Hannah Arendt, ne Le origini del totalitarismo, scrive che «i campi di concentramento e le camere a gas» – senza dubbio «la soluzione più sbrigativa del problema della sovrappolazione, della superfluità economica e dello sradicamento sociale» – lungi dal costituire un «monito» possano, al contrario, rappresentare anche per le società democratiche un «esempio», una tentazione, cioè, destinata a riproporsi quando appaia «impossibile alleviare la miseria politica, sociale o economica in maniera degna dell’uomo». Quelle soluzioni, pertanto, mantengono, nel presente, la propria efficacia, pronte ad essere utilizzate allorché, ad esempio, si profili l’esistenza di un altro ritenuto a tal punto nemico da risultare irriducibilmente incompatibile con l’ordine sociale vigente. L’altro – qualunque sembiante assuma – può diventare, secondo un dispositivo implacabile, sterminabile. Dapprima si costruisce il nemico, spogliandolo delle qualità umane che lo rendono soggetto degno di riconoscimento e cura; così trasformato in una «non persona» ed esposto all’isolamento, diventa oggetto della violenza dello stato. Violenza giustificata dalla convinzione che, soltanto eliminando il nemico assoluto, si possano efficacemente preservare la compattezza e la salute del corpo sociale dalla minaccia che quello incarna. Di questo nesso, ovvero del legame tra «libertà economica e terrore politico», e di come questo rapporto abbia segnato in modo doloroso la storia degli ultimi decenni tratta Shock Economy, l’ultimo libro, edito da Rizzoli (pp.622, € 20,50), di Naomi Klein.
L’autrice ripercorre, in modo rigorosamente documentato, «l’ascesa del capitalismo dei disastri» dai primi esperimenti in Cile e Argentina fino agli attuali conflitti israelo-palestinese e iracheno, attraverso le vicende della Polonia e della Russia post-comuniste, dei paesi asiatici dopo la crisi finanziaria della metà degli anni ’90, del Sudafrica dopo l’apartheid, della Cina e, ancora, dei paesi travolti dal maremoto del 2004.
Sono situazioni accomunate dalla violenza delle emergenze da cui sono state colpite, ma, soprattutto, dalle risposte fornite a queste emergenze; risposte ispirate dalle teorie di Milton Friedman e della scuola di Chicago che hanno scorto nelle catastrofi non tanto problemi da risolvere, quanto opportunità di un rapido arricchimento a favore di un’esigua minoranza raccolta nel patto scellerato tra una classe politica criminale e corrotta e le grandi imprese multinazionali.
Secondo, infatti, il «fondamentalismo capitalistico» di Friedman e dei suoi allievi – alcuni dei quali insediati ai vertici dei più importanti organismi finanziari, altri, invece, direttamente impegnati come consiglieri dei governi – «il verificarsi di una grande crisi o di un grande shock» consente di «sfruttare le risorse dello stato per ottenere un guadagno personale mentre gli abitanti sono ancora disorientati». Il prodursi di eventi traumatici diventa, allora, l’occasione per poter rimodellare la società, applicando «misure radicali di ingegneria sociale ed economica».
Gli esempi, descritti con cura da Klein, mostrano l’uniformità delle misure imposte ai governi colpiti dalle crisi: taglio della spesa sociale; eliminazione dei controlli dei prezzi; abbattimento del costo del lavoro; adozione di misure per l’incremento della flessibilità lavorativa; cessione ai privati e, in particolare, alle imprese straniere, delle industrie nazionali; deregolamentazione di salari e prezzi e, quando occorra, distruzione dei sindacati e dell’opposizione ricorrendo, anche, alla tortura e all’omicidio.
Del resto, sottolinea l’autrice, che un’impostazione drasticamente liberista possa, senza problemi, convivere con regimi autoritari non solo è stata una convinzione di Friedman – consigliere, peraltro, del governo di Pinochet e di quello cinese – ma è attestata da alcune esperienze raccontate nel libro: su tutte, i governi sudamericani degli anni ’70 e la Cina. Anzi, l’adozione di queste misure può richiedere il sostegno di governi forti, capaci, cioè, di sospendere il sistema dei diritti e di ricorrere alla coercizione violenta inferta al «corpo politico» e a «innumerevoli corpi individuali».
La soppressione delle garanzie non solo ha la funzione di eliminare ogni forma di resistenza, ma consente di rendere permanenti le “riforme” e così fare della crisi lo strumento dell’affermazione di un capitalismo sfrenato e senza limiti.
Anche le catastrofi naturali possono essere volte, produttivamente, in quella direzione. Gli effetti del ciclone Katrina, ad esempio, sono serviti a trasformare New Orleans nel laboratorio dove sperimentare «l’apartheid dei disastri», la divisione, cioè, della città in una zona verde – abitata dai cittadini ricchi – e in zone rosse, dalla prima nettamente separate, dove agli abitanti poveri è stato persino impedito di ricostruire le proprie case.
Distruggere diventa, così, l’ossessione degli economisti di Chicago, persuasi che, rimossa ogni interferenza, il capitalismo possa, alla fine, imporsi in tutto il mondo.
Cameron, uno psicologo al servizio della CIA negli anni ’50 e ’60, riteneva che infliggere shock agli individui avrebbe consentito – azzerando le precedenti – la ricostruzione di nuove e più sane personalità.
Analogamente, Friedman «credeva che quando un’economia è profondamente distorta, l’unico modo per tornare allo stato edenico, di pre-caduta, fosse quello di infliggere deliberatamente degli shock dolorosi».
Ritorna l’idea smithiana secondo la quale il mercato, sciolto da ogni controllo e lasciato alle sue dinamiche spontanee, sia in grado, autonomamente, di raggiungere il proprio equilibrio. Ciò che conta è che nessun agente esterno – lo stato, in particolare – intervenga alterandone gli automatismi e le leggi altrettanto fisse e immutabili di quelle naturali. Il mercato, così “naturalizzato”, si presenta come un organismo che ha in sé le condizioni del superamento delle crisi che, periodicamente, ne segnano l’esistenza, funzionando, pertanto, come «il sistema scientifico perfetto in cui gli individui, agendo in base ai propri interessi, creano i benefici massimi per tutti».
Nemico di Friedman è il keynesismo, la concezione, cioè, secondo la quale lo stato non solo può ma, in circostanze critiche, deve intervenire affinché il sistema economico posa risollevarsi dalle proprie difficoltà. Presupposto della visione di Keynes è la convinzione che il mercato sia incapace di governare sa solo le proprie emergenze che, anziché presentarsi come turbamenti temporanei, che avrebbero preluso al raggiungimento di un nuovo equilibrio, producono, come nel ’29, effetti disastrosi, immedicabili con le risorse tradizionalmente affidate al libero gioco dei soggetti economici. Lo stato, allora, deve abbandonare la sua posizione non-interventista per correggere, attraverso la politica economica e sociale, le distorsioni del mercato.
Nelle conclusioni l’autrice evidenzia lo sgretolamento della shock economy, legato, in parte, alla scomparsa di alcuni dei suoi principali sostenitori, in parte al fallimento delle “terapie” liberiste e, infine, alla diffusione di nuove forme di resistenza. In particolare, Naomi Klein sottolinea l’importanza delle esperienze di alcuni paesi latino-americani dove la «ricostruzione dal basso» si è alimentata, insieme, del rinnovamento dei programmi “socialdemocratici” e dalla riscoperta dell’orgoglio nazionale. Ne sono testimonianza le misure dei governi: «nazionalizzazione di settori chiave dell’economia, riforma agraria, grossi investimenti nell’educazione, nell’alfabetizzazione e nella sanità».
Qui, però, risiede la debolezza del libro. Klein sembra affidare la cura del male a chi ha contribuito a produrlo, riproponendo, cioè, un capitalismo governato dall’intervento statale, seppure integrato dal controllo e dalla partecipazione di movimenti popolari radicali. Come se lo stato fosse una macchina neutrale e non il monopolista della violenza, pronta a utilizzarla indipendentemente dalle posizioni ideologiche dei governi e come se il capitalismo accettasse limiti, dettati da scrupoli etici, al suo accrescimento e la sua essenza non consistesse, invece, secondo un’intuizione già marxiana, proprio nella preparazione di «crisi più estese e più violente».
Lo stesso keynesismo – che l’autrice guarda con simpatia – è stato una riforma interna al capitalismo: ultimo episodio di una strategia volta a “spoliticizzare” la classe operaia e a disinnescarne la tensione rivoluzionaria, integrandola – attraverso l’accesso ai consumi, ad esempio – nel sistema.
Occorre, allora, sulla scia dei dati forniti da Klein, tornare, da un lato, a ripensare alla necessità del superamento dello stato in quanto tale per la costruzione di una sfera pubblica definitivamente emancipata dalla violenza e, dall’altro, al superamento del capitalismo insofferente a ogni forma di controllo e di regolazione, come la stessa storia del ‘900 ha ampiamente dimostrato.
In questo compito, ossia nella rivendicazione della propria estraneità alla distruttiva polarità rappresentata da capitale e stato, risiede la scommessa dei soggetti rivoluzionari di là da venire.