La differenza dei talenti naturali nei diversi uomini è in realtà assai minore di quanto noi crediamo; e l’ingegno assai diverso che sembra distinguere gli uomini di diverse professioni, quando sono pervenuti a maturità, è, in molti casi, non tanto la causa quanto l’effetto della divisione del lavoro. La differenza fra i caratteri più diversi, per esempio tra un filosofo e un facchino comune, sembra derivare non tanto dalla natura quanto dall’abitudine, dal costume e dall’educazione.
Adam Smith1A. Smith, La ricchezza delle nazioni, UTET, Torino, 1975, p. 94
Qualsiasi piano di educazione professionale che muova dal regime industriale quale esiste attualmente finisce col far proprie e perpetuare le divisioni e le debolezze di quest’ultimo, divenendo in tal modo uno strumento di attuazione del dogma feudale della predestinazione sociale.
John Dewey2J. Dewey, Democrazia e educazione, La Nuova Italia, Milano, 2000, p. 377
La pedagogia del novecento si è ripetutamente interrogata sulle modalità attraverso cui integrare il sapere pratico nei percorsi di apprendimento formale, in una prospettiva di superamento della divisione – sociale prima che culturale – tra chi è destinato a ricevere una formazione tecnico-professionale e chi invece una generale-umanistica. Il dibattito contemporaneo sull’apprendistato ci chiede oggi di porre il medesimo problema in forma rovesciata: a fronte di una crescita dei percorsi di formazione in situazione di lavoro, quale sapere teorico, non meramente tecnico-operativo, diviene indispensabile affinché chi sceglie – o è costretto a scegliere – tali percorsi sia in grado di sviluppare una comprensione analitico-critica, dunque potenzialmente trasformativa, dei processi produttivi, politici e sociali cui partecipa?
Uno degli aspetti più controversi delle recenti discussioni sul tema dell’apprendistato è rappresentato dall’idea secondo la quale sarebbe possibile – una volta realizzati i necessari interventi di ristrutturazione organizzativa e culturale dei luoghi del lavoro – giungere ad una autosufficienza educativa dell’impresa, rendendo quest’ultima capace di assolvere interamente alle esigenze formative della persona. Come scrive il pedagogista Giuseppe Bertagna:
«È nell’impresa, dunque, nel trovare, ciascuno per la sua parte, i modi di farla vivere e non morire, assumendosi le responsabilità delle proprie scelte ed accendendo tutte le occasioni per essere in grado nel concreto di impiegare (nel senso di piegare all’impresa) la conoscenza dispersa tra tanti e diversi individui vicini e lontani che ormai coincidono con il mondo che si impara a crescere, a mettere in gioco se stessi, i propri cari, gli altri e a darsi la forma possibile che si vuole, tenendo conto di quella che gli altri o le situazioni ci vogliono dare. Non c’è scuola migliore di questa. Anche sul piano dell’apprendimento del “sapere” (le conoscenze teoretiche delle scienze), del “saper fare” (conoscere le abilità tecniche e professionali) e dell’“essere” (dimostrare le competenze personali, che integrano le conoscenze e le abilità acquisite nell’agire bene, come si deve, nella complessità di ogni situazione)»3G. Bertagna, «Apprendistato e formazione in impresa», in M. Tiraboschi, (a cura di), Il testo unico dell’apprendistato e le nuove regole sui tirocini. Commentario al d.l. 14/9/2011, n.167, e all’art.11 del d.l. 13/8/2011, n.138, convertito con modifiche nella L. 14/9/2011, N.148, Giuffré, Milano, 2011.
Il soggetto non avrebbe dunque alcun bisogno di tempi e luoghi di apprendimento separati. Di più, si produrrebbe un’ideale convergenza tra i bisogni di crescita culturale e di autorealizzazione dello studente-lavoratore e le finalità produttive e commerciali dell’impresa. Inoltre, recuperandone il valore formativo, il «lavoro e il lavoro manuale in particolare» diverrebbero lo strumento pedagogico principale «sia sul piano tecnico-professionale, sia sul piano educativo e culturale ai fini dell’acquisizione delle competenze chiave di cittadinanza»4Percorsi formativi in apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione, Protocollo d’intesa per l’attuazione dell’art. 48 del decreto legislativo del 10 settembre del 2003 n. 276, Regione Lombardia, 2010, http://www.lavoro.regione.lombardia.it/shared/ccurl/490/3/Intesa%20MIUR-MLPS-RL%20apprendistato%20art.48.pdf. Il lavoro, dunque, come mezzo e come fine della formazione.
Nelle pagine che seguono cercheremo di illustrare alcuni limiti delle proposte pedagogiche che vedono nel lavoro il luogo elettivo dell’apprendimento. In particolare ci sembra che queste ultime:
1. non tengano conto di una delle acquisizioni fondamentali – in termini di progresso educativo e sociale – del dibattito pedagogico novecentesco, ossia l’affermazione della non autosufficienza della stessa formazione professionale, anche quando quest’ultima è attuata in contesti extra-lavorativi.
2. riflettano una rappresentazione a tratti irenica del mondo delle imprese. Alla base dell’idea di autosufficienza educativa dell’impresa, infatti, vi è spesso la convinzione che le innovazioni organizzative introdotte ultimi trent’anni – genericamente definite “post-fordiste” – abbiano rappresentato il superamento delle divisioni e dei conflitti che hanno attraversato e trasformato i luoghi della produzione dalla rivoluzione industriale in avanti. Il mondo delle imprese sarebbe oggi realmente in grado di soddisfare le esigenze dei diversi “stakeholder”, realizzando la logica dell’autonomia, del decentramento decisionale, della partecipazione, della valorizzazione delle persone, dell’apprendimento e dell’upskilling. In altre parole, un modello di organizzazione del lavoro progettato attorno alle esigenze dell’uomo. La sociologia industriale ha da tempo dimostrato come la realtà effettiva si sia progressivamente rivelata molto diversa da quella appena descritta.
