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Chi si rivede: la classe operaia?

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Recensione di Sergio Fontegher Bologna, Alcune note sulla questione dei ceti medi e dell’estremismo di destra in Italia dal dopoguerra a oggi, Acropolis, Trieste 2024 e di Pier Giorgio Ardeni, Le classi sociali in Italia oggi, Laterza, Bari-Roma 2024.

Ho lasciato il sindacato da oltre trent’anni, ma ho sempre seguito con attenzione quanto accadeva in quel mondo, che poi è quello dei lavoratori che con la loro fatica fanno funzionare la società. Da troppo tempo soffrivo per le rare e poco partecipate manifestazioni, in una città, Brescia, dove nel 1983, unica volta nella storia del Giro d’Italia, la tappa fu bloccata in piazza Loggia dai metalmeccanici in sciopero e non partì.

Dunque, anche quel venerdì 29 novembre, sciopero generale di Cgil e Uil, andai al luogo previsto per il concentramento con scarse aspettative, visto che l’anno prima, con Landini a tenere il comizio, in piazza Duomo si erano ritrovate poche centinaia di persone. La sorpresa e l’emozione furono enormi vedendo una folla di migliaia di lavoratrici e lavoratori, molti giovani, volti radiosi e determinati, un clima caldo che mi ricordava i gloriosi anni Sessanta e Settanta. Dopo decenni di silenzio la classe operaia tornava a farsi sentire e a infastidire il potere, stando alle reazioni scomposte e astiose dei mass media di sistema e dei nostri governanti. Pochi, anche nel variegato mondo “alternativo”, sembrano aver colto la novità, tra costoro Franco Berardi Bifo, su “Comune-info” del 29 novembre, E’ il momento della rivolta sociale? (https://comune-info.net/e-il-momento-della-rivolta-sociale/).

Originale e intelligente il contributo che Sergio Bologna ha voluto offrire a quella storica giornata pubblicando su “il manifesto” del 30 novembre un elzeviro, Solo il conflitto può frenare la discesa all’inferno, in cui, sulla base di dati provenienti dal mondo delle imprese, certifica che anche nel 2023 “il travaso di ricchezza dal lavoro al capitale è stato pazzesco”, che circa metà dei contratti di lavoro da tempo scaduti non vengono rinnovati, che aumenta il lavoro precario in certi casi ridotto a forme di schiavismo. C’è da pensare che in una simile situazione il 29 novembre non sia stato un fuoco di paglia.

Sono passati cinquant’anni dal 1974, quando Sylos Labini fotografava la stratificazione di classe di allora e si invertiva la tendenza del ciclo di lotte operaie del decennio precedente, da ascendente a declinante. Ebbene, i due libri che stiamo presentando ci confortano nella speranza che in questo 2024 sia iniziata per i lavoratori la risalita dall’inferno.

Il testo di Sergio Bologna, agile ma denso di riflessioni stimolanti, ha forse un titolo fuorviante che sembrerebbe ammiccare a temi (ceti medi ed estremismo di destra) abbondantemente frequentati dalla pubblicistica di sistema. In verità il libro è un percorso rapido sugli ottant’anni della Repubblica, sulle difficoltà e contraddizioni della sinistra a comprendere i cambiamenti in corso e prima ancora a costruire una memoria collettiva della storia del fascismo, che pure fu un ventennio di modernizzazione reazionaria, ma che, non di meno del nazismo, fu responsabile dello scatenamento della seconda guerra mondiale, dei crimini di guerra commessi dall’esercito italiano nei Balcani, del razzismo e dell’antisemitismo sfociati nella partecipazione diretta al genocidio degli ebrei italiani.

Si sofferma poi sul 1974, la fase immediatamente successiva alla prima crisi petrolifera, quando buona parte del dibattito fu assorbito dalla pubblicazione del testo di Sylos Labini (pp. 28-30) di cui si occuperà diffusamente l’altro libro che andremo a recensire. Quel testo viene valutato nell’insieme come portatore di un messaggio conservatore, anche perché non aveva compreso il passaggio di fase in corso: “Sylos non aveva capito le conseguenze geopolitiche di quello che stava succedendo sotto i suoi occhi con la crisi petrolifera del 1973, non aveva capito che questo metteva in crisi proprio la combattività operaia; che iniziava un suo lungo passaggio dalla fase offensiva a quella difensiva (ma nemmeno il sindacato e i gruppi extraparlamentari lo avevano capito)” (p. 31).

