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Ogni conflitto è aperto alla trasformazione nonviolenta. Johan Galtung 1930-2024

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Johan Galtung, amico e maestro del Centro Studi Sereno Regis di Torino dove più volte è passato per incontri, lezioni, seminari e discussioni, è scomparso sabato 17 febbraio 2024. Nato a Oslo in Norvegia il 24 ottobre 1930, Galtung è stato un pioniere e luminare della ricerca sulla pace, oltre che un costruttore di istituzioni dedicate allo studio delle dinamiche dei conflitti e dei possibili percorsi per le loro soluzioni nonviolente. Da tutti descritto come persona molto intelligente e capace di ampia articolazione, è considerato uno degli scienziati sociali norvegesi più influenti e citati in assoluto assieme a molte delle sue opere, che si contano in circa 160 libri e 1600 articoli o brevi saggi. È stato inoltre fondatore della rete TRANSCEND International e rettore della TRANSCEND Peace University online. Questo testo, che trascrive e riassume in modo estremamente sintetico le idee di Galtung, è stato elaborato da un lato per rendere omaggio a un pensatore contemporaneo e alla sua opera fondamentale sui temi della pace, dall’altro per offrire ai lettori di “Altronovecento” un percorso di lettura che, per quanto grossolano, potrà fornire spunti di riflessione a quanti siano interessati ai concetti fondamentali delle tecniche di risoluzione nonviolenta dei conflitti.

Introduzione

“Senza di lui, l’Istituto per la ricerca sulla pace di Oslo (PRIO) non esisterebbe”, ha dichiarato Henrik Urdal, attuale direttore dell’istituto. Galtung fu infatti cofondatore del PRIO nel 1959 e a lungo, fino al 1970, suo direttore. Nel 1964 fondò il “Journal of Peace Research” e nel 1969 fu il primo docente universitario al mondo nominato in cattedra su temi di ricerca sui conflitti e sulla pace, all’Università di Oslo. Fra le teorie dal lui sviluppate ricordiamo quella strutturale dell’imperialismo, riassunta nel volume Imperialismo e rivoluzioni. Una teoria strutturale ( Torino, Rosenberg & Sellier, 1977), e il cosiddetto Triangolo del conflitto, costituito dall’analisi di atteggiamenti, comportamenti e contrasti di interessi correlati alle diverse forme di violenza, tutte idee oggi considerate punti fermi nello studio della pace e dei conflitti. Galtung teorizzò anche la suddivisione della mediazione, la risoluzione nonviolenta dei conflitti, in tre fasi: “In primo luogo – diceva – occorre identificare i partecipanti, fare una ricognizione dei loro obiettivi e trovare le loro contraddizioni; in secondo luogo occorre distinguere fra obiettivi legittimi e illegittimi da entrambe le parti; infine costruire ponti fra rispettive posizioni legittime”.

Come ha scritto una sua allieva, Erika Degortes: “La pace si costruisce, non viene da sola. Lavorare per la pace è un lavoro rigoroso, di ricerca costante e approfondimento e la trasformazione del conflitto non è qualcosa che si studia sui libri una volta e per sempre, è un allenamento costante, uno stile di vita. Occorre riconoscere in anticipo le cause, le manifestazioni e le conseguenze della violenza, siano esse culturali, strutturali o dirette, al fine di essere maggiormente in grado di prevenire il dolore, la miseria, i traumi e i cicli di vendetta che prevedibilmente si generano”.

Il teologo – e socio del Centro Studi Sereno Regis – Enrico Peyretti ha precisato: “Galtung chiama trascendenza la migliore trasformazione del conflitto, quella creativa che fa emergere dal processo qualcosa di nuovo, solitamente inaspettato. Ciò vuol dire che è stato utilizzato l’aspetto positivo del conflitto, che è la sfida a trascendere la contraddizione sottostante, realizzando così, o meglio trasformando, entrambi gli scopi incompatibili con soddisfazione di entrambi gli attori. Il conflitto può essere trasformato se le persone lo gestiscono creativamente, se trascendono le incompatibilità e se agiscono nel conflitto senza ricorrere alla violenza”.