3. non mettano a tema, all’interno della riflessione sul rapporto tra formazione e lavoro, due elementi centrali nella teoria marxiana dello sfruttamento: il carattere eteronomo del lavoro nel modo di produzione capitalistico, che permane al di là dell’evoluzione storica dei processi produttivi, e la dimensione strutturale – e quindi imprescindibile tanto nel momento dell’analisi, quanto in quello di un eventuale intervento – del conflitto di interessi all’interno dell’impresa moderna.
Scuola di cultura e scuola di professione
I primi due decenni del secolo scorso videro John Dewey impegnato in un lungo e acceso dibattito attorno alla configurazione che avrebbe dovuto assumere il nascente sistema pubblico di istruzione professionale. Il filosofo e pedagogista statunitense, nell’opporsi a quelli che lui definiva “progressisti amministrativi”, ebbe modo di esporre il suo pensiero riguardo il senso, i contenuti e i riflessi sociali della formazione professionale alla luce dello sviluppo della società industriale americana.
Quando Dewey definiva “disastrosa” la credenza secondo la quale non si poteva considerare ‘umanistica’ la formazione professionale, non intendeva affatto sostenere che quest’ultima fosse di per sé portatrice di insegnamenti morali e liberali. Al contrario, vedeva nella parzialità di tale formazione il suo limite principale:
«Oggi molto ovviamente si tende ad aiutare la preparazione dei giovani a ottenere impieghi e così guadagnarsi la vita. Ora, si possono preparare benissimo dal lato tecnico eppure licenziare dalle scuole dei diplomati che hanno una comprensione minima del posto tenuto nella vita sociale di oggi dalle industrie o professioni e di quello che queste professioni possono fare per rendere la democrazia una cosa viva e in sviluppo. […] Resta così insoddisfatta l’esigenza di fondere la conoscenza dell’uomo con quella della natura, la preparazione professionale con un profondo sentimento delle basi e delle conseguenza sociali dell’industria e delle professioni industriali nella società contemporanea»5J. Dewey, Problemi di tutti, Mondadori, Milano, 1950, p. 81
Dewey rifiutava la concezione della formazione professionale come semplice acquisizione di un sapere tecnico o come apprendimento esclusivo di un mestiere. Era convinto che tale modello, oltre a limitare le possibilità di crescita culturale e democratica degli studenti, non facesse altro che rafforzare, anziché ridurre, le disuguaglianze sociali di partenza.
Secondo il filosofo statunitense, «il principale ostacolo all’educazione democratica» era «la forte alleanza del privilegio di classe con le filosofie dell’educazione (ad iniziare da Platone) che dividevano nettamente la mente e il corpo, la teoria e la pratica, la cultura e l’utilità»6R. B. Westbrook, John Dewey e la democrazia americana, Armando Editore, Roma, 2011, p. 234. Un dualismo «esso stesso contenuto in un dualismo sociale: la distinzione tra la classe lavoratrice e la classe agiata»7Ivi, p. 235.
Dewey, di conseguenza, fu un oppositore del sistema doppio sostenuto dalle élites economiche dell’epoca, perché temeva che «il tipo di educazione professionale favorita dagli uomini d’affari e dai loro alleati fosse una forma di educazione di classe che avrebbe reso le scuole un più efficiente organismo per la riproduzione di una società antidemocratica»8Ivi, p. 237]. Era importante, dunque, «essere uniti contro ogni proposta, in qualsiasi forma sia portata avanti, di separare la formazione dei dipendenti dalla formazione per la cittadinanza, la formazione dell’intelligenza e del carattere dalla formazione per la ristretta efficienza industriale»9J. Dewey, Some dangers in the Present Movement for industrial Education, (1913), in The Middle Works, vol. 7, pp. 99, 102.
Il principale oppositore di Dewey fu il Commissario della Pubblica Istruzione del Massachussets David Snedden, sostenitore di un sistema di istruzione professionale finanziato dallo stato che rispondesse direttamente ai fabbisogni professionali specifici identificati dal mondo delle imprese10Si veda a questo proposito W. H. Drost, David Snedden and education for social efficiency, The University of Wisconsin Press, Madison, 1967, e A. Wirth, “Philosophical issues in the vocational-liberal studies controversy (1900-1917): John Dewey vs. The social efficiency philosophers”, Studies in Philosophy and Education, volume 8, numero 3, 1974, pp. 168-182. In una lettera di risposta alle critiche di Snedden, Dewey esplicitò chiaramente la funzione trasformativa che attribuiva alla formazione professionale rispetto al sistema industriale esistente:
«Il tipo di educazione professionale a cui sono interessato non è quella che adatterà i lavoratori al regime industriale esistente; non sono sufficientemente innamorato di questo regime per esservi interessato. Mi sembra che l’interesse di tutti coloro che non siano opportunisti educativi sia di resistere a qualsiasi movimento in questa direzione, e di combattere per un tipo di educazione professionale che prima di tutto cambi il sistema industriale esistente, e infine lo trasformi»11J. Dewey, Education vs. Trade-Training: Reply to David Snedden, (1915), in The Middle Works, vol. 8, p. 412, cit. In R. B. Westbrook, John Dewey e la democrazia americana, op. cit., p. 222.
Questa problematica, educativa e democratica insieme, accompagnò fin da subito anche il dibattito sulla formazione professionale nell’Italia repubblicana, giungendo ad un livello di elaborazione per certi aspetti più articolato e complesso rispetto alle riflessioni generali di Dewey. Sebbene oggi i maggiori contributi su questo tema provengano dalla pedagogia personalista d’ispirazione cattolica12Si veda di G. Bertagna, Pensiero manuale. La scommessa di un sistema educativo di istruzione e di formazione di pari dignità, Rubettino, Soveria Mannelli, 2006; Lavoro e formazione dei giovani, La Scuola, Brescia, 2011; Autonomia. Storia bilancio e rilancio di un’idea. Editrice La Scuola, Brescia, 2008, fino a non molti anni fa l’integrazione di sapere pratico-professionale e formazione generale ha storicamente rappresentato una delle proposte di riorganizzazione del sistema scolastico dell’area politica e culturale vicina al Partito Comunista Italiano. La pedagogia di matrice gramsciana ha sempre auspicato una scuola unica di lavoro intellettuale e manuale, che superasse l’opposizione tra scuola di cultura e scuola di professione. Esemplare di tale concezione è un documento della sezione scuola del PCI del 1968:
«Occorre superare fin da oggi la contrapposizione […] tra una formazione professionale e ridotta a semplice apprendimento tecnico di un mestiere, e quindi degradata culturalmente, in definitiva impostata già in partenza come preparazione e condanna ad un ruolo subalterno, ed una formazione culturale che invece tale sarebbe in quanto fondata su un ideale di cultura ‘disinteressata’, semplice scuola-ponte […] per selezionare l’elite destinata agli studi superiori. L’obiettivo centrale è quello di rompere e superare questa gerarchia a compartimenti stagni, che è culturalmente arretrata, professionalmente inadeguata rispetto alle esigenze ormai maturate nello stesso sviluppo sociale, intimamente discriminatrice e classista»13Documento pubblicato in Riforma della scuola, n. 4, anno XIV, aprile 1968.
Nel 1972 i deputati comunisti presentarono una proposta di legge ispirata a tale visione, primo firmatario Marino Raicich14M. Raicich, La riforma della scuola media superiore. Il testo integrale della relazione sulla proposta di legge presentata alla Camera dai deputati comunisti, Roma, Editori Riuniti, 1973, che tuttavia non fu approvata.
La preoccupazione per l’eccessiva divaricazione tra percorsi scolastici umanistici e percorsi professionalizzanti non nasceva da presupposti esclusivamente educativi o morali. Vi era la consapevolezza che la formazione professionale aveva storicamente operato come freno alla mobilità sociale, attraverso meccanismi di canalizzazione precoce15«La mossa principe, il colpo sicuro del potere è nel controllo discriminato degli accessi al lavoro. È a questo che il potere politico-economico – proprio in quanto potere fondamentale che agisce attraverso il controllo delle forze produttive, e in particolare degli effetti della divisione del lavoro – non potrà e non vorrà ai rinunciare» (cfr. A. Santoni Rugiu, Crisi del rapporto educativo, La Nuova Italia, Milano, 1975, p. 38 e di socializzazione al lavoro finalizzati a selezionare e dirigere i giovani verso posizioni prestabilite entro le nicchie create dalla crescente divisione sociale del lavoro16H. Kantor, «Work, education, and vocational reform: The ideological origins of vocational education», American Journal of Education, 94, 1986, pp. 401-426. Il superamento della divisione tra sapere tecnico e cultura generale era considerato dunque un intervento necessario per contrastare il darwinismo sociale insito nell’idea diffusa – oggi come allora – che le diversità individuali (la cui origine sociale si perde ogniqualvolta la teoria economica liberista si intreccia con le concezioni psicologiche innatiste) rappresentino la base naturale di una economia stratificata.
Per questo la pedagogia progressista italiana sosteneva la necessità di concepire istruzione e lavoro, pur nel rispetto delle differenze specifiche, come «un unico blocco di problemi», e la realizzazione del diritto allo studio come «momento preliminare del diritto del lavoro»17A. Santoni Rugiu, Crisi del rapporto educativo, op. cit., p. 182. La scolarizzazione di massa era vista come un fattore di squilibrio e di critica radicale delle dinamiche vigenti nel mercato del lavoro. Lo sviluppo economico degli anni sessanta – unitamente al ciclo di lotte operaie che si erano dimostrate capaci di introdurre elementi di rigidità nel mercato del lavoro – aveva alimentato una certa fiducia nel carattere progressivo e irreversibile di tale processo.
Un percorso formativo unitario era inoltre ritenuto, come nel caso di Dewey, fondamentale per l’educazione alla cittadinanza e la partecipazione attiva alla vita politica del paese: «la tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo significare che un operaio manovale diventa qualificato, ma che ogni cittadino può diventare governante e che la società lo pone, sia pure astrattamente, nelle condizioni generali di poterlo diventare»18A. Broccoli, Antonio Gramsci e l’educazione come egemonia, La Nuova Italia, Milano, 1972, pp. 186-187.
Sia nelle proposte di Dewey che in quelle emerse all’interno dibattito italiano, pur attento all’insieme di rapporti complessi che intercorrono tra educazione e divisione sociale del lavoro, sono riscontrabili due limiti teorici: 1) un’eccessiva fiducia – o speranza – nell’efficacia causale dell’educazione; 2) l’assenza di un’analisi dettagliata delle trasformazioni organizzative della produzione a partire dalla forma specifica che il processo di lavoro assume nel modo di produzione capitalistico.
Nelle pagine che seguono cercheremo di comprendere in che modo la dimensione relazionale (o sociale) che nasce dagli elementi oggettivi del processo di lavoro partecipi a definire e organizzare l’esperienza dei soggetti coinvolti, e di mostrare l’importanza di tale dimensione per l’elaborazione di una riflessione pedagogica attorno al tema del lavoro. Adotteremo perciò un approccio critico-analitico e interdisciplinare, che cerca di affrontare la tematica educativa attraverso strumenti diversi ed eterogenei, al fine di coglierne innanzitutto le determinazioni storiche. Questo modo di intendere la pedagogia antepone l’indagine della realtà sociale e storica al discorso di carattere predittivo-prescrittivo che contraddistingue altri modelli pedagogici19«Dunque, ci sono due modi di fare pedagogia; l’uno edificatorio che con una serie di operazioni di occultamento e di deformazione della realtà assume l’intercalare del ‘deve’, una sorta di tic della volontà con il risultato di un cedimento alla situazione di fatto, l’altro che analizza la realtà, e a una tale analisi condiziona ipotesi, ricerche proposte. I due modi si caratterizzano anche come ottimismo evasivo (ben disposto però a ritornare sulla terra del conformismo) e come impegno di lotta che il pessimismo rischia di spegnere» (crf. F. De Bartolomeis, Scuola e tempo pieno, Feltrinelli, Milano, 1972, p. 6).
