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Il fallimento di Seattle

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Il millenovecento si è chiuso con la rumorosa conferenza internazionale di Seattle (Usa) dell’organizzazione mondiale del commercio: dentro le sale ufficiali litigavano i rappresentanti dei governi e, fuori dalle sale del potere, varie organizzazioni di ambientalisti, consumatori e vari gruppi di pressione avevano ciascuno da dire la sua . A me sembra che in tutto questo gran parlare siano rimaste nell’ombra le uniche vere protagoniste della discussione, le merci.

Di esse, infatti, la conferenza parlava. L’incontro è fallito per l’incapacità dei vari paesi del mondo di accordarsi sulla produzione e sui prezzi delle principali merci: cereali e soia, patate e minerali metallici, cioè delle uniche vere cose che tengono in moto il mondo. Le radici del dissenso stanno nel fatto che ciascun paese vuole guadagnare il massimo su quello che vende e vuole acquistare al più basso prezzo quello che compra, il che è impossibile. D’altra parte alcuni paesi possono imporre la propria volontà sugli altri, pagando alcuni produttori nazionali perché possano esportare a più basso prezzo, vietando o ostacolando le importazioni di alcune merci.

Per restare alle merci più importanti ci troviamo davanti a “quattro mondi”. Il primo è quello dei paesi, soprattutto Stati uniti, che possiedono materie prime e tecnologie per trasformarle in prodotti finiti (per esempio carne e mangimi) e che vogliono assicurarsi alti profitti per le loro esportazioni. Il secondo mondo, soprattutto l’Europa, produce molte merci (per esempio carne o cereali o latte) ad alto costo e cerca di impedire l’entrata delle stesse merci prodotte da altri paesi a basso costo (per esempio alimenti modificati geneticamente, oppure cereali che contengono pesticidi ad di là di un certo limite, prodotti in paesi che usano tali pesticidi per abbassare i costi di produzione). In questi casi dove arriva l’amore per l’ecologia e dove l’imperialismo merceologico?

Il terzo mondo è quello dei paesi che hanno materie prime a basso prezzo e che producono merci a basso costo grazie allo sfruttamento della mano d’opera, che vogliono guadagnare nell’esportazione delle loro materie e dei manufatti prodotti a basso prezzo (automobili, computers, tessuti). Ed ecco che i paesi del primo e del secondo mondo invocano condizioni meno inumane di lavoro: ma lo fanno per un genuino interesse per la salute e i diritti dei lavoratori o per ostacolare l’esportazione, dai paesi del terzo mondo, di merci che fanno concorrenza a quelle dei paesi industrializzati?

C’è infine il quarto mondo dei paesi poveri e poverissimi, con un’agricoltura arretrata, con drammatiche ingiustizie sociali,  che non hanno niente da vendere se non le braccia dei propri abitanti i quali cercano di entrare in tutti gli altri paesi come mano d’opera a basso prezzo. Questi scontri di interessi economici, merceologici, sono stati finora risolti con guerre locali, in cui  le aspirazioni di autonomia (anche nei commerci) sono state represse con la forza per non disturbare i potenti interessi delle società multinazionali, i veri imperatori in tutti e quattro i mondi.

Non c’è da rallegrarsi che la conferenza sul commercio internazionale di Seattle sia fallita: è fallita, in realtà, la capacità dei popoli di rispondere con accordi, con reciproci sacrifici, alla domanda di rapporti più equi, di migliori condizioni di vita per i paesi e le classi povere. Nello sviluppo umano hanno un ruolo centrale le risorse naturali, le materie prime, il lavoro, i manufatti: come scrisse anni fa il giornale inglese Economist: il potere alle merci. Sarà bene prestargli maggiore attenzione.

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