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La vittima invisibile
L’ambiente è stato descritto come una vittima silenziosa, ma lo si potrebbe anche definire vittima invisibile, della guerra. La metrica convenzionale di misura dell’impatto di un conflitto armato, che giustamente vaglia prima di tutto il numero di vite perdute, ferite o comunque spogliate di ogni diritto e bene di sussistenza, non rende in forma completa il danno causato. L’impatto ambientale delle guerre – o più precisamente dell’industria bellica, anche quando solo prepara e raffina le armi per i combattimenti – inizia molto prima di esse. Le guerre sono catastrofi ambientali con effetti che perdurano ben oltre la fine degli scontri e in diversi casi, come per l’uso di ordigni nucleari o chimici, le conseguenze ambientali non hanno fine. Non viene solitamente riconosciuto che una piccola ma potente parte della popolazione è responsabile di un impatto ambientale senza precedenti: i militari sono la categoria professionale umana più inquinante e l’apparato tecnologico militare è la più tossica delle attività umane.
Tutte le armi e i mezzi militari utilizzati durante i conflitti lasciano un’eredità pericolosa. Mine, munizioni a grappolo e altri residuati esplosivi possono lungamente limitare l’accesso ai terreni agricoli e inquinare il suolo e le fonti d’acqua con metalli e materiali tossici. Nei conflitti più gravi, sono abbandonati grandi volumi di rottami militari, che possono contenere una serie di materiali inquinanti, contaminando il suolo e le falde acquifere ed esponendo coloro che vi lavorano a rischi sanitari acuti e cronici. Navi, sommergibili e infrastrutture petrolifere offshore distrutte o danneggiate possono causare inquinamento marino. Le armi incendiarie come il fosforo bianco non solo sono tossiche, ma possono danneggiare gli habitat attraverso esplosioni e incendi a distanza di anni dal loro rilascio. Anche se ora è limitato, l’uso diffuso di defoglianti chimici fra gli anni ’50 e ’70 del Novecento ha danneggiato la salute pubblica ed ecologica in vaste aree del Vietnam1 e della Corea, nonché dei veterani che parteciparono alle operazioni militari e che percepiscono un’indennità di malattia riconosciuta dal governo solo dopo lunghe battaglie legali.
La guerra moderna ha un impatto devastante sull’ambiente quindi anche indirettamente, per il massiccio uso di risorse tecnologiche, per il tipo di armi utilizzate sempre più sovente a guida autonoma, per la tossicità dei loro residui (rilasciati, ribadiamo, anche durante la produzione e sperimentazione) e per l’intensità delle azioni di “dominio rapido” (Shock and Awe) basate sull’uso di una potenza travolgente per distruggere, oltre alle difese, anche la volontà di opposizione del nemico.
Di recente è stata sollevata la questione dei combustibili usati per la guerra e del loro peso sul cambiamento climatico2. Le attività militari sono le maggiori consumatrici di fonti fossili e il loro carico cresce con il moltiplicarsi di aerei, navi e mezzi corazzati. All’inizio della II Guerra con l’Iraq, nel 2003, i comandi militari USA stimarono che ci sarebbe stato bisogno di più di 150 milioni di litri di benzina per tre settimane di combattimento: più della quantità totale utilizzata dagli Alleati nei quattro anni della I guerra mondiale. Nel 2006, l’aviazione USA consumò tanto petrolio quanto quello usato in tutta la II guerra mondiale: 9,8 miliardi di litri. L’apparato militare USA consuma 100.000 metri cubi di petrolio (1 milione di barili) al giorno impiegando 1,4 milioni di persone, lo 0,0002% della popolazione mondiale.
Poiché il cambiamento climatico accresce l’imperativo di un attivismo ponderato e strategico, è importante riconoscere la responsabilità smisurata delle forze armate nelle emissioni di gas serra e, più in generale, nella distruzione dell’ambiente3.
Le emissioni di CO2 delle sole forze armate dei paesi più potenti (USA, CINA, Russia) sono superiori a quelle di molti altri Paesi messi insieme. Secondo le stime dell’Osservatorio su Conflitti e Ambiente4, le forze armate sono responsabili del 5,5% di tutte le emissioni di gas serra a livello globale, tuttavia – anche per censura – i rapporti sulle emissioni militari sono raramente esaminati alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici.