I contributi di Galtung agli studi sulla pace sono stati ampiamente riconosciuti in tutto il mondo, ha infatti ricevuto numerosi premi internazionali, tra cui il Right Livelihood Award, noto anche come “Premio Nobel alternativo”, nel 1987.

Tra le sue pubblicazioni, ricordiamo:

Ambiente, sviluppo e attività militare, Torino, Edizioni Gruppo Abele (EGA), 1982

I blu e i rossi, i verdi e i bruni. Un contributo critico alla nascita di una cultura verde, Centro Studi e Documentazione “Domenico Sereno Regis”, 1985, poi in IPRI, “I movimenti per la pace. Le ragioni e il futuro”, vol. I, Torino, EGA, 1986.

Gandhi oggi, Torino, EGA, 1987.

Palestina-Israele. Una soluzione nonviolenta? Torino, Edizioni Sonda, 1989.

Il movimento per la pace: un’analisi struttural-funzionale, in IPRI, “I movimenti per la pace. Una prospettiva mondiale”, vol. III, Torino, EGA, 1986.

Storia dell’idea di pace, Torino, Pangea, 1995.

I diritti umani in un’altra chiave, Milano, Esperia, 1997.

I diritti umani, occidentali, universali, in “Educare alla pace”, Milano, Esperia, 1998.

Pace con mezzi pacifici, Milano, Esperia, 2000.

La trasformazione nonviolenta dei conflitti. Il metodo Transcend, Torino, EGA, 2000.

La Teoria del conflitto: contraddizioni – valori – interessi, in Rivista italiana di Conflittologia, aprile, 2007 – www.conflittologia.it

Affrontare il conflitto, trascendere e trasformare, Pisa, ed. Plus (Pisa University Press), 2008.

Riconoscere la violenza

Seguendo i ragionamenti di Galtung, e per tracciarne un percorso di lettura, un punto di partenza è la considerazione sulla violenza che si manifesta – con definizione che vuole essere onnicomprensivo di ogni forma di violenza – quando gli esseri umani sono “influenzati” in modo tale che le loro realizzazioni somatiche e mentali risultino inferiori ai livelli delle loro realizzazioni potenziali. Questa affermazione – osserva lo stesso Galtung – sembra portare più problemi d’interpretazione di quanti ne risolva. Tuttavia, se si procede nel ragionamento risulta presto chiaro il motivo per cui occorre rifiutare un concetto ristretto di violenza, secondo il quale la violenza è unicamente l’incapacità somatica o la privazione della salute (con l’uccisione come limite estremo), per mano di un attore che volutamente intende che questa sia la conseguenza.

Se la violenza fosse solo questo e la pace fosse vista come la sua negazione, allora troppo poco di violenza sarebbe rifiutato per la pace e questa sarebbe ridotta a un banale ideale perché ordini sociali altamente inaccettabili sarebbero ancora compatibili con la pace così intesa. In conseguenza, un concetto più esteso di violenza è indispensabile, ma tale concetto deve corrispondere a un’estensione logica del contenuto, non a un semplice allungamento della lista di effetti e conseguenze indesiderabili. Occorre considerare che è infine di origine violenta la ragione della differenza tra sviluppo potenziale e sviluppo effettivo e che anche le minacce di violenza sono violenza.

La violenza è qui definita quindi come ogni causa che contribuisce a mantenere la differenza tra il potenziale e l’effettivo, tra ciò che avrebbe potuto essere – per un uomo, una donna, una comunità, una popolazione – e ciò che è. La violenza è la manifestazione di tutto ciò che aumenta la distanza tra il potenziale e l’effettivo e di tutto ciò che impedisce la diminuzione di questa distanza.

Così, se una persona è morta di tubercolosi nel XVIII secolo – spiega Galtung – sarebbe difficile concepire questo fatto come una violenza, poiché si trattava allora di un evento del tutto inevitabile, ma se oggi una persona muore di tubercolosi, nonostante tutte le risorse mediche disponibili nel mondo, allora significa che la violenza è presente secondo la nostra definizione, anche se non è così evidente. In modo corrispondente, il caso di persone che muoiono per i terremoti oggi non giustificherebbe un’analisi dell’accaduto in termini di violenza, ma in un ipotetico futuro, quando i danni dei terremoti potrebbero diventare prevenibili, tali morti potrebbero essere viste come il risultato di un’azione di violenza.

In altre parole, quando il potenziale resta superiore al reale effettivo allora la violenza è presente, anche se il potenziale è a un livello molto basso. Un’aspettativa di vita di soli trent’anni durante il periodo neolitico non era espressione di violenza, ma la stessa aspettativa di vita oggi (sia a causa di guerre, sia a causa di ingiustizie sociali, o di entrambe) può essere evidenziata come violenza secondo la nostra definizione.

Le forme della violenza

Una prima distinzione da fare sui tipi di violenza (che è anche la distinzione politicamente più importante) è quella relativa al soggetto: se c’è o meno un soggetto (persona) che agisce. Galtung si chiede: si può parlare di violenza quando nessuno sta commettendo violenza diretta, e come questa violenza potrebbe agire? Sarebbe perlomeno un caso di violenza tronca, ma ancora una volta la capacità di percepirla risulta altamente significativa. Galtung si riferisce quindi al caso di violenza in cui c’è un attore che commette la violenza come personale o diretta, e alla violenza in cui non c’è tale attore come strutturale o indiretta.

In entrambi i casi gli individui possono essere uccisi o mutilati, colpiti o feriti in tutti i possibili sensi di queste parole (Galtung parla anche di morte spirituale e di mutilazione delle relazioni sociali) e manipolati con strategie di bastone o di carota. Ma mentre nel primo caso queste conseguenze possono essere ricondotte a conseguenze concrete che vedono persone come attori di violenza, nel secondo caso questo modo di lettura della violenza non ha più senso. Può non esistere, può non esserci nessuna persona che danneggi direttamente un’altra persona nel caso della violenza strutturale. Tuttavia esiste una violenza che è incorporata nella struttura (che può essere sociale, economica, tecnica, religiosa, familiare etc.) e si manifesta come disuguaglianza di potere e, di conseguenza, come disuguaglianza di opportunità di vita.

È il caso delle morti sul lavoro e dei femminicidi. Così, quando un marito picchia la moglie è un chiaro caso di violenza personale, ma – spiega ancora Galtung – quando un milione di mariti tiene un milione di mogli nell’ignoranza, si tratta di violenza strutturale. Allo stesso modo, in una società in cui l’aspettativa di vita è doppia nelle classi superiori rispetto a quelle inferiori, la violenza viene esercitata anche se non ci sono attori concreti che possono essere indicati come coloro che attaccano direttamente gli altri, come quando una persona uccide un’altra.

In una prima elaborazione, alla fine degli anni ‘60, Galtung distingueva soprattutto fra la violenza diretta (o personale) e la violenza strutturale (o indiretta).

La violenza diretta viene esercitata direttamente da un attore. Questa violenza è visibile e di natura fisica o psicologica. Ci sono un colpevole e una vittima. La violenza diretta è ciò che normalmente viene inteso come violenza (tortura, omicidio, abuso fisico o psicologico, umiliazione, discriminazione, bullismo etc.).

La violenza strutturale è più simile alle forme di ingiustizia sociale e alle strutture che la promuovono e la mantengono. È una forza di coercizione piuttosto invisibile, formata dalle strutture che impediscono il soddisfacimento dei bisogni primari. Di solito si esprime indirettamente e non ha una causa direttamente visibile. Secondo Galtung, si verifica sempre quando le persone sono influenzate in modo tale da non poter realizzare se stesse nel modo in cui sarebbe effettivamente e potenzialmente possibile: apartheid, leggi sulla segregazione razziale, disposizioni legali per la sottomissione della popolazione civile, condizioni sociali ingiuste, accesso diseguale all’istruzione e ai servizi sanitari, condizioni di vita degradanti, povertà etc.