Cruciali, poi, furono gli anni Ottanta e Novanta, con la vittoria dei populismi di destra, Lega e Forza Italia, interpreti della terziarizzazione e finanziarizzazione dell’economia, di un nuovo ceto medio dinamico e aggressivo, poco incline alla fedeltà fiscale; quei populismi, secondo l’autore, avrebbero “spianato la strada all’estremismo di destra erede diretto della Repubblica di Salò” (p. 51).

D’altro canto, le politiche del centro-sinistra di adattamento ai nuovi processi in atto risposero flessibilizzando i rapporti di lavoro, aprendo la strada alla creazione di “un nuovo strato sociale di popolazione ‘precaria’, caratterizzato dallo scivolamento verso il basso sia nelle componenti classificabili come ceto medio che in quelle classificabili come classe operaia” (p. 56). Nel contempo a partire dal biennio cruciale ’92-’93, privatizzazioni e accordi capestro Sindacati confederali, Confindustria e Governo, “il sindacato ha cambiato pelle” diventando un’appendice subalterna del sistema. “Il risultato di questa trasformazione del sindacato in Italia è che i salari reali negli ultimi trent’anni sono calati del 2,9%” (p. 72), unico caso nell’OCSE. Nelle conclusioni Bologna lancia giustamente l’allarme per una situazione di degrado sociale sempre più intollerabile, che certamente il governo di destra non è in grado di affrontare: “c’è qualcosa di più preoccupante del potere di Giorgia Meloni (che comunque è una persona di buon senso e come professionista della politica molto dotata) ed è lo scivolamento di una popolazione verso forme di inciviltà” (p. 91); “lo sfruttamento della mano d’opera al punto da creare situazioni simil-schiavitù” ( p. 92) è una realtà che “ambienti del padronato italiano ritengono tollerabile” (p. 93).

Allora, forse, “ribellarsi è giusto”, come sembrano fare i lavoratori in questi ultimi tempi.

Il testo di Ardeni è un gradevole e molto documentato trattato di sociologia. Ricco di dati ma anche di importanti riflessioni critiche, tratteggia l’evoluzione della stratificazione delle classi sociali nell’Italia dal dopoguerra ad oggi. In particolare in questo excursus storico, si sofferma sul famoso e classico saggio di Paolo Sylos Labini, uscito cinquant’anni fa, (Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, Laterza, 1974). Qui, Sylos Labini riassunse un secolo di studi sociologici e politici riprendendo la classificazione fatta propria anche dal marxismo secondo cui la suddivisione in classi traeva origine dalla proprietà dei mezzi di produzione e di generazione del reddito, dal lavoro, ovvero dalla “professione”, e quindi, secondariamente, dal grado di istruzione e di qualificazione, fondamentale nel determinare l’accesso alla professione, nonché dal controllo politico e amministrativo del processo di accumulazione del capitale. Così riassumeva la stratificazione rilevata in Italia: la borghesia, formata dai proprietari di grandi aziende e capitali fondiari e immobiliari, dagli imprenditori e alti dirigenti nonché dai liberi professionisti; la piccola borghesia autonoma, composta da coltivatori diretti, lavoratori in proprio, artigiani e commercianti; la piccola borghesia impiegatizia, costituita da impiegati pubblici e privati, tra cui insegnanti e addetti alla sanità; alcune categorie particolari della piccola borghesia, come i militari e i religiosi; la classe operaia: formata da braccianti e salariati fissi in agricoltura, dagli operai dell’industria e dell’edilizia e da quelli del terziario. A questa classe poteva essere associato anche il cosiddetto sottoproletariato, composto da coloro che restano per lunghi periodi di tempo fuori dalla sfera di produzione in quanto disoccupati. Le classi, quindi, venivano definite nell’ambito della sfera della produzione e del lavoro, più che in quella del reddito che, tuttavia, restava un elemento importante per la distinzione delle classi non solo per il suo livello ma per il modo in cui viene ottenuto.