Inizieremo, tuttavia, con una breve ma necessaria ricostruzione storica di alcuni passaggi del dibattito sul rapporto tra educazione e divisione sociale del lavoro a partire dalla rivoluzione industriale.
Il conflitto tra istruzione e meccanizzazione
Nella La Ricchezza delle Nazioni, dopo aver illustrato le grandi potenzialità della divisione sociale del lavoro, Adam Smith ne evidenziava i possibili effetti negativi in termini di impoverimento professionale, culturale e psicologico del lavoratore:
«Col progredire della divisione del lavoro, l’occupazione della maggioranza di coloro che vivono del lavoro, ossia la massa della popolazione, si restringe progressivamente a poche operazioni molto semplici, e spesso ad una sola o a due operazioni. Ora, l’intelligenza della maggioranza degli uomini si forma necessariamente con l’ordinaria loro occupazione. L’uomo che passa la vita nel compiere poche semplici operazioni, i cui effetti, inoltre, sono forse gli stessi o quasi, non ha alcuna occasione di esercitare la sua intelligenza o la sua inventiva nel trovare espedienti che possano superare difficoltà che egli non incontra mai. Egli quindi perde naturalmente l’abitudine di esercitare le sue facoltà ed in generale diventa stupido ed ignorante, come è possibile che una creatura umana lo diventi. Il torpore del suo spirito non soltanto lo rende incapace di gustare o di prendere parte ad una conversazione razionale, ma anche di concepire alcun sentimento generoso, nobile e tenero e quindi di formarsi un giudizio giusto persino su molti dei doveri ordinari della vita privata. Sui grandi e vasti interessi del suo paese egli è affatto incapace di giudicare»20A. Smith, La ricchezza delle nazioni, op. cit., p. 263. È famosa l’ironia con cui Marx, nel capitolo dodicesimo del libro primo del Capitale, commentò questa proposta di Smith: «Per impedire la completa atrofia della massa del popolo, derivante dalla divisione del lavoro, A. Smith raccomanda l’istruzione popolare statale, seppure a prudenti dosi omeopatiche» (cfr. K. Marx, Il Capitale, libro I, cap XII).
Per contrastare il degrado delle facoltà intellettuali e sociali dell’individuo, Smith suggeriva di predisporre un sistema scolastico universale e finanziato dallo Stato, che offrisse a tutti la possibilità di apprendere i fondamenti del leggere, dello scrivere e del far di conto: «il pubblico può facilitare questa acquisizione» – scriveva Smith – «stabilendo in ogni parrocchia o distretto una piccola scuola in cui i ragazzi possano essere istruiti dietro un compenso così basso da poter essere pagato anche da un lavoratore comune»21A. Smith, La ricchezza delle nazioni, op. cit., p. 928.
La soluzione indicata da Smith, che attribuiva alla scuola una funzione compensatoria e civilizzatrice, conteneva un elemento di possibile contraddizione e conflitto che, con lo sviluppo industriale, non avrebbe tardato a manifestarsi. La formazione generale impartita nella scuola era destinata, infatti, ad alimentare conoscenze, capacità riflessive, sensibilità e aspettative difficilmente compatibili con l’angusta parzialità del lavoro industriale.
Émile Durkheim, nel saggio La divisione del lavoro sociale, fu tra i primi a comprendere che la crescita del livello di istruzione dei lavoratori sarebbe entrata in un conflitto socialmente rilevante con la meccanizzazione dell’industria: «se si prende l’abitudine dei vasti orizzonti, delle visioni d’insieme, delle belle generalità, non ci si lascia più confinare senza impazienza negli stretti limiti di un compito specifico. Un rimedio di questo genere renderebbe quindi la specializzazione inoffensiva, soltanto rendendola intollerabile e, di conseguenza, più o meno impossibile»22E. Durkheim, La divisione del lavoro sociale, Edizioni di Comunità, Torino,1999, p. 113. Anche il filosofo Nietzsche, quando polemizzava duramente contro l’obbligo scolastico e contro la conquista da parte della maggioranza della popolazione degli strumenti della cultura, era preoccupato innanzitutto dell’effetto destabilizzante dell’istruzione diffusa: «Se si vogliono degli schiavi – e di essi si ha bisogno – non si devono educare come padroni»23F. Nietzsche, Opere di Friedrich Nietzsche, vol. VIII, II, p. 241.
Vittorio Foa, in un capitolo de La Gerusalemme rimandata intitolato non a caso “Educazione, fonte di conflitto”, annovera l’aumento dell’istruzione dei lavoratori industriali tra le cause dell’Industrial unrest nell’Inghilterra degli anni dieci. Foa riporta a questo proposito alcune annotazioni del Barone George Askwith, alto funzionario dell’amministrazione centrale inglese e autorevole mediatore nei conflitti di lavoro. Nel volume Industrial Problems and Disputes (1920), Askwith esprimeva una forte preoccupazione per l’assenza di prospettive e la delusione dei giovani scolarizzati nel momento in cui abbandonavano la scuola per entrare nel mondo del lavoro industriale:
«Il ragazzo trovava che l’indirizzo educativo della scuola era ora rovesciato. A scuola si tentava con ogni mezzo di allargare ed espandere al sua mente al punto che si chiedeva che uso si sarebbe fatto di tutte le materie che facevano studiare. Adesso era il contrario. Il lavoro era chiuso, limitato e ristretto: il ragazzo era incoraggiato a diventare provetto in una o poche operazioni, non ad acquistare una conoscenza generale di un lavoro. […] Il ragazzo che lascia il suo addestramento scolastico scopre in fabbrica che il lavoro parcellare è il destino della sua vita. […] La maggioranza cade nella delusione e la conseguenza della delusione è l’amarezza e quindi l’antagonismo al sistema cui si attribuisce la causa della situazione»24Cit. in V. Foa, La Gerusalemme rimandata, Einaudi, Torino, 2009, p. 87-88.