Violenza culturale

Negli anni ‘90 Galtung aggiunse alle due prime forme di violenza riconosciuta il tassello della violenza culturale (o simbolica) riconducibile a tutti gli aspetti di cultura sociale che legittimano l’uso delle altre due forme di violenza, diretta o strutturale. In un articolo apparso sul “Journal of Peace Research” (vol. 27, no. 3, 1990, pp. 291-305) introdusse il concetto di “violenza culturale”, visto come il seguito dell’analisi del concetto di violenza “strutturale” separato dalla violenza “diretta”, introdotto da parte dello stesso autore, sullo stesso giornale, oltre 20 anni prima (“Journal of Peace Research”, vol. 6, no. 3, 1969, pp. 167-191).

La violenza simbolica incorporata in una cultura non uccide o mutila come fa sui corpi la violenza diretta o sulle relazioni e lo spirito quella incorporata nella struttura socio-economica, tuttavia viene usata impercettibilmente per legittimare l’una o l’altra o entrambe, come ad esempio nella teoria dell’Herrenvolk, ovvero dell’esistenza di una razza superiore.

La violenza culturale e simbolica si manifesta spesso in atteggiamenti e pregiudizi (razzismo, omofobia, misoginia, fascismo, antisemitismo, islamofobia etc.). Il livello di impercettibilità (o invisibilità) si riferisce al fatto che nei casi di violenza strutturale e culturale non appare nessuno che ne possa essere ritenuto direttamente responsabile.

Per violenza “culturale” intendiamo quindi quegli aspetti della cultura collettiva – la sfera simbolica della nostra esistenza, esemplificati dalla religione e dall’ideologia, dal linguaggio e dall’arte, dalla scienza empirica e formale (logica, matematica) – che possono essere usati per giustificare o legittimare la violenza diretta o strutturale. Stelle, croci e mezzelune; bandiere, inni e parate militari; l’onnipresente ritratto del leader, discorsi e manifesti incendiari vengono in mente come esempi tipici.

Va specificato che le caratteristiche espressive sopra menzionate sono “aspetti della cultura”, ma non rappresentano intere culture. Intere culture infatti non possono essere classificate come violente; questo è un motivo per preferire l’espressione “L’aspetto A della cultura C è un esempio di violenza culturale”, agli stereotipi culturali come “la cultura C è violenta”.

La violenza culturale fa sì che la violenza diretta e strutturale sembri, persino, giusta, o almeno non sbagliata. La violenza strutturale soprattutto è integrata nel sistema e si manifesta in rapporti di potere ineguali e, di conseguenza, in possibilità di vita ineguali. Tutti e tre i tipi di violenza sono interdipendenti. Per evitarne uno bisogna anche occuparsi degli altri due e affrontarli con azioni appropriate. Ogni forma di violenza può trasferire e influenzare gli altri due tipi. Ad esempio, se la violenza strutturale diventa istituzionalizzata e la violenza culturale aumenta, c’è il rischio concreto che anche la violenza diretta aumenti.

Così come la scienza politica è concentrata su due problemi – l’uso del potere e la legittimazione dell’uso del potere – gli studi sulla violenza riguardano due problemi: l’uso della violenza e la legittimazione di tale uso. Il meccanismo psicologico di riferimento è l’interiorizzazione collettiva e personale di tali pratiche.