Le forze armate hanno bisogno di grandi aree di terra e di mare, sia per le basi e le strutture sia per le esercitazioni e l’addestramento. Si ritiene che i terreni militari coprano tra l’1 e il 6% della superficie terrestre globale generando emissioni, alterazioni del paesaggio e degli habitat terrestri e marini, inquinamento chimico e acustico. In molti casi si tratta di aree ecologicamente importanti. Nel nostro paese, la Sardegna paga un costo territoriale e sanitario altissimo, come testimonia l’assemblea popolare costituita da comitati, collettivi, associazioni, realtà politiche e individui che si oppongono all’occupazione militare della Sardegna con mobilitazioni che si susseguono da decenni, anche in conseguenza di un vasto incendio causato dall’aeronautica tedesca durante un’esercitazione5.
Un’importante opportunità di lavoro unitario per i movimenti pacifisti e ambientalisti sta nell’affrontare questa eredità tossica e smantellare il mito del militarismo come fonte di valori anche culturali. Mantenere “l’efficienza bellica dell’apparato militare” significa addestrare consumando ingenti risorse anche in tempo di pace. I veicoli militari, gli aerei, le navi, gli edifici e le infrastrutture richiedono energia il più delle volte ricavata dal petrolio mentre “l’efficienza energetica dell’apparato militare” è bassa per la necessità di potenza a essa associata.
La guerra come devastazione
Se dal punto di vista sociale la guerra è un dissolvente totale – che non permette la conservazione integra di nessun diritto democratico, dalla partecipazione nei processi decisionali alla libera informazione, dalla libertà di dissenso e di obiezione al servizio militare all’accesso alle fonti di energia, alle risorse critiche, alla libera circolazione nei territori – fin dalle origini le cronache di guerra ne hanno testimoniato anche le conseguenze sul territorio e perfino le tattiche belliche di distruzione dell’ambiente: avvelenamenti dei pozzi e delle falde idriche, distruzione di dighe, uso di materiali infetti contro i nemici. La guerra è soprattutto distruzione e come nel tempo sono cambiate le tecnologie, le vittime e le tattiche belliche così è cambiata la scala della distruzione. È difficile stabilire un punto di soglia oltre il quale la guerra all’ambiente ha superato per danni arrecati i danni alla popolazione, tuttavia la guerra di secessione americana (1861-1865) costituisce un riferimento storico per l’uso di tecnologie (i primi sottomarini e palloni aerostatici) e tattiche belliche devastanti (incendi di piantagioni, devastazioni di intere città, rappresaglie).
Anche oggi, gravi incidenti pur in assenza di combattimenti fra eserciti sono causati quando impianti industriali, petroliferi o energetici vengono danneggiati o interrotti deliberatamente o inavvertitamente (come effetto collaterale). In molti casi, gli attacchi agli impianti petroliferi, industriali o per la produzione di energia sono utilizzati come arma, per inquinare vaste aree e diffondere il terrore – più avanti torneremo sulle minacce costituite dal conflitto in corso rispetto alla centrale nucleare di Zaporizhzhia, la principale in Ucraina con 6 reattori e potenza di oltre 5700 MW, la più elevata produzione elettrica in Europa, tra le più grandi del mondo.
Nel mondo, fra i territori più colpiti dalla devastazione bellica c’è l’Iraq, passato da un conflitto all’altro negli ultimi decenni in un clima di guerra civile e a lungo sotto embargo internazionale. Gli anni di guerra con l’Iran (1980-1988) hanno lasciato in eredità interi villaggi distrutti, trincee e fortificazioni abbandonate, 1500 km di confini minati, residui di armi chimiche. Scenari analoghi a quelli della I Guerra Mondiale sugli altopiani italiani nel Nord-Est assieme a cannoni, proiettili, chilometri di filo spinato abbandonati sulle Dolomiti del Brenta e dell’Adamello, che ancora inquinano i ghiacciai e i torrenti 6
Nelle acque del Golfo Persico giacciono affondati intere flotte e impianti petroliferi. Nel 1991 la ritirata strategica di Saddam Hussein dal Kuwait si accompagnò a uno dei peggiori disastri ambientali di sempre, con 600 pozzi petroliferi in fiamme per mesi. Alla fine di quel conflitto, la sistematica distruzione con bombardamenti da parte della coalizione guidata dagli USA Desert Storm delle infrastrutture di Baghdad comprese quelle sanitarie provocava quotidianamente il versamento nel Tigri di 300.000 metri cubi di liquami non trattati.