La contraddizione tra meccanizzazione e istruzione aveva di fatto raggiunto una soglia critica nei primi decenni del ‘900, con la diffusione dell’organizzazione scientifica del lavoro. Inoltre, dopo la seconda guerra mondiale, il relativo benessere materiale delle classi subalterne nei paesi industrializzati e la scolarizzazione di massa avevano favorito ulteriormente l’emergere di nuove esigenze di autorealizzazione da parte dei lavoratori, da cui derivò una minore accettazione di ruoli disagiati e subordinati.
La tensione emerse in maniera dirompente negli anni cinquanta e sessanta, quando la parcellizzazione dei processi di lavoro fu sottoposta ad una severa critica proveniente da più parti. La sociologia e la psicologia industriale ne denunciarono gli elementi disfunzionali dal punto di vista della produzione (che richiedeva sempre di più la cooperazione cosciente e responsabile da parte delle sue componenti) e del controllo della forza-lavoro (i lavoratori culturalmente più preparati acquisivano una forza sempre maggiore, in termini di consapevolezza e di sapere-potere, per opporsi a rapporti di produzione di tipo autoritario). Anche in questo frangente, i teorici del management riconobbero all’istruzione un ruolo chiave nel generare aspettative di crescita professionale e insofferenza nei confronti dei processi di lavoro parcellizzati: «man mano che i dipendenti raggiungono un maggior livello di istruzione» – scriveva il famoso psicologo delle organizzazioni Rensis Likert nel 1961 – «crescono le loro aspettative riguardo al livello di responsabilità, autorità e reddito di cui potranno godere»25R. Likert, Nuovi modelli di direzione aziendale, Franco Angeli, Milano, 1973, p. 89. Alle stesse conclusioni giunse nel 1964 il sociologo Robert Blauner, dopo aver condotto un’indagine comparata in quattro diversi settori (grafico, meccanico, tessile, chimico) dell’industria americana: “Uno dei fattori più importanti nel determinare le aspirazioni di un individuo verso il lavoro è l’istruzione. Quanto maggiore è il grado di istruzione, tanto maggiore è il bisogno di controllo e di creatività”26R. Blauner, Alienazione e libertà, Franco Angeli Editore, Milano, 1971, p. 134. Contemporaneamente una critica alla parcellizzazione provenne dai lavoratori della grande industria e dalle loro organizzazioni, che rivendicavano il diritto alla rotazione delle mansioni e al controllo dell’intero ciclo produttivo:
«Alle linee delle puntatrici gli operai si prendono l’esaurimento nervoso con le migliaia di punti che danno in un giorno e che risuonano dentro la testa come tanti colpi di martello. Un operaio non può impazzire facendo sempre questa operazione: bisogna scambiarsi le mansioni, fare diversi lavori e controllare tutto il ciclo di produzione. Tocca agli operai che ci lavorano dire come devono essere distribuite le mansioni e quanti uomini ci devono essere in una squadra per il numero di pezzi che si fanno in un giorno. Imporre la rotazione delle mansioni vuole anche dire impedire alla Fiat di tagliare continuamente i tempi, cosa che invece succede quando l’operaio è costretto a ripetere sempre come una macchina la stessa operazione”27M. Cacciari, Ciclo capitalistico e lotte operaie. Montedison, Pirelli, Fiat, 1968, Marsilio, Padova, 1969, p. 81.
Alle tensioni sopracitate fece seguito una stagione caratterizzata dall’introduzione di nuovi modelli di organizzazione del lavoro, che miravano ad incrementare la produttività attraverso un maggiore coinvolgimento dei lavoratori: teamwork, total quality management, empowerment, decentramento delle responsabilità e delle decisioni divennero le parole d’ordine in molti settori.
Le nuove forme di organizzazione del lavoro
Ad uno sguardo superficiale, queste innovazioni sembrano rispondere alla domanda di maggior potere – empowerment, appunto – e di maggiore partecipazione da parte dei lavoratori, che vengono coinvolti sempre di più nel processo decisionale; in questo modo si riduce la necessità di una linea gerarchica di supervisione diretta. E al beneficio per i lavoratori si aggiunge quello dell’impresa, perché la nuova organizzazione aumenta la produttività e, allo stesso tempo, si “snellisce”, abbattendo i costi relativi.
La retorica manageriale vede in questa nuova logica organizzativa un cambiamento epocale: la fine del fordismo – e, con esso, del conflitto industriale – e l’inizio una nuova era contraddistinta dalla cooperazione attiva e consapevole tra i vari soggetti coinvolti nel processo di lavoro.
Molte ricerche28cfr. B. Harrison, Lean and Mean: Why Large Corporations Will Continue to Dominate the Global Economy, Guilford Press, New York, 1997; D. Gordon, Fat and Mean: The Corporate Squeeze of Working Americans and the Myth of. Managerial “Downsizing”, Free Press, New York, 1996; M. Parker, J. Slaughter, “Management-by-stress: The team concept in the US auto industry”, Science as Culture, volume 1, fascicolo 8, 1990, dalla fine egli anni ottanta in avanti, hanno mostrato come la realtà effettiva di queste innovazioni sia ben diversa dalla rappresentazione che ne offre il discorso manageriale dominante. Da subito si è potuto verificare come, nei luoghi di lavoro ristrutturati secondo questi nuovi modelli, non si realizza un reale ampliamento delle possibilità di regolazione autonoma da parte dei lavoratori – così come non si allargano i margini di discrezionalità (intesa come possibilità di scelta vincolata entro un contesto di dipendenza). Al contrario, la nuova logica organizzativa tende ad «incrementare il grado di eteronomia dei processi di lavoro»29. Masino, Le imprese oltre il fordismo. Retorica, illusioni, realtà, Carocci, Roma, 2005, p. 70. I momenti di parziale autonomia, quando si affida ai lavoratori il compito di individuare i miglioramenti possibili, sono immediatamente negati, perché «tali miglioramenti, una volta identificati, sono destinati (proprio come nella più convenzionale logica fordista-taylorista) a essere codificati e standardizzati, dunque a diventare parte della mansione predefinita e imposta. […] In un certo senso, il cronometro, simbolo dell’intervento sul lavoro da parte dello scientific management, passa dalla mano di Taylor a quella del lavoratore: è lui stesso a provvedere alla taylorizzazione del proprio lavoro»30Ivi, p. 73. Le prassi di miglioramento continuo, dunque, estendono e perfezionano il taylorismo, offrendo all’impresa una inedita possibilità di utilizzo delle competenze e delle conoscenze implicite del lavoratore. Inoltre, la maggiore responsabilità di quest’ultimo, attuata in un contesto di minore autonomia reale e di maggiore sorveglianza, si rivela «una strategia di costrizione, non di motivazione»31Ivi, p. 74.