Come svelare la violenza culturale e strutturale

Lo studio della violenza culturale evidenzia il modo in cui l’atto di violenza diretta e il fatto di violenza strutturale sono legittimati e quindi resi accettabili nella società. Un modo in cui la violenza culturale opera – spiega Galtung – è anche quello di cambiare il “colore morale” di un atto, da rosso/sbagliato a verde/giusto o almeno a giallo/accettabile; un esempio è quando l’omicidio commesso per conto del Paese è considerato giusto (pena di morte, guerra), se invece è commesso per conto di se stessi è sbagliato. Un altro modo è quello di rendere la realtà opaca, in modo da non vedere l’atto o il fatto violento, o almeno di vederlo non come violento. La violenza strutturale è lo strumento che permette l’opacizzazione di un delitto fino all’invisibilità, non perché sia rara o nascosta, ma perché è così diffusa e ordinaria che tende all’irrilevanza, a non farsi notare. Tale violenza non riesce a catturare la nostra attenzione nella misura in cui accettiamo la sua presenza come una parte “normale” e persino “naturale” del nostro modo di vedere il mondo.

Per tutte queste ragioni occorre categorizzare (Norberto Bobbio avrebbe suggerito i termini denotare e connotare) e il più possibile le forme di violenza per renderle percepibili, riconoscibili ed emendabili, così come in campo medico si categorizzano e curano le malattie attraverso processi di anamnesi, diagnosi, prognosi.

Sul percorso della categorizzazione, come abbiamo già visto, Galtung riconosce la violenza come un insulto evitabile ai bisogni umani di base e, più in generale, alla vita, abbassando il livello reale di soddisfazione dei bisogni al di sotto di quello potenzialmente possibile. Esistono e possono essere negati bisogni di sopravvivenza (negazione = morte, malattia, mortalità); bisogni di benessere (negazione = povertà, miseria, morbilità); bisogni di identità e significato (negazione = alienazione, emarginazione); bisogni di libertà (negazione = repressione, apartheid).

Combinando la distinzione tra violenza diretta e strutturale con le quattro classi di bisogni primari otteniamo allora una prima tipologia delle forme di violenza in otto diverse combinazioni di bisogni negati e forme di violenza. A queste otto combinazioni – che scaturiscono comunque da una visione antropocentrica della violenza – andrebbero aggiunte le forme di violenza contro l’ambiente, che indirettamente portano a un degrado dell’esistenza umana e che vanno inserite fra i soprusi intollerabili in una visione di pace.

Inoltre, occorre dare anche una dimensione alle tipologie di violenza e, purtroppo, in questo caso la comunità mondiale ha sviluppato termini che descrivono violenze di dimensioni anche apocalittiche, per tutto ciò che il mondo ha vissuto negli ultimi due secoli. Allargando le correlazioni sopra riportate fra parentesi, per la violenza “omicida” si può arrivare a parlare di strage, sterminio, olocausto, genocidio. Per la “miseria” generata si può parlare di povertà, spoliazione, indigenza, condizioni di carestia, olocausto strisciante. Per “alienazione” si può parlare di negazione, controllo sociale, morte spirituale. Per “repressione” si può parare di censura, incarcerazione, gulag. Per “degrado ecologico” si può arrivare a ecocidio. Per tutto questo insieme di violenze si può parlare di “omnicidio”1.

In breve, gli studi sulla violenza, che costituiscono una parte indispensabile degli studi sulla pace, possono anche apparire come una lente di ingrandimento focalizzata sulla storia dell’orrore, ma come nel caso di ogni patologia individuale o sociale, riflettono infine su una realtà che per quanto non sia affatto attraente è tuttavia da conoscere e comprendere nelle sue dinamiche di sviluppo e causalità.

Il triangolo della violenza

Le relazioni tra violenza diretta, strutturale e culturale sono state notoriamente esplorate da Galtung utilizzando l’immagine di un triangolo che, come in figura 1, rappresenta ai vertici le tre forme di violenza e all’interno i livelli della violenza, con vari tipi di flussi causali correlati fra i diversi vertici. Quando il triangolo viene posto con alla base la violenza “diretta” e “strutturale” l’immagine invocata è quella della violenza “culturale” come legittimatrice di entrambe. Se si pone il triangolo appoggiato sul vertice della violenza “diretta” si ottiene l’immagine delle fonti strutturali e culturali che su quella convergono. Il triangolo rimane sempre lo stesso, ma l’immagine prodotta è diversa e tutte e sei le posizioni possibili (tre con un apice rivolto verso il basso, tre verso l’alto) evocano rappresentazioni un po’ diverse, ma tutte degne di essere considerate.

Nonostante le simmetrie geometriche, esiste comunque una differenza nella relazione temporale dei tre concetti di violenza. La violenza diretta è riconducibile a un evento; la violenza strutturale è un processo con alti e bassi; la violenza culturale è un’invariante, una “permanenza”, che rimane essenzialmente la stessa per lunghi periodi, date le lente trasformazioni della cultura di base collettiva. Galtung suggerisce di riferirsi ai termini della scuola francese degli Annales in storia: “événementielle, conjoncturelle, la longue durée” come aggettivi per la violenza diretta, strutturale e culturale. Le tre forme di violenza entrano nel tempo quindi in modo diverso: “un po’ come per la differenza nella teoria dei terremoti – suggerisce Galtung – tra il terremoto come evento, il movimento delle placche tettoniche come processo e la linea di faglia come condizione più permanente”.

Fig. 1: il triangolo della violenza, ideato da Johan Galtung per rappresentarne le diverse forme e il livello in un’unica immagine unitaria.

Questa rappresentazione permette infine di rappresentare anche una gradazione fenomenologica di violenza degli strati che completano l’immagine del triangolo, utile come paradigma che genera un’ampia e ulteriore varietà di ipotesi sulle dinamiche della violenza. Sul vertice in basso possiamo immaginare il flusso costante nel tempo della violenza culturale, un substrato da cui gli altri due vertici possono trarre il loro nutrimento. Nello strato successivo si trovano i ritmi periodici della violenza strutturale. I modelli di sfruttamento che si costruiscono e si consumano (o si abbattono) con l’accompagnamento protettivo della loro segmentazione e marginalizzazione (le strutture di respingimento dei migranti inaccessibili alla stampa e ai rappresentanti istituzionali o spostate su territori stranieri come in Albania, Ruanda, Libia; la prigione di Abu Ghraib in Iraq usata prima da Saddam Hussein e poi dall’esercito USA, il campo di prigionia USA nella base navale di Guantánamo, situata sulla costa di Cuba) per impedire la formazione della coscienza e ostacolare l’organizzazione collettiva contro lo sfruttamento e la repressione. In cima rimane l’unica forma di violenza lasciata finalmente visibile all’occhio non guidato e ai “piedi scalzi dell’empirismo”, specifica Galtung: troviamo lo strato della violenza diretta con l’intero elenco di crudeltà perpetrate dagli esseri umani gli uni contro gli altri e contro le altre forme di vita e la natura in generale.

Entro questo schema è possibile individuare con rapidità un flusso causale che va dalla violenza culturale e strutturale alla violenza diretta. La cultura predica, insegna, ammonisce e ci fa vedere lo sfruttamento e/o la repressione come eventi normali e naturali, o ci impedisce di vederli affatto (in particolare lo sfruttamento). Poi arrivano le eruzioni brutali, gli sforzi di chi usa la violenza diretta per uscire dalla propria gabbia di ferro strutturale2 e la contro-violenza esercitata invece dal sistema per mantenere intatta la struttura di quella stessa gabbia. Perfino l’attività criminale ordinaria e regolare (i cosiddetti “crimini dei colletti blu”), è in parte leggibile come uno sforzo da parte di chi non è in grado di “uscire” dalla gabbia in cui è rinchiuso, per ridistribuire la ricchezza, pareggiare i conti, vendicarsi, e per converso, come uno sforzo da parte di chi invece intende rimanere o diventare un capobranco del sistema (i cosiddetti “crimini dei colletti bianchi”) approfittando di un uso eccessivo della struttura, ma infine sfruttandola esattamente per i fini a cui essa è finalizzata.