Tra il XX e il XXI secolo le perdite umane si sono spostate dai militari ai civili, con una stima attuale di 9 vittime civili per ogni soldato caduto. Anche le zone di battaglia si sono spostate dai campi aperti ai centri urbani e rurali, con diaspore e crisi sanitarie per le contaminazioni dell’acqua e del terreno, le scarse condizioni igieniche e le brutali condizioni di vita nei campi profughi.
Danni ambientali durante le occupazioni
Le occupazioni possono essere relativamente brevi o durare decenni. Mentre gli Stati occupanti hanno l’obbligo di proteggere la popolazione occupata, i loro obblighi ambientali sono meno definiti. Come nel caso dei conflitti, le occupazioni possono ostacolare lo sviluppo sostenibile, ad esempio limitando l’accesso a materiali o tecnologie, o agendo come barriera agli investimenti. I programmi e i progetti ambientali preesistenti possono essere ridotti o sostituiti da una nuova amministrazione. La mancanza di investimenti e di sviluppo nei territori occupati, può portare al lento collasso delle infrastrutture ambientali critiche, che possono essere danneggiate o degradate dai periodi di violenza.
Una torre per la raccolta dell’acqua potabile giaceva in rovina a Gaza dal 2014, ben prima dell’orribile escalation di violenza scatenata dalla strage di Hamas del 7 ottobre 2023 e che ha portato la Corte internazionale di giustizia dell’Aja a ipotizzare un ‘plausibile genocidio’ per l’ingiustificabile ritorsione del governo israeliano. Inoltre, la gestione iniqua delle risorse è comune alle occupazioni, con l’accaparramento e l’estrazione eccessiva di risorse, sia di acqua che di minerali.
Per esempio, ancor prima dell’ultimo conflitto in medio Oriente, secondo la FAO la situazione della sicurezza alimentare risultava particolarmente preoccupante in Siria – così come negli stati limitrofi che hanno dovuto accogliere più di 2 milioni di rifugiati – Iraq, Libia, Yemen e Palestina.
Anche in Ucraina, secondo il World Food Program, la guerra ha avuto conseguenze drastiche sull’approvvigionamento di cibo, sia per le persone all’interno del Paese sia per quelle di tutto il mondo che dipendono dalle sue enormi forniture di grano. L’agricoltura ha subito danni e perdite per circa 80 miliardi di dollari, con un impatto devastante per quasi un terzo della popolazione ucraina che lavorava in questo settore vitale e per i prezzi degli alimenti che continuano a salire a causa dell’interruzione della produzione e delle linee di rifornimento. Molte famiglie nelle zone occupate a est e nel sud del paese non hanno ora un accesso affidabile a cibo nutriente.
Anche le misure adottate dalla popolazione occupata per opporsi all’occupante, e le contromisure adottate da quest’ultimo, possono portare a danni ambientali. L’aumento della presenza militare può avere un impatto sul paesaggio attraverso i movimenti dei veicoli o le aree di addestramento, oppure attraverso la costruzione di muri e recinzioni che possono interrompere i movimenti della fauna selvatica o separare le persone dalle risorse da cui dipendono. La cattiva gestione dei rifiuti nelle basi militari, può danneggiare la salute pubblica e l’ambiente e le risposte militarizzate ai problemi di sicurezza possono creare danni ambientali più gravi di quanto non farebbero le risposte civili.
Questi crimini non sono commessi solo nei teatri di guerra e durante i conflitti ma possono estendersi ovunque la presenza militare diventi perdurante: non ci si può dimenticare della devastazione dovuta a infrastrutture di trasporto sul territorio in Val di Susa in Piemonte, con zone occupate militarmente (Bruzolo, Bussoleno, Chiomonte, Giaglione, Salbertrand, San Didero, Susa oltre a Torrazza Piemonte sempre in provincia di Torino) per questioni di sicurezza legate ai cantieri del Tunnel TAV Torino Lione. La Environmental Protection Agency (EPA) statunitense afferma che 900 dei 1300 siti inquinati degli Stati Uniti sono basi militari o luoghi connessi. Il dato non comprende i depositi nucleari e neppure le circa 1000 basi USA sparse nel mondo, dove l’esercito non è responsabile della tutela ambientale. Residui radioattivi e chimici, esplosivi, solventi, pesticidi, olii, metalli, risultano gettati in pozzi o percolati dai contenitori, sepolti in discariche non protette, abbandonati nei campi. Ritorniamo in Sardegna, dove nessuno ha mai stimato i danni dell’esercitazione Nato Trident Juncture dell’ottobre 2015, la più grande dalla fine della Guerra Fredda: 36mila militari e centinaia di navi e arei, fra cui 30 F16, Amx, Eurofighter e Tornado dell’aeronautica italiana.
Devastazioni nucleari
L’uso delle bombe nucleari merita un discorso a sé. Limitandoci all’inquinamento, dal primo test nel 1945 sono stati fatti esplodere più di 2000 ordigni sperimentali in superficie, sott’acqua, sotto terra, nello spazio. Sono stati testati gli equivalenti di 29.000 bombe di Hiroshima, che hanno disperso più di 9 tonnellate di plutonio. La maggior parte dei minerali di uranio estratti per i programmi nucleari USA sviluppati dopo la seconda guerra mondiale provenivano da un’area del New Mexico prossima alle terre dei Navajo, dove vi sono più di 1000 siti di scavo minerario, o in cui sono stati abbandonati scarti, che sono ora fonte di contaminazione di acqua e suolo.
L’uranio estratto per le prime tre bombe nucleari, quella dell’esperimento Trinity di Los Alamos del 16 luglio 1945 raccontato nel film Oppenheimer, di Christopher Nolan e le due sganciate sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, rispettivamente il 6 e il 9 agosto 1945, provenivano invece dall’Union-Minière du Haut-Katanga, la più grande società dell’allora Congo belga, grande quanto l’Europa, per molti anni proprietà privata del re Leopoldo II che lo aveva sfruttato imponendo un regime coloniale ferocissimo. Una delle miniere katanghesi, quella di Shinkolobwe, era ricca di uranio e da questa, dopo il bombardamento di Pearl Harbour, oltre mille tonnellate di minerali contenenti uranio arrivarono a destinazione negli USA per scopi bellici.
Inoltre, quando fu il momento di testare la bomba, il team di Trinity scelse un luogo nella parte meridionale del deserto ritenendo che il terreno pianeggiante e i venti deboli avrebbero limitato la diffusione delle radiazioni. Ma nel raggio di 200 km su quel territorio viveva circa mezzo milione di persone. Non furono avvisati né fu mai detto loro di allontanarsi. I dati sull’esposizione di quei civili non furono mai raccolti. Questa disattenzione verso le comunità coinvolte sarebbe diventata una caratteristica dei più di 200 test nucleari statunitensi in atmosfera il cui fall-out, la ricaduta radioattiva, coinvolse milioni di persone.
I dati del National Cancer Institute statunitense mostrano che le ricadute dei test nucleari colpirono pesantemente anche gli statunitensi. Il Nobel per la medicina 1995, Edward Bok Lewis fu fra i primi a occuparsi degli effetti delle esplosioni atomiche. Nel 1957 evidenziò correlazioni fra l’esposizione alle radiazioni dei sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki e l’insorgenza di leucemie. Approfondendo l’analisi, stimò che il fall-out avesse causato un aumento del 5-10 % delle leucemie indotte da radionuclidi (circa il 20 % del totale) su scala mondiale. L’intera popolazione USA ha registrato un aumento del tasso di leucemia durante i test nucleari in atmosfera e poi una sua diminuzione con la loro messa al bando.
Va ricordato che se molte armi convenzionali hanno componenti tossiche, altre sono anche radioattive e come accaduto con le operazioni militari condotte durante la I guerra del Golfo del 1991 che vide l’impiego di 290 tonnellate di proiettili di uranio impoverito così come dalla NATO durante la crisi del Kosovo del 1999, hanno causato gravi residui di radioattività all’ambiente naturale e alla popolazione. Nei Balcani i danni si sono estesi ad altri paesi dell’Europa sud-orientale, soprattutto in Bosnia, e Serbia, e nel tempo hanno colpito anche i militari che hanno partecipato alle operazioni militari con la coalizione Nord Atlantica (per l’Italia, si vedano gli esiti della Commissione parlamentare di inchiesta sui casi di morte e di gravi malattie che hanno colpito il personale italiano impiegato in missioni militari all’estero, istituita dal Senato nel 2004).
Guerre e centrali nucleari
Il conflitto in Ucraina, infine, per la prima volta nella storia – come ammonisce Mario Agostinelli dal suo blog sul Fatto Quotidiano – mostra che “una guerra con armi avanzatissime, si sta svolgendo in presenza di impianti e infrastrutture nucleari, ponendoci di fronte ad un nuovo tipo di rischio per la sicurezza”. I combattimenti “attribuiti ora all’una ora all’altra parte in conflitto” non hanno risparmiato nemmeno la centrale nucleare di Zaporizhzhia – posta poco sopra il Mar nero, quasi alla foce del Dnepr, lo stesso fiume che raffreddava la centrale di Chernobyl poche decine di km a nord di Kiev, “la più potente esistente nel nostro continente. Pur non essendo più in funzione i suoi sei reattori, tutta l’enorme carica di materiale radioattivo contenuto nei noccioli e nei depositi potrebbe essere rilasciato e disperso a seguito del lancio di potenti testate montate su droni o bombardamenti penetranti con esplosivo tradizionale”. Agostinelli mette in guardia sulla possibilità di un attacco deliberato alle centrali nucleari come atto di guerra. Anche se fra le potenze nucleari la sola Cina esclude l’uso del first strike, con un attacco preventivo e a sorpresa con l’impiego dell’atomica, è pur vero che “sia in Ucraina che in Israele ed Iran esistono grandi impianti nucleari civili,la cui fusione e dispersione catastrofica potrebbe essere provocata da un loro bombardamento con potenti e mirate armi convenzionali. Un first strike dissimulato, a cui seguirebbe una risposta annientatrice su scala globale: un Armageddon imprevisto”.
Il pericolo non incombe solo sull’Ucraina: “Anche nell’altra guerra grande in corso in Medio Oriente, l’attacco israeliano a Isfahan – sede di impianti nucleari iraniani – per quanto a livello dimostrativo, ma assai allusivo nel suo significato, segnala una strategia bellica che non avevamo mai messo in conto come aspetto ordinario: minacciare un incidente ad un sito nucleare, con tutto il corollario di accessori attinenti al ciclo di arricchimento del materiale fissile”. Così prosegue Agostinelli: “Non possiamo dimenticare che la densità energetica di cui sono dotati i reattori civili, sebbene adeguatamente moderati durante il loro funzionamento e controllati lungo il loro ciclo di vita, è di un ordine di grandezza non molto inferiore di quello delle testate nucleari e che, se venisse sprigionata simultaneamente in un’azione di guerra, innescherebbe un effetto catastrofico. A maggior ragione, quindi, ed a partire da queste realtà sotto i nostri occhi, evapora definitivamente il concetto di guerra giusta, dato che il suo esito concreto risulterebbe nell’annientamento non tanto del nemico, ma, anche a seguito di inevitabili ritorsioni, dell’esistenza su larga scala dell’intero vivente. Nessuno può plausibilmente trarre utilità o ottenere alcun vantaggio militare o politico da attacchi contro gli impianti nucleari: solo una de-escalation di fatto e per via diplomatica può tener testa al pericolo che incombe”7.
Quel che resta delle guerre
Sostenere e rinnovare le attrezzature e i materiali militari comporta costi di smaltimento continui, con implicazioni per l’ambiente. Non sono solo le armi nucleari e chimiche più pericolose a creare problemi ambientali durante il loro ciclo di vita. Lo stesso vale anche per le armi convenzionali, in particolare quando vengono smaltite convenzionalmente tramite combustione o detonazione a cielo aperto. Storicamente, grandi quantità di munizioni in eccesso e di armi chimiche sono state scaricate in mare.
Una storia di scarsa sorveglianza ambientale ha lasciato a molti paesi gravi problemi d’inquinamento militare, con impatti sulla salute pubblica e ingenti costi per le bonifiche, che fra l’altro continuano a crescere con l’identificazione di nuovi inquinanti emergenti come i famigerati PFAS (sostanze perfluoro alchiliche) ignifughi e impermeabili impiegati nell’industria bellica. Questi retaggi sono un problema che riguarda soprattutto i territori intorno alle basi militari, in patria e all’estero, dove – per esempio – gli accordi unilaterali della NATO e degli USA con le nazioni ospitanti possono ridurre la sorveglianza ambientale.
Si veda a questo proposito la bella ricerca che racconta le vicende della base per sottomarini nucleari stabilita nel 1972 dalla Marina statunitense nell’arcipelago della Maddalena, ancora in Sardegna al largo della costa nord-orientale8. A differenza delle centrali nucleari, ben visibili, la mobilità e l’invisibilità dei sottomarini hanno contribuito a creare un’ambivalenza sulla loro natura, perpetuando l’idea di eccezionalismo nucleare. Queste fonti mobili di pericolo nucleare rappresentano una sfida particolare sia per le valutazioni degli esperti sia per la comprensione del rischio da parte dell’opinione pubblica, mentre le dinamiche sociali di potere condizionano anche attraverso la censura l’esito delle controversie tecnopolitiche.
Indirettamente, gli alti livelli di spesa militare distolgono risorse dalla soluzione dei problemi ambientali e dallo sviluppo sostenibile mentre le tensioni internazionali (alimentate anche dall’industria militare) riducono le opportunità di cooperazione sulle minacce ambientali globali, come l’emergenza climatica. È inoltre importante considerare come l’eccezionalità delle politiche di sicurezza e il militarismo siano gli strumenti di propaganda più adattati a garantire l’accesso e il controllo non democratico di risorse naturali come petrolio, gas, acqua e metalli.
Se la principale minaccia alla sicurezza mondiale nel XXI secolo è il degrado ambientale, opporsi alla distruzione delle risorse e al loro sfruttamento massiccio per la macchina tecno-industrial-militare delle guerre, è una priorità di pace.
1 Si veda uno straordinario lavoro di indagine e ricerca sulla contaminazione da diossine lasciata dal defogliante Agent Orange usato in Vietnam dagli Usa: Hatfield, Agent Orange Reports, Agent Orange Reports and Presentations | Hatfield Consultants (hatfieldgroup.com).
2 E. Camino, Ambiente e guerra, Centro Studi Sereno Regis, Torino 20 febbraio 2023. https://serenoregis.org/2023/02/20/ambiente-e-guerra/.
3 Sull’impatto ambientale del militarismo statunitense si veda H. P. Hynes, The “invisible casualty of war”.The environmental destruction of U.S. militarism”, in “DifferenTakes”, N. 84, (2014). https://traprock.org/wp-content/uploads/2014/06/Militarism-and-the-Environment.pdf.
4 Conflict and Environment Observatory. https://ceobs.org/.
5 A Foras. Contra a s’ocupatzione militare de sa Sardigna. https://aforas.noblogs.org/.
6 V. Lencioni et al. Metal enrichment in ice-melt water and uptake by chironomids as possible legacy of World War One in the Italian Alps, in “Chemosphere”, Vol. 340, (2023), Nov. https://doi.org/10.1016/j.chemosphere.2023.139757.
7 M. Agostinelli, Zaporizhzhia come obiettivo militare: qual è la situazione e cosa si rischia con i continui blackout, in “ilfattoquotidiano.it”, 10 aprile 2024, https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/04/10/zaporizhzhia-come-obiettivo-militare-qual-e-la-situazione-e-cosa-si-rischia-coi-continui-blackout/7508289/ e ID, Le guerre in presenza di impianti nucleari sono un nuovo rischio per la sicurezza, in “ilfattoquotidiano.it”, 27 aprile 2024, https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/04/27/le-guerre-in-presenza-di-impianti-nucleari-sono-un-nuovo-rischio-per-la-sicurezza/7522700/.
8 D. Orsini The Atomic Archipelago. US Nuclear Submarines and Technopolitics of Risk in Cold War Italy, Pittisburg, University of Pittsburgh Press, 2023.