Un discorso analogo può essere fatto per il settore terziario e per tutti i lavori caratterizzati da un alto contenuto e domanda di conoscenza. Anche in questo caso il processo di apparente ri-soggettivazione del lavoro – da cui ci si attenderebbe maggiore autonomia, creatività e responsabilità per il lavoratore – nasconde in realtà nuove forme di subordinazione e controllo, spesso più efficaci delle classiche modalità industriali. La diffusione delle Information and Communication Technologies, inoltre, ha permesso di applicare al cosiddetto «lavoro cognitivo» i principi dell’organizzazione scientifica del lavoro, disciplinando e standardizzando i processi lavorativi legati alle tecnologie numeriche e digitali. Se poi al taylorismo digitale32Cfr. P. Brown, H. Lauder, D. Ashton, The global auction: the broken promises of education, jobs and incomes, Oxford University Press, New York, 2011 aggiungiamo la competizione globale cui sono esposti i lavoratori della conoscenza, anche e soprattutto quelli più qualificati (un progettista indiano costa, a parità di qualifica e di capacità, dieci volte meno di un suo collega statunitense), queste figure sembrano destinate ad un progressivo impoverimento professionale, accompagnato da un sensibile indebolimento del loro potere contrattuale nel mercato del lavoro.
Anche la tesi secondo la quale le condizioni attuali e future del mercato del lavoro richiederebbero un livello sempre maggiore di conoscenze non ha trovato conferma nei risultati della ricerca empirica. Al contrario, sembra essersi affermata la tendenza opposta, ossia la crescita della domanda di posti di lavoro dequalificati e instabili in particolare nel settore dei servizi (telecomunicazioni, turismo e ristorazione, assistenza clienti, distribuzione e vendita di prodotti alimentari, assistenza ad anziani e disabili…)33P. Thompson, “Disconnected capitalism: Or why employers can’t keep their side of the bargain”, Work, Employment & Society, 17(2), 2003. Molte ricerche hanno evidenziato come, all’interno di questo trend occupazionale, vi sia una forte tendenza a privilegiare le competenze sociali e le qualità estetiche dei lavoratori e delle lavoratrici, a scapito delle conoscenze tecniche, delle competenze cognitive e dei titoli di studio34C. Warhusrt, D. Van Den Broek, R. Hall, “Lookism: The New Frontier of Employment Discrimination?”, Journal of Industrial Relations, 51, 131, 2009. Inoltre, la maggior parte di coloro che sono considerati lavoratori della conoscenza svolgono mansioni dequalificate con un bassissimo contenuto cognitivo35«se si osserva il contenuto del lavoro svolto da queste figure, è facile riscontrare “processi di depauperamento dell’uso della conoscenza, in alcuni casi, più gravi dell’800. Infatti il fatto che un lavoratore stia adoperando un macchinario sofisticatissimo, nulla depone sul fatto che egli sia un lavoratore della conoscenza» (F. Garibaldo, Il ritorno del rapporto Lavoro – Capitale come categoria analitica, <www.francescogaribaldo.it>).
Ad ogni modo, l’elemento di continuità, nell’evoluzione dei processi produttivi, sembra essere proprio la progressiva espansione e generalizzazione del carattere eteronomo della produzione capitalistica, che occupa una posizione centrale nella concezione marxiana del processo di lavoro.
La socializzazione eteronoma del lavoro
Secondo Marx il tratto specifico del processo di lavoro nel modo di produzione capitalistico è rappresentato dalla sua unità con il processo di estrazione del plusvalore, di cui rappresenta lo snodo centrale. Il processo di produzione immediato, infatti, si colloca tra due atti circolatori: la compravendita della forza-lavoro, all’inizio del circuito capitalistico, e lo scambio monetario nel mercato delle merci alla fine36«La relazione tra capitale e lavoro si costituisce in due luoghi intimamente connessi, preliminari allo scambio finale sul mercato della merci. Innanzi tutto, sul mercato del lavoro: meglio nella compravendita della forza-lavoro. Poi, e come conseguenza, nel processo di lavoro come processo capitalistico» (R. Bellofiore, Marx oltre Marx, Manifestolibri, Roma, 2011, p. 227). Nel capitalismo il pluslavoro si trasforma in plusvalore, che si realizza come profitto nel mercato.
Ai fini di una crescita sempre maggiore dei profitti, si rende necessario un comando diretto sulla produzione, che permetta di controllare non solo i prodotti del lavoro, ma il processo di lavoro stesso. Tale comando si esprime compiutamente nel passaggio dalla sussunzione formale alla sussunzione reale37«Lo sfruttamento tipicamente capitalistico è peraltro eminentemente non trasparente. Si dà in quella situazione sociale in cui il capitale è ormai giunto a determinare la stessa forma tecnica e organizzativa della produzione, e provvede ciclicamente a svuotare le possibilità di controllo dei lavoratori sui tempi e sulla qualità del lavoro […] lo sfruttamento non va inteso tanto come l’appropriazione di un plusprodotto o di un pluslavoro, fenomeni ampiamente presenti anche nelle formazioni sociali precapitalistiche; va piuttosto visto come l’imposizione e il controllo, diretto e indiretto, che gravano su tutto il lavoro per ottenere il pluslavoro. Il lavoro è sfruttato perché è lavoro forzato e eterodiretto già nel momento della produzione. Si tratta di una circostanza specifica del capitalismo, in qualche modo della sua differenza specifica» (R. Bellofiore, Marx rivisitato: capitale, lavoro, sfruttamento, in «Trimestre», n. 1-2, 1996, pp. 29-86).
Il processo di socializzazione del lavoro si configura così come un processo di “socializzazione eteronoma”, la cui unità con il processo di valorizzazione del capitale ne determina la tendenziale e continua espansione. Le varie innovazioni organizzative che si sono susseguite negli ultimi decenni, comprese quelle che sembrano proporre una rinnovata possibilità di controllo e di autonomia del lavoratore, nascono e si sviluppano entro uno spazio vincolato la cui finalità ultima è la valorizzazione del capitale. In altre parole, l’eterodirezione – sempre crescente per grado e ampiezza – è il tratto specifico fondamentale del processo di lavoro nel modo di produzione capitalistico, a prescindere dai diversi livelli di qualificazione, mansione e inquadramento dei lavoratori.
Per questo l’organizzazione del lavoro rimane di fatto una struttura imperativa, che implica necessariamente una tensione tra ruoli di comando e ruoli di subordinazione, una diseguale distribuzione dell’autorità, e che rovescia l’eguaglianza formale che caratterizza i rapporti di lavoro nel capitalismo:
«Come sosteneva K. Renner, mentre nella stipulazione del contratto assistiamo all’autonomia delle libere volontà, successivamente si afferma un contesto di eteronomia della volontà, e l’organizzazione del lavoro è il luogo in cui la prestazione diviene immediatamente sociale, ma anche subalterna ad una logica organizzativa esterna alle singole volontà. l’uguaglianza formale si esaurisce nel momento della compravendita di forza lavoro, e scompare nell’esecuzione del rapporto di lavoro, ovvero nella fase in cui il lavoro è inserito nel processo lavorativo»38S. Leonardi, “Partecipazione e comando nell’impresa fordista ed in quella post-fordista”, in Rivista Critica di Diritto del Lavoro, 1, 1996, p. 107
Infatti, la scienza giuridica ha più volte riconosciuto che il diritto del lavoro, oltre all’istanza protettiva, assolve anche alla funzione di «formalizzazione giuridica (e, dunque, alla legittimazione) dei rapporti di potere propri del modo di produzione sorto con la rivoluzione industriale»39M. G. Garofalo, “Un profilo ideologico del diritto del lavoro”, Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, n. 81, 1999, 1, pp. 9-31.
Pedagogia sociale e processo produttivo
Se si assume questa prospettiva, e se ne traggono le conseguenze, l’autosufficienza educativa dell’impresa non appare più come una metodologia neutrale e innovativa per acquisire la padronanza di un mestiere (e di non meglio specificate competenze di cittadinanza), bensì come una strategia di socializzazione e disciplinamento ideologicamente connotata. Il riconoscimento della dimensione strutturale del conflitto e della relazione di potere entro i rapporti di lavoro fa emergere, nel momento in cui si affronta il tema della formazione del lavoratore, la necessità di una mediazione pedagogica che non può essere demandata interamente all’azione unilaterale dell’impresa.
Nella prima parte di La pedagogia come scienza, il pedagogista Francesco De Bartolomeis insiste sulla necessità di liberare la problematica pedagogica «sia dall’esclusivismo filosofico e dalle sue generalizzazioni azzardate, sia dalle approssimazioni e dalle angustie di un punto di vista empirico, didattico in senso deteriore, cioè incapace di fondazione critica, di sistematicità e di controllo dei suoi procedimenti»40F. De Bartolomeis, La pedagogia come scienza, La Nuova Italie, 1961, p. XVII. Queste due tendenze regressive rappresentano un rischio sempre attuale nel dibattito pedagogico. In entrambi i casi, la restrizione del campo d’indagine del pedagogista, in una direzione o nell’altra, impedisce di interrogare la complessa dialettica scuola-società, ossia l’insieme di processi sociali, politici ed economici che determinano le coordinate materiali entro cui operano le scienze dell’educazione. In altre parole, ciò che si perde è la ragione stessa della pedagogia sociale, intesa come sapere che si costituisce attorno al «nesso tra assetto sociale e teoria educativa»41D. Izzo, Pedagogia Sociale, La Scuola, Brescia, 2001, p. 13, e che vede l’azione educativa «necessariamente iscritta nei percorsi storici di sviluppo della società»42M. Striano, Introduzione alla pedagogia sociale, Laterza, Bari, 2004, p. 63 e, quindi, della produzione.
Di fronte al tema del lavoro, la pedagogia ripropone spesso la divaricazione individuata da De Bartolomeis: da un lato troviamo l’interrogazione filosofica sul lavoro in quanto generica attività di trasformazione della natura da parte dell’uomo; dall’altro una serie di analisi e proposte legate a particolari modelli di organizzazione del lavoro, cui spesso viene attribuita una centralità che non trova riscontro nei risultati della ricerca scientifica – economica e sociologica – sulle trasformazioni del mercato del lavoro e dei processi produttivi. È il caso, ad esempio, delle molte riflessioni pedagogiche che, più o meno esplicitamente, assumono come scenario presente e futuro la cosiddetta ‘economia della conoscenza’43Si prenda ad esempio questa affermazione contenuta in un recente manuale di pedagogia sociale: «La riconfigurazione dei processi produttivi ha prodotto da un lato uno sfrondamento di ruoli e funzioni non più necessari, in quanto soppiantati da dispositivi tecnologici sempre più sofisticati, dall’altro una rapidissima rideterminazione di expertise soggettive soggette a costante aggiornamento; ne è conseguita, in particolare per alcune nicchie di mercato, una significativa sfasatura tra richieste di nuove competenze e la presenza di forza-lavoro non più qualificata, il che riflette indubbiamente una generale incongruenza […] tra domanda e offerta occupazionale, cui non rispondono valide strategie di progettazione dell’offerta formativa, che risulta così inadeguata alle trasformazioni economiche, politiche, sociali in termini di conoscenze e competenze» (M. Striano, Introduzione alla pedagogia sociale, op. cit., p. 37).