Un tempo vi era corrispondenza tra la classe sociale e le condizioni di vita, legate al reddito: lussuose per la borghesia abbiente, dignitose per le classi medie, povere per le classi lavoratrici. Le possibilità di passare da una classe all’altra erano ridotte e il conflitto sociale nasceva primariamente dalla domanda delle classi lavoratrici di migliori condizioni di vita e redditi più alti. Il nostro tratteggia, poi, l’evoluzione che si è verificata nel tempo: i redditi sono aumentati, anche se non per tutti allo stesso modo, la stratificazione sociale si è fatta più articolata, la mobilità sociale è migliorata; le classi medie si sono allargate, il conflitto sociale è diminuito; le classi medio-alte, però, hanno a quel punto preteso meno vincoli, per ottenere di più, perché le classi medie e popolari si stavano avvicinando; e i redditi alti hanno ripreso ad aumentare, le disuguaglianze si sono moltiplicate, non essendo più solo legate alla classe e al reddito, lungo altre dimensioni, fino al punto da far ritenere che la classe di origine non conti più.

Cosicché Tony Blair nel 1999 poté sentenziare che ormai siamo un’enorme classe media che comprende milioni di persone che si erano sempre considerate parte delle classi lavoratrici, omologate dal medesimo stile di vita, realizzando una “società senza classi”, una concezione già entrata nel discorso politico se non nell’immaginario comune. Come non ricordare la formula di Margareth Thatcher per cui “la società non esiste, esistono gli individui”. Ed in effetti, con il neoliberismo, nasciamo tutti con l’opportunità di affermarci nella vita, di realizzare i nostri progetti, di ottenere successo se siamo bravi a meritarlo. E se non ce la facciamo è colpa della nostra ignavia. Ebbene nella seconda parte di questo volume l’autore demolisce questa impostura ideologica che ha dominato in questo primo ventennio del nuovo secolo, con una messe di dati e di informazioni quantitative e qualitative che ci restituiscono una realtà ben diversa.

Il libro negli ultimi capitoli offre una sintesi riguardo alle classi sociali in Italia, ricostruendo la struttura di classe oggi come risulta dai dati disponibili al 2023.  Ciò che emerge è che la classe operaia pesa ancora per un quarto, pur divisa tra una componente “garantita” e una “precaria”, che la classe media è certamente maggioritaria, ove quella medio-bassa è più rilevante e anch’essa divisa tra garantiti e precari, mentre quella medio-alta, insieme alla classe alta, pesa circa un quarto. La classe operaia esiste ancora, quindi, e “non siamo tutti classe media”. Questa struttura di classe, però, appare sostanzialmente ingessata, ormai inalterata dagli anni Novanta. Un paese fermo, pertanto, la cui economia non cresce più e la cui struttura sociale è cristallizzata. In termini di reddito, invece, la middle class appare essersi ridotta, mentre sono le fasce alte a guadagnarci di più. La mobilità tra le classi di reddito mostra anch’essa un certo ingessamento, con una prevalenza della mobilità discendente su quella ascendente. Tuttavia, la middle class appare essersi estesa a quasi tutte le classi sociali dal punto di vista degli stili di vita e dei consumi, delineando, però, una frattura in aumento tra redditi alti e redditi bassi. La distribuzione del reddito mostra che non ci sarebbe più una corrispondenza univoca tra posizione lavorativa o classe sociale e reddito, a causa di due fattori determinanti: il capitale accumulato, anche nella forma di beni immobili, e il livello di istruzione. Quest’ultimo, però, è divenuto nel tempo un motore di mobilità sociale molto meno potente di quello che era stato in passato, superato dall’appartenenza di classe. Tanto che oggi, se per salire di classe non basta più il passaporto educativo, allora si può rinunciare al titolo di studio. Il livello di istruzione dipende dal reddito e dalle aspettative e aspirazioni e varia con la famiglia di origine e l’orientamento culturale familiare, ovvero dipende dalla classe sociale. Più basso è il reddito, meno si investe in istruzione.

Non mancano, infine, nelle conclusioni alcune considerazioni circa la rappresentanza politica delle classi, la loro rappresentazione nel discorso pubblico e l’evoluzione recente del quadro politico italiano in relazione alla struttura sociale descritta. Ovviamente non si può caricare su un pur bravo sociologo un compito che la sinistra politica non sa svolgere. Qui viene posto il tema cruciale: dato che le classi esistono ancora, pur ridefinite nei contenuti e non più simili a quelle di un tempo, la politica può continuare a ragionare come se fossero permanenti la frammentazione individualistica del corpo sociale e il venir meno della stessa valenza della classe?

E aggiungiamo noi: se si confermasse il risveglio della classe operaia e dei lavoratori, quale politica è attrezzata oggi a raccoglierne le istanze?

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