma libero dall’oppressione verso i propri simili e nel ritrovato rispetto per la natura. La differenza rispetto al passato è tutta condensata nella conoscenza e quindi nella responsabilità: sappiamo dove siamo arrivati e cosa dobbiamo e possiamo fare, ognuno e tutti. Giorgio Nebbia, disincantato e realista, non era pessimista: il pessimismo è un alibi.

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