È possibile avanzare un’ipotesi di ricerca in pedagogia sociale e del lavoro fondata su presupposti differenti rispetto a quelle sopraccitate? Una riflessione che indaghi il lavoro a partire dalla forma specifica che questo assume nel modo di produzione capitalistico, in una prospettiva generale, dunque, ma storicamente determinata? E, una volta delineate le caratteristiche del processo di lavoro e gli aspetti sociali, economici e politici ad esso collegati, quali saperi, conoscenze e competenze sono necessari affinché il soggetto che affronta percorsi di formazione in situazione di lavoro sia in grado di comprendere la struttura educativa latente44Secondo Raffaele Mantegazza, uno dei presupposti imprescindibili del rapporto tra ideologia ed educazione è la “demistificazione della struttura educativa latente in atto in quella peculiare forma di costituzione di soggettività che è presente nei rapporti concreti di produzione e nell’organizzazione del lavoro, e che non si arresta a quell’ambito giungendo invece a colonizzare trasversalmente le altre dimensioni della vita umana associata” (R. Mantegazza, Filosofia dell’educazione, Mondadori, Milano 1998, pp. 156-157) nell’organizzazione del lavoro e le reali coordinate materiali del proprio agire entro la dimensione sociale dei processi di lavoro? Si tratta certamente di una prospettiva di ricerca inesplorata, attorno alla quale è però possibile verificare la capacità decostruttiva, prima, e propositiva, poi, della mediazione pedagogica. Anche a partire da quella che il pedagogista Raffaele Mantegazza definisce la «curvatura specificamente pedagogica dello sfruttamento»:
«Si tratta di far emergere i dispositivi di questa curvatura, leggendo in determinato uso dello spazio, in determinate scansioni di tempi, in un rinnovato investimento sui corpi, in pratiche linguistiche, segniche, simboliche, degli elementi che, nel loro insieme, costituiscono un massiccio investimento sull’individuo, volto a renderne possibile un sfruttamento integrale e senza residui»45R. Mantegazza, “Il problema della formazione nella “Situazione della classe operaia in Inghilterra”, comunicazione al Convegno Fredrich Engels. 1820-1895, Università degli Studi, Milano, 1995, cit. in. R. Mantegazza, Filosofia dell’educazione, op .cit, p. 158.
Il sapere tecnico e professionale è tutt’altro che un sapere neutrale46Come ha scritto Franco Fortini in un breve ma interessante contributo sul rapporto tra scuola e mondo del lavoro: «I sistemi delle tecniche contengono entro di sé, in gradi diversi, i sistemi di valori (ossia le costellazioni ideologiche). La loro visibilità muta però a seconda del contesto sociale e storico in cui si manifestano. È difficile scorgere la presenza di un sistema di valori nell’insegnamento della tecnica per l’uso di una fresatrice mentre è facilissimo scorgerlo nell’insegnamento della tecnica per l’uso di un documento storico» (F. Fortini, Un giorno o l’altro, Quodlibet, Macerata, 2006, p. 393), essendosi sviluppato entro i vincoli descritti sopra, e necessita, per essere realmente padroneggiato, di uno sforzo conoscitivo, riflessivo e critico che non può maturare spontaneamente nell’ambito ristretto della sua applicazione pratica.
Ridurre l’apprendimento di una tecnica all’esperienza particolare e contingente del singolo processo produttivo significa condannare il soggetto a farne un utilizzo limitato e prestabilito, a divenire strumento dello strumento. In questo modo si offre al lavoratore una formazione frammentaria e parziale, che per di più lo espone al rischio di una rapida obsolescenza professionale. Lo stesso discorso vale per qualunque progettazione dell’offerta formativa costruita a partire dalle esigenze immediate della tessuto produttivo.
Sicuramente il mondo delle imprese non è interessato a offrire a ciascun lavoratore conoscenze scientifiche, progettuali e operative tali da consentire una maggiore padronanza della tecnica e, allo stesso tempo, una comprensione più ampia del mondo della produzione, perché una formazione del genere entrerebbe in conflitto con le esigenze di controllo del processo produttivo e con la struttura gerarchica dell’organizzazione del lavoro. Inoltre richiederebbe un investimento in termini di tempo e costi che la maggior parte delle imprese non è disposta a sostenere (in particolare nella realtà italiana, caratterizzata da una ridotta dimensione delle imprese) .
Anche per questa ragione è importante stabilire vincoli normativi che mantengano spazi e tempi di apprendimento separati: non solo per offrire contenuti formativi eterogenei, ma anche per permettere all’apprendista, o al lavoratore in formazione, di sviluppare un rapporto critico-riflessivo con il sapere tecnico e professionale. Ciò può avvenire solo all’interno di un contesto non interamente subalterno alla logica organizzativa e alle finalità dell’impresa.
In conclusione, non si tratta di assegnare all’educazione il compito di negare ciò che può essere negato solamente con la modificazione storica dei rapporti sociali di produzione. È possibile, però, mantenere, nella reciproca contaminazione, una separazione funzionale tra formazione e produzione, che permetta al soggetto da un lato di riflettere criticamente sul proprio agire, dall’altro di ricevere una formazione professionale sempre eccedente rispetto a quella appresa nel contesto lavorativo in cui si trova temporaneamente ad operare.
Il presente contributo è l’adattamento di un articolo dal titolo «La contraddizione tra autonomia dei processi educativi ed eteronomia dei processi produttivi», precedentemente pubblicato sulla rivista CQIA Rivista. Formazione, Lavoro, Persona, (5), pp. 82-93, 07/2012.
Note