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Oltre i limiti planetari! La Camera di Commercio Internazionale, le Nazioni Unite e l’invenzione dello sviluppo sostenibile

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Traduzione, a cura di Bianca Gambarana, di Beyond Planetary Limits! The International Chamber of Commerce, the United Nations, and the Invention of Sustainable Development, in “Business History Review”, XCVIII (2023), n. 3, pp. 481-511. L’articolo rappresenta bene l’ormai ampia e qualificata letteratura internazionale su caratteri e limiti della diplomazia ambientale globale ed esamina nello specifico il ruolo degli interessi aziendali nel plasmare le strutture della governance ambientale globale nel periodo compreso tra la Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente Umano a Stoccolma del 1972 e la Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo a Rio del 1992. Esso dimostra in particolare come la Camera di Commercio Internazionale (ICC) sia riuscire a rendere istituzionale l’autoregolamentazione aziendale nella governance ambientale e contribuito a plasmare il concetto di sviluppo sostenibile come lo conosciamo oggi, con il fine sostanziale di ritardare o allontanare provvedimenti e politiche effettivamente incisivi rispetto alla crisi ambientale.

È passato mezzo secolo dalla Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente Umano tenutasi a Stoccolma nel 1972, che mise in moto discussioni, negoziati e ratifiche di una lunga serie di accordi internazionali1. I processi avviatisi con la Conferenza di Stoccolma e con la creazione del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) nel 1973 hanno portato fino alla Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo del 1992 a Rio, passando per la Commissione Brundtland (1987). Questi processi storici hanno posto le basi per il sistema di governance ambientale globale odierno, compresa la governance globale dei cambiamenti climatici2. È ampiamente riconosciuto che le aziende e le iniziative normative private abbiano assunto nell’economia globale funzioni regolative che precedentemente erano considerate di pertinenza dello stato e delle organizzazioni intergovernative3. Tuttavia, il ruolo storico delle imprese nella creazione della governance ambientale globale non è ancora stato studiato in maniera esaustiva4. Nessuna ricerca ha ancora fornito una storia sintetica e coerente su come gli interessi, il bagaglio di conoscenze e le idee delle imprese siano diventate parte integrante del sistema di governance.

Basandosi su un’ampia documentazione storica proveniente dalla Camera di Commercio Internazionale (ICC) e dagli archivi personali di alcuni ex funzionari dell’ONU, questo articolo mira a dimostrare che le associazioni imprenditoriali internazionali, in particolare l’ICC, hanno avuto un ruolo fondamentale nella trasformazione della governance ambientale internazionale nell’arco di tempo compreso tra le conferenze di Stoccolma e di Rio. Come viene evidenziato nella letteratura sulla governance ambientale, il periodo tra Stoccolma e Rio ha visto uno spostamento dell’equilibrio di potere, da approcci incentrati sullo stato e sui governi, verso i mercati e un regime di governance ambientale liberale5. Questo passaggio a un regime liberale ha inaugurato un approccio alla riforma ambientale fondato sul mercato, che includeva tasse ambientali e scambi di quote di emissioni, insieme a una rapida espansione di programmi di autoregolamentazione aziendale, come codici di condotta volontari e schemi di certificazione, per promuovere la sostenibilità aziendale6. Questo cambiamento è andato di pari passo con l’emergere di nuove riflessioni teoriche sul “capitalismo verde” alla fine degli anni ‘80 e negli anni ‘90, che si basavano sull’argomento che fosse possibile per l’imperativo capitalista convergere con gli obiettivi ambientali7. La maggior parte delle ricerche esistenti che coprono il periodo precedente alla Conferenza di Rio, tuttavia, si concentrano sull’impatto dei leader politici, dei diplomatici, degli scienziati, degli ambientalisti, delle organizzazioni non governative (ONG) e delle organizzazioni internazionali come l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE)8. In questa narrazione consolidata, gli attori imprenditoriali non giocano un ruolo significativo, o si considera che abbiano acquisito una qualche influenza soltanto alla fine degli anni ‘80 e all’inizio degli anni ‘909.

Molti studiosi sottolineano che negli anni ‘80 l’idea di sviluppo sostenibile aveva sostituito le percezioni degli anni ‘70 sui limiti biofisici della crescita e gli approcci stato-centrici per affrontare le sfide ambientali globali10. Alcuni sostengono che l’invenzione dello sviluppo sostenibile nella governance globale fosse legata all’ascesa delle idee neoliberiste negli anni ‘80, unita alla nuova fiducia delle Nazioni Unite nelle corporation transnazionali per affrontare le grandi sfide ambientali dei primi anni ‘9011. Questi cambiamenti implicavano un’evoluzione significativa rispetto agli anni ‘70, quando le imprese e il sistema capitalistico erano generalmente visti come il problema alla radice della crisi ambientale globale, piuttosto che come parte della soluzione. Come sostiene Geoffrey Jones, dagli anni ‘90 in poi la creazione e la diffusione della regolamentazione privata, tramite la certificazione e i nuovi strumenti di contabilità ambientale, hanno consentito alle grandi società multinazionali di impegnarsi per l’ambiente e al contempo di produrre valore.

La certificazione e la rendicontazione ambientale hanno permesso alle multinazionali di dimostrare pubblicamente che stavano diventando più sostenibili, mentre il greenwashing simultaneamