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“I più pessimisti erano troppo ottimisti”. Intervista a Jean-Baptiste Fressoz

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Jean-Baptiste Fressoz ha pubblicato nel gennaio 2024 presso la collana “Anthropocène” dell’editore parigino Seuil l’opera Sans transition. Une nouvelle histoire de l’énergie. Questa intervista del maggio 2023 pubblicata sulla rivista ambientale on line www.terrestres.org anticipa le argomentazioni di fondo del libro. Sullo stesso tema si può vedere anche la bella animazione Energies: transition ou addition? curata dallo stesso Fressoz per la nuova esposizione permanente sulla crisi climatica della Cité des sciences et de l’industrie di Parigi [https://vimeo.com/828562218].

Hai recentemente pubblicato una serie di articoli che mettono in discussione la nozione di transizione energetica, dimostrando in particolare che questa nozione distorce il modo in cui pensiamo alle trasformazioni necessarie per affrontare il cambiamento climatico. Puoi illustrarci le argomentazioni principali alla base di questo lavoro?

La transizione energetica è la visione del futuro che raccoglie più consensi. Di fronte al cambiamento climatico, è ovvio che dobbiamo fare una “transizione energetica”. Ma a pensarci bene, si tratta di un’impresa gigantesca di cui non abbiamo esperienza storica. Su scala globale, non c’è mai stata una transizione energetica e non sappiamo quanto tempo potrebbe richiedere. Questa idea di transizione energetica sembra naturale perché abbiamo una visione completamente errata della storia dell’energia, una visione secondo la quale in passato abbiamo sperimentato diverse transizioni, abbiamo cambiato completamente i sistemi energetici in diverse occasioni (dalla legna al carbone, dal carbone al petrolio); la verità è che abbiamo semplicemente consumato sempre più di tutte queste energie. La nostra cultura storica ha finito insomma col legittimare una futurologia straordinariamente strana. L’attuale concetto di transizione energetica fa apparire un problema di civiltà come un semplice cambiamento dell’infrastruttura energetica, un vero e proprio errore di categorizzazione.

In riferimento alle relazioni tra infrastrutture energetiche e produttive nella storia nei tuoi recenti lavori parli di “simbiosi energetica e materiale”1: puoi dirci cosa intendi e farci qualche esempio?

In generale, la storia dell’energia viene tradizionalmente divisa in grandi fasi: nel XVIII secolo si usava il legno e l’energia idraulica, nel XIX secolo, con la rivoluzione industriale, il carbone, e nel XX secolo il petrolio e l’elettricità. In un libro di prossima pubblicazione2, invece, studierò le simbiosi tra le energie. Ad esempio, in che modo l’uso del carbone ci porta a consumare molto più legno, anche per motivi energetici? In che modo l’uso del petrolio porta a un maggiore consumo di carbone, anche per motivi energetici? E così via.

Prendiamo l’esempio della simbiosi legno-carbone. In Inghilterra, le miniere di carbone nella prima metà del XX secolo hanno consumato più legno di quanto ne bruciasse il Paese nel XVIII secolo perché è stato necessario mantenere migliaia di chilometri di gallerie sotterranee. Nell’Inghilterra del XVIII secolo venivano bruciati circa 3,5 milioni di metri cubi di legna. All’inizio del XX secolo, sono stati utilizzati 4,5 milioni di metri cubi di puntelli … Non si tratta di legna da ardere, ma di legna utilizzata per produrre energia. Inoltre, trattandosi di legname, richiede aree forestali circa sei volte più grandi. Il fatto che storici di chiara fama come Anthony Wrigley descrivano questa trasformazione come una transizione o, peggio ancora, un allontanamento dall’economia biologica, lascia pensare…

Se si osservano i legami tra carbone e petrolio, si nota lo stesso fenomeno. Per produrre un’automobile negli anni ‘30 erano necessarie sette tonnellate di carbone. Si tratta di una massa equivalente alla quantità di petrolio che l’auto consumerà nel corso della sua vita. Quindi, quando si pensa al carbone è necessario pensare al legno e quando si pensa al petrolio è necessario pensare al carbone, e così via: sono cose sono perfettamente inestricabili.

E poi, grazie al petrolio, abbiamo sempre più legna. Una delle più grandi trasformazioni nella storia dell’energia degli ultimi quarant’anni è stata l’esplosione del carbone di legna in Africa. È la prima volta nella storia che megalopoli con più di 10 milioni di abitanti utilizzano in modo massiccio la carbonella per cucinare. Ad esempio, Kinshasa, una città di 11 milioni di persone, consuma 2,15 milioni di tonnellate di carbone di legna all’anno. A titolo di confronto, Parigi consumava 100.000 tonnellate di carbone di legna all’anno nel 1860. È un altro ordine di grandezza.

Questo consumo di carbone di legna è reso possibile dal petrolio: il carbone di legna può essere trasportato molto più lontano con i camion. Il legno è petrolio e viceversa. Nei paesi ricchi, se si tiene conto dei macchinari forestali e dei trasporti, si arriva al risultato che ci vuole una caloria di petrolio per produrre dieci calorie di legna.

Tutte le energie intrattengono tra loro delle relazioni simbiotiche. Ci siamo concentrati troppo su alcuni casi locali di sostituzione, come il motore diesel che ha sostituito il motore a vapore nella navigazione e nelle ferrovie. Ma questo non significa che il carbone non venga ancora consumato, anche solo per produrre navi e treni.

Diamo un’occhiata all’argomentazione di Timothy Mitchell, che ha riscosso molto successo. Nel suo libro Carbon Democracy, sostiene che i sistemi sociali sono legati ai sistemi energetici, e in particolare alle proprietà fisiche delle energie stesse. Ad esempio, il carbone renderebbe possibili dei rapporti di forza favorevoli alle classi lavoratrici, nella misura in cui i lavoratori del carbone fossero numerosi e potrebbero così bloccare totalmente le forniture (la miniera è pericolosa, di difficile accesso e quindi facile da bloccare, ecc.) Il petrolio, invece, sarebbe più un flusso che uno stock, più o meno liquido e distribuito tramite tubature, richiedendo tendenzialmente una forza lavoro più istruita (ingegneri) e mettendo poco in discussione le condizioni di lavoro e il dominio economico. Mitchell sostiene che il passaggio da una forma di energia all’altra contribuisce a spiegare l’ascesa di uno Stato sempre meno interessato alla redistribuzione della ricchezza…

Mitchell ha totalmente torto in quanto il petrolio non si sostituisce al carbone, almeno prima degli anni Sessanta del Novecento. La tesi di Mitchell poggia su una comparazione distorta tra il petrolio moderno degli anni Sessanta e il carbone degli inizi del secolo.

Il petrolio ha iniziato a invadere i mercati del carbone solo alla fine degli anni Cinquanta, quando il carbone era ormai ad alta intensità di capitale. Il carbone veniva estratto con frese elettriche. Negli Stati Uniti del 1958, le miniere di carbone davano lavoro a un numero di persone di gran lunga inferiore rispetto ai campi petroliferi e alle raffinerie. Per non parlare degli addetti alle pompe, dei camionisti, ecc. Il sindacato americano dei camionisti è una potenza sociale considerevole, il sindacato più temuto nel periodo tra le due guerre.

Inoltre, il carbone è molto versatile: serve da molto tempo a produrre gas, elettricità, nelle centrali elettriche lo si utilizza sotto forma di polvere, eccetera. Esistono anche dei carbodotti, una sorta di pipeline per il carbone.

La tesi di Mitchell illustra un gusto per le spiegazioni materialiste della politica ma un paradossale disinteresse per la storia della produzione, una circostanza che conduce a narrazioni sbagliate. Il suo successo è però facilmente spiegabile, in quanto gli intellettuali non hanno mai superato il determinismo tecnico.

In un recente articolo3 dimostri che l’idea di transizione energetica ha una delle sue radici decisive nella lobby atomica, un ambiente preoccupato anche per la rapida crescita della popolazione e per i rischi di esaurimento delle risorse. Puoi spiegare in che modo questo ambiente è neo-malthusiano4 e ripercorrere le idee e i discorsi che esso ha proposto all’epoca?

Per precisare bene le cose va detto che l’idea di una transizione energetica è molto eterodossa. Economisti, ingegneri e geologi non pensano affatto al sistema energetico come a un sistema sostitutivo. Per tutti, il carbone rimaneva e sarebbe rimasto a lungo il pilastro del mondo industriale, anche se il petrolio e l’energia idroelettrica stavano facendo progressi e anche se negli anni Cinquanta i media facevano un gran parlare dell’imminente era atomica. Lo si può vedere, ad esempio, nei rapporti della commissione del senatore Paley: l’energia nucleare viene descritta come una fonte energetica interessante ma non molto importante, che potrebbe al massimo aggiungersi agli altri combustibili fossili, senza sostituirli davvero.

Ma c’è un gruppo di intellettuali che la pensa diversamente. Si tratta di scienziati che sono al tempo stesso filonucleari e neo-malthusiani, ed è importante che lo siano allo stesso tempo. Durante la guerra essi hanno lavorato al Progetto Manhattan, e più precisamente al Laboratorio Metallurgico dell’Università di Chicago, sviluppando la prima pila atomica sotto l’egida di Enrico Fermi. Sono affascinati dalle applicazioni civili ed energetiche dell’atomo, in particolare dal reattore nucleare breeder, che sulla carta ha rendimenti assolutamente straordinari. Si sentono anche terribilmente in colpa per Hiroshima e Nagasaki e vogliono spiegare che l’energia nucleare è anche la chiave per la sopravvivenza dell’umanità.

Come fu detto il giorno dopo Hiroshima…

Sì, Hiroshima ha realizzato una rivoluzione scientifica, come titolò Le Monde nel 1945. L’originalità di questi scienziati sta nella loro capacità di creare una nuova futurologia, grazie al fatto che pensano a lunghissimo termine. Ci sarà il carbone nel 2050? E nel 2100? E infine una domanda correlata: cosa succederà all’atmosfera se bruciamo tutto il carbone e il petrolio?

Da questo punto di vista, sono dei veri e propri visionari: sono i primi a studiare il riscaldamento globale in un modo molto nuovo, utilizzando gli isotopi e la spettrometria di massa. Il nucleare permetterà di evitare l’esaurimento dei combustibili fossili e il riscaldamento globale ma anche anche di sfamare la popolazione mondiale. Infatti, se disponiamo di reattori a ciclo rapido, cioè a energia illimitata, tutto diventa possibile: potremmo desalinizzare l’acqua del mare, produrre fertilizzanti a volontà e rendere fertili vaste aree aride del pianeta. Quindi il nucleare, dicono, aumenterà la capacità di carico del pianeta!

Il termine “transizione energetica” viene coniato nel 1967 da Harrison Brown, scienziato atomico, ex membro dello staff del Progetto Manhattan e del Met Lab e figura di spicco dei circoli neo-malthusiani. Inizialmente, il termine è un concetto che appartiene alla fisica atomica e si riferisce a un elettrone che cambia stato attorno a un nucleo, per cui Brown ricicla quindi un termine che gli è familiare. Un’altra fonte di ispirazione è l’idea di transizione demografica cara ai neo-malthusiani, che risale al 1945 ed è stata coniata dal sociologo Kingsley Davis. Egli utilizza per la prima volta l’espressione “transizione energetica” in un libro sul controllo delle nascite sponsorizzato da Rockefeller III, uno dei filantropi del neo-malthusianesimo negli anni Sessanta.

Ad eccezione dei nuclearisti nessuno parla di “transizione” fino agli anni Settanta e tutti pensano che il futuro energetico resterà strutturato attorno alle fonti fossili e soprattutto attorno al carbone.

Inizialmente, quindi, l’idea della transizione è un argomento per promuovere l’atomo, sostenuto da un gruppo influente ma molto piccolo rispetto agli economisti e agli esperti delle industrie del petrolio e del carbone, molto scettici sui vantaggi economici dell’atomo. Per i malthusiani dell’atomo, gli economisti non hanno capito nulla: l’obiettivo non è essere competitivi con il carbone, ma garantire che l’atomo sia disponibile quando non ci sarà più carbone, nel XXI o XXII secolo. Queste persone pensano all’energia in modo diverso, a lunghissimo termine.

Si tratta insomma di una sorta di idealismo energetico all’interno di un ristretto ambiente tecnico-scientifico. È questo l’idealismo scientifico che permea il discorso ecologico di oggi?

No, perché nel frattempo sono successe molte cose, prime fra tutte la crisi petrolifera e la nozione di crisi energetica. Alla fine degli anni Sessanta, la Commissione per l’energia atomica (AEC)5 e la General Electric iniziano a diffondere l’idea che siamo di fronte a una crisi energetica. Ci sono dei blackout, tra cui uno a New York nel 1965, ampiamente riportati dalla stampa, le cui cause sono ben note, prima fra tutte la mancanza di investimenti nelle infrastrutture cui si aggiungono le norme sullo zolfo che implicano che non sempre si può utilizzare il carbone prima di aver installato apparecchiature per desolforare i fumi che escono dalle centrali termiche. La carenza di elettricità, con tutta evidenza, non è dovuta a una carenza di carbone negli Stati Uniti.

Resta il fatto che l’idea di una crisi energetica comincia a essere diffusa surrettiziamente dalla lobby atomica, che dice: “Se continuate ad assillarci, a impedire le procedure di autorizzazione delle centrali, avremo una crisi energetica”, un’argomentazione che agli inizi è un’arma contro la crisi ambientale, che comincia a farsi sentire – si pensi alla Giornata della Terra del 1970.

L’idea è di dire che la crisi energetica è urgente mentre quella ambientale è più lontana. È vero che l’ambiente è molto telegenico – si vedono i gabbiani nell’olio combustibile, è scioccante – ma il vero problema, spiega la lobby atomica, è che stiamo per esaurire l’energia. L’obiettivo è ottenere finanziamenti per il programma nucleare. I funzionari della Commissione per l’energia atomica terranno seminari e formeranno giornalisti, in particolare del New York Times, sul tema della “crisi energetica”. Una serie di articoli sulla crisi energetica sarebbe poi effettivamente apparsa, come per esempio nel 1971.

Quindi arriva la crisi petrolifera e l’idea di una crisi energetica prende ovviamente piede nel dibattito pubblico, e con essa l’idea di una transizione energetica. È a questo punto che le associazioni ambientaliste americane riprendono la retorica del nemico. Lester Brown, ad esempio, fondatore del World Watch Institute, un agronomo americano neo-malthusiano, afferma che la transizione sarebbe obbligatoria perché non c’è più energia. Il petrolio è finito. Tutto questo fa sembrare l’idea di una crisi energetica del tutto naturale, mentre in realtà essa è stata creata dal nulla.

Insomma questo discorso sulla crisi energetica e sulla transizione energetica non proviene affatto dall’ecologia bensì dall’industria nucleare e viene solo in seguito ripreso dai gruppi ambientalisti americani. E ciò è parte del problema.

Vale a dire?

In primo luogo, gli ecologisti hanno fatto propria l’idea che il petrolio si stia esaurendo, il che non è vero. In secondo luogo, alcuni hanno fatto propria l’idea, che nasce dall’industria nucleare, di un mondo tecnico malleabile. Amory Lovins è un ottimo esempio. È un fisico e membro di Friends of the Earth. È un promotore della “via dell’energia dolce”, cioè delle energie rinnovabili, in particolare dell’energia solare. Nel 1976 ha pubblicato un articolo intitolato “Energia, la strada non percorsa” in cui difendeva l’idea che in trent’anni gli Stati Uniti avrebbero potuto passare interamente all’energia solare. Per le automobili, nessun problema: produrremo biocarburanti. Oggi è considerato un pioniere, ma le sue previsioni del 1976 sul mix energetico erano completamente fuori strada.

Si tratta anche di un discorso molto neoliberista, che critica il nucleare come una tecnologia statalista, burocratica, lenta e costosa, ecc. in contrasto con le energie rinnovabili, di cui chiunque può appropriarsi. Ogni ingegnere nel suo garage inventerà nuove tecniche energetiche e la transizione avverrà molto rapidamente grazie all’ingegno degli americani. È una visione del mondo dell’energia molto start-up nation, disruption e compagnia, in cui il mondo materiale può trasformarsi molto velocemente.

Un’altra tappa importante di questa storia fu il discorso di Jimmy Carter sulla transizione energetica del 18 aprile 1977. Egli presentò il suo Piano energetico nazionale, che prevedeva di triplicare l’uso del carbone negli Stati Uniti, una decisione legata alla sovranità energetica.

Per descriverlo, Carter usa il termine “transizione energetica”, che dà un’aria futuristica al ritorno al carbone…. Il suo discorso inizia con un grande affresco storico: “In passato abbiamo fatto due transizioni energetiche, la prima dal legno al carbone, la seconda dal carbone al petrolio, e ora dobbiamo fare una terza transizione energetica”. Il giorno dopo, il New York Times pubblica un articolo in cui si afferma che gli Stati Uniti e il mondo sono sull’orlo di una terza transizione energetica…. Il carbone non è quindi presentato altro che come energia di transizione, o “ponte verso il futuro”.

Quel che è interessante notare è che questo futuro non è necessariamente nucleare: Carter infatti non è molto entusiasta di questa tecnologia, che conosce bene. Egli ha infatti frequentato la scuola navale e ha lavorato su uno dei primi sottomarini nucleari sotto l’egida dell’ammiraglio Rickover, una leggenda negli Stati Uniti, che ha organizzato la conversione all’atomo dei sottomarini della Marina statunitense. Carter conosce di conseguenza molto bene l’atomo e ne conosce per esperienza la pericolosità essendo stato direttamente coinvolto nella gestione di un incidente in un sottomarino americano.

Mettendo in evidenza l’enorme inerzia tecnica ereditata dalla nostra storia, non si potrebbe pensare che il tuo lavoro porti a una forma di determinismo tecnologico? Come possiamo ripensare la possibilità di un bivio politico? O dobbiamo considerarlo impossibile?

No, non è impossibile, ma se non si ammette l’esistenza dell’inerzia, non ci si può dotare dei mezzi per arrivare al bivio di cui parli. L’inerzia del sistema energetico su scala globale è un fenomeno reale e titanico che deve essere considerato e affrontato di petto. Certo, dobbiamo fare politica, ma ragionando sul come.

Nella storia recente c’è stata la tendenza a presentare il cambiamento climatico come un complotto ordito da pochi capitalisti. Sembra un’idea radicale e soprattutto è molto confortante per la sinistra, ma comporta una valutazione errata della portata dei cambiamenti che devono essere fatti, un’incomprensione della politica dell’Antropocene.. Uscire dal carbonio è ancora più difficile che uscire dal capitalismo.

Questo ci riporta alla vecchia questione della decrescita e al fatto che è ancora molto difficile discuterne con la grande maggioranza degli economisti. Nell’ultimo rapporto del Gruppo III dell’IPCC sono stati analizzati 3.000 scenari, ma non ne è stato proposto alcuno riguardante la possibilità di una decrescita. Non c’è stato un solo economista che abbia pensato: “Bene, modelliamo alcuni scenari di decrescita!” Anche senza parlare di un calo del PNL mondiale, potrebbero almeno studiare cosa succede se riduciamo drasticamente il consumo di materiali che sappiamo non essere in grado di decarbonizzare entro il 2050 – come l’acciaio, il cemento – oppure il trasporto aereo.

Tutto questo comporterebbe una catastrofe? Forse no. Se ci si riuscisse, anzi, molte altre cose potrebbero aumentare in meglio, potrebbero esserci molti “co-benefici”, per usare il termine dell’IPCC.

Il tuo lavoro non mette forse in evidenza che, al fondo, le società industriali e produttiviste, e con esse la loro stratificazione sociale nazionale e internazionale, sono più restie a combattere il cambiamento climatico che a esporsi alle conseguenze di un riscaldamento molto significativo?

È evidente, ed è proprio questo il motivo per cui non stiamo facendo nulla. La transizione energetica riveste soprattutto una funzione ideologica per i Paesi del Nord: raccontare la storia di un futuro verde è una strategia molto efficace per giustificare l’attuale procrastinazione. In realtà, alla fine degli anni ’70 l’élite americana aveva già detto che il dado era tratto: il riscaldamento globale ci sarebbe stato e la questione era come adattarsi. Già nel 1976 negli Stati Uniti si discuteva di adattamento e si concludeva che il Paese era ben attrezzato per affrontare il riscaldamento globale.

Questa è la scelta che è stata fatta, ma non è stata presentata in questo modo. Adesso questa scelta deve essere esplicitata e dichiarata chiaramente, e soprattutto deve essere spiegata ai Paesi in cui la gente morirà di fame – dove la gente sta già morendo di fame – a causa del riscaldamento globale e degli alti prezzi dei prodotti alimentari. Il discorso sulla transizione ha anche questo aspetto sordido.

E non riusciamo a trovare qualcosa di equivalente che ci dia un impulso politico dicendoci che un bivio è possibile?

No, mi dispiace, non credo che la storia abbia analogie utili da offrire. Potremmo invocare il New Deal, la mobilitazione per la Seconda guerra mondiale, eccetera, ma saremmo fuori strada. Dobbiamo fare a meno della sostanza stessa di ciò che è diventato una seconda natura nell’ultimo secolo. Qualsiasi analogia storica correrebbe il rischio di sottovalutare ciò che è necessario fare ora.

Dei sociologi molto prestigiosi, nell’ultimo rapporto IPCC, si compiacciono di fare dei paralleli di questo genere, citando ad esempio il programma nucleare francese che ha eliminato il carbone dal mix elettrico.

Tuttavia, anche a prescindere dal fatto che il ritmo di riduzione delle emissioni è di gran lunga superiore a quello di installazione delle centrali, dobbiamo ricordare che le emissioni della Francia non sono diminuite drasticamente dagli anni Ottanta. Se si tiene conto delle emissioni importate, l’impronta di carbonio della Francia ristagna o diminuisce molto lentamente.

Dici che il discorso sulla transizione è obsoleto: è necessario rinunciarvi del tutto?

Sì e no. Questa retorica è sicuramente obsoleta eppure al tempo stesso una “transizione” dobbiamo farla, però dove è possibile, cioè nella produzione di elettricità.

Ecco un altro punto ovvio: sarebbe un peccato impantanarsi in un dibattito “innovazione contro decrescita” – i pannelli solari costano meno, e questo è un bene – ma i sostenitori della crescita verde devono anche capire che hanno una visione aberrante della tecnologia e del tempo necessario per diffonderla: le rinnovabili funzionano bene per produrre elettricità, ma molto meno per produrre cemento e acciaio. L’acciaio e il cemento rappresentano il 15% della CO2, e questo è sufficiente a farci superare la soglia dei 2°C. Quindi interi settori dell’economia globale devono ridursi: l’aviazione, naturalmente, ma anche le automobili, i cementifici, le acciaierie e così via. In sostanza, si tratta di capire quanta CO2 è davvero utile.