Conclusioni: il lavoro da fare

Secondo gli insegnamenti di Galtung, tentare di risolvere un conflitto con le armi controllando solo la violenza diretta è una credenza imperialista errata, perché le cause soggiacenti al conflitto non possono essere domate in modo semplice e permanente con l’uso della forza. Concentrarsi soltanto sulla violenza strutturale, credendo che se si risolvono temi di formazione societaria e rapporti di potere tali conflitti non avverranno mai è una credenza errata marxista. Focalizzarsi esclusivamente sulla violenza culturale, nella speranza che se gli antagonisti potessero arrivare a capirsi meglio smetterebbero di uccidersi, è una credenza errata liberale. Se si vuole trasformare un conflitto bisogna esplorare tutte le fonti della sua forza generativa, con i problemi diagnosticati, le prognosi fatte in base alle tendenze attuali per capire se possono essere ridotte o eliminate, e adottare su lungo termine le terapie appropriate concepite per la pace.

In estrema sintesi, il percorso da seguire è considerare che sia la violenza diretta, sia quella strutturale creano deficit di bisogni. Quando ciò accade improvvisamente a singoli siamo soliti parlare di trauma. Quando accade a un gruppo, a una collettività, si ha il trauma collettivo che può sul lungo periodo sedimentare nel subconscio pubblico e diventare una fonte di attivismo per lo sviluppo di grandi processi ed eventi storici, solitamente – ma non necessariamente – attraverso altre forme di violenza diretta prima e strutturale poi che si oppongono – soprattutto nella forma culturale – a quelle pre-esistenti. L’assunto di fondo è semplice: “la violenza genera violenza”. La violenza è privazione di bisogni; la privazione di bisogni è una condizione di grave sofferenza; una reazione è la risposta di violenza diretta. Ma questa non è l’unica reazione possibile. Potrebbe anche esserci di fronte alla violenza subita una sensazione di rassegnazione per mancanza di speranza, una sindrome di privazione/frustrazione che si manifesta all’interno del singolo o del gruppo come aggressività autodiretta, mentre all’esterno è avvertita come apatia e ripiegamento nel fatalismo. Potendo scegliere tra una società ribollente e violenta e una gelida, apatica come reazione a una massiccia privazione dei bisogni, i capibranco tendono a preferire quest’ultima. Preferiscono la “governabilità” alla sollevazione dei problemi, all’anarchia. Amano la “stabilità”, chiosa Galtung.

In effetti, una delle principali forme di violenza culturale delle élite al potere è quella di biasimare le vittime della violenza strutturale che scagliano la prima pietra per uscire dalla gabbia di ferro, bollandole come “aggreditrici”. Lo svelamento della corrispondente categoria di violenza strutturale dovrebbe rapidamente rendere trasparente la violenza culturale che sovrintende questo genere di dinamiche violente. Sono possibili infiniti esempi di violenza culturale di questo genere se solo si utilizza una divisione della cultura in forme di religione e ideologia, arte e linguaggio, scienza empirica e formale.

Il completamento di questa visione teorica e pratica della violenza nelle sue diverse forme veniva naturalmente completata da Galtung in relazione con due punti fondamentali del Gandhismo: le dottrine dell’unità della vita e dell’unità (corrispondenza) dei mezzi e dei fini. Va rilevata, in questo schema, l’inclusione della cultura come punto focale della ricerca sulla pace. Questa focalizzazione era vista da Galtung non solo come un necessario approfondimento della ricerca sulla pace, ma anche e soprattutto come un possibile contributo alla disciplina generale, ancora inesistente, della “culturologia” tuttora da definire nei dettagli e da sviluppare come possibile dottrina transdisciplinare per gettare i fondamenti della pace universale.

1 Ogni lettrice/lettore capace di aggettivare ulteriormente questa categorizzazione sommaria secondo le proprie sensibilità, sta partecipando a una presa di coscienza nonviolenta [NdA].

2 H. R. Weber, The Promise of the Land, Biblical Interpretation and the Present Situation in the Middle East, Study Encounter, vol. 7, no. 4 (1971), pp. 1-16.

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