Ciò che mi interessa come storico non è tanto la domanda che tutti si stanno ponendo, cioè se questa transizione è possibile (nel tempo a disposizione per raggiungere l’obiettivo dei 2°C, tutti sanno che non lo è), ma è mostrare a quale scopo si è parlato di transizione a partire dagli anni Settanta, a chi è servito e a cosa serve ancor oggi.

Per fare un esempio, durante le mie ricerche sono rimasto colpito da un discorso tenuto nel 1982 da Edward David, responsabile della ricerca e sviluppo della Exxon, invitato a una conferenza dal climatologo James Hansen, che in seguito sarebbe diventato una figura mediatica importante. David ammette l’evidenza del cambiamento climatico causato dalla combustione di combustibili fossili ma poi pone la domanda: “Cosa andrà più veloce? La catastrofe climatica o la transizione energetica?”.

La risposta che dà è che il mondo è in transizione e che questa transizione avverrà prima della catastrofe. La cosa più strana è vedere quanto i climatologi, cioè le stesse persone che stanno lanciando l’allarme, siano disposti a sposare questa argomentazione.

In quella occasione essi sostengono che sentiremo gli effetti del cambiamento climatico nel 2000, che esso avrà conseguenze economiche nel 2020 e che diverrà effettivamente catastrofico nel 2070. Ma per allora, pensano, avremo ovviamente effettuato una transizione energetica, poiché una transizione richiede circa mezzo secolo. Questa idea è destinata a diventare un’ovvietà condivisa, anche se non ne sappiamo nulla perché non ne abbiamo mai fatta una.

Ma non c’è una contraddizione con il rapporto Meadows del 1972, nella misura in cui affermava di prevedere il collasso delle società industriali se avessero continuato sulla stessa traiettoria?

Sì, è un momento importante che non ho ancora menzionato. Questo rapporto ha avuto indirettamente una notevole influenza sulla questione climatica, per almeno due motivi.

In primo luogo, da un punto di vista generale, la relazione al Club di Roma ha influenzato il modo in cui il problema del riscaldamento globale è stato definito come un problema di risorse. Nel 1979, alla Conferenza mondiale sul clima di Ginevra, il meteorologo americano Robert White dichiarò che “dobbiamo pensare al clima come a una risorsa” e questo è ciò che hanno effettivamente fatto gli economisti, in particolare William Nordhaus, la cui importanza – un’importanza nefasta – in questa storia non può essere sopravvalutata.

Gli economisti hanno descritto il clima come un problema di valore attuale netto di una risorsa non rinnovabile: come ottimizzare il PIL in presenza di vincoli climatici? E hanno riciclato la confutazione dell’avvertimento neo-malthusiano presente nel rapporto al Club di Roma all’interno dell’economia del clima. Ciò ha finito con l’attribuire un ruolo chiave all’innovazione, che fino ad allora aveva contrastato efficacemente, nei paesi ricchi, l’esaurimento delle risorse attraverso guadagni di efficienza, innovazioni, capacità di scavare più a fondo, di trovare altre fonti di energia altrove, più lontano, ecc. Il problema è che il cambiamento climatico riguarda la sovrabbondanza ineguale di carbonio.

In secondo luogo, un’istituzione chiave per il Gruppo III dell’IPCC, l’Istituto per l’Analisi Avanzata dei Sistemi (IIASA), è stato creato nel 1972 con un gruppo sull’energia che si considerava una risposta seria al Club di Roma. L’idea era quella di adottare lo stesso metodo, utilizzando computer e modelli, per dimostrare che la coppia Meadows si era sbagliata, che esistevano traiettorie che ci avrebbero permesso di effettuare una “transizione morbida” dai combustibili fossili.

Questi modelli costituiranno la base per i modelli del Gruppo III dell’IPCC. Nordhaus è stato anche studente dell’IIASA. La strategia adottata dall’IIASA è la seguente: usiamo il carbone per far fronte alla crisi petrolifera e poi, intorno al 2000, avremo finalmente il reattore nucleare breeder. Dobbiamo fare la transizione, ma più tardi, quando sarà più economica grazie al reattore fast breeder. Questa è anche la strategia di Nordhaus e del rapporto del Gruppo III dell’IPCC del 1995.

All’IIASA lavora un affascinante scienziato italiano: Cesare Marchetti. Se c’è un intellettuale da ricordare in questa faccenda della transizione energetica, è lui. Grande promotore dell’economia dell’idrogeno negli anni ’60 e ’70, è in un certo senso l’antenato di Jeremy Rifkin. La sua idea è che l’idrogeno liquido sia la chiave per rendere l’energia nucleare un attore importante, che vada oltre il semplice mercato dell’elettricità. In un certo senso, dietro la sua passione per l’idrogeno, è il più fanatico difensore dell’atomo.

Nel 1974 inizia a lavorare per l’IIASA e comincia a studiare la storia della tecnologia analizzandone i tempi di diffusione. È qui che inizia a utilizzare le curve di diffusione logistica per capire quanto tempo sarebbe necessario per realizzare una transizione energetica. Così facendo, inizia a considerare l’evoluzione relativa delle energie e definisce la transizione come il tempo necessario a un’energia per passare dall’1% al 50% del mix energetico. Jimmy Carter parla di transizione il 18 aprile 1977 perché ha visto dei grafici ispirati al lavoro di Marchetti.

Cosa ancora più interessante, Marchetti critica il metodo di costruzione degli scenari utilizzato dall’IIASA. A suo avviso, l’orizzonte temporale di un’eliminazione graduale dei combustibili fossili nei 50 anni è del tutto irrealistico e il gas sarà la principale fonte di energia per gli anni 2000-2020. Critica anche la metodologia a scenari, che dà l’illusione di poter controllare il colossale sistema energetico globale, con la sua enorme varietà di risorse, mercati, consumatori, abitudini, leggi e così via. Con gli scenari, si vedono molte traiettorie possibili. Marchetti rifiuta questa visione e difende l’idea che il futuro sia in gran parte predeterminato dalla storia.

Naturalmente, si tratta di un modello troppo meccanicistico. Marchetti è stato infatti criticato dallo storico Vaclav Smil perché, con il suo modello logistico di distribuzione, il carbone sarebbe dovuto scomparire intorno al 2000. Quindi, sì, ha sbagliato di poco? Ma, sebbene fosse molto favorevole al nucleare, il suo messaggio era quello di dire, a differenza dei suoi colleghi: “Non sognate, ci vuole molto tempo per uscire dai combustibili fossili”. In un certo senso, è deluso da ciò che la storia dimostra: non vedrà mai il suo sogno di una società all’idrogeno.

Quello che Vaclav Smil non dice, e che trovo molto preoccupante, è che Marchetti era il futurologo più pessimista degli anni Settanta. Per dirla in altro modo: i più pessimisti erano fin troppo ottimisti.

1 Jean-Baptiste Fressoz, Pour une histoire des symbioses énergétiques et matérielles, “Annales des Mines”, Responsabilité et environnement, vol. 101, no. 1, 2021, pp. 7-11.

2 [Il riferimento è al citato Sans transition]

3 Jean-Baptiste Fressoz, La “transition énergétique”, cit.

4 “Le malthusianisme désigne une réduction de la natalité, soit planifiée par une autorité (une politique malthusienne), soit adoptée par une population (un comportement malthusien). […] Dans un sens plus large, le “néo-malthusianisme” peut désigner des approches de l’environnement dans lequel l’accent est mis sur le caractère limité des ressources imposant de limiter la croissance démographique, en opposition avec les approches préconisant par exemple des changements dans les modes de vie ou une répartition plus équitable des ressource”, voir: http://geoconfluences.ens-lyon.fr/glossaire/malthusianisme.

5 Si tratta di un’agenzia federale statunitense fondata nel 1946 al fine di gestire sviluppo, uso e controllo dell’energia atomica (nucleare) per applicazioni militari e civili [NdT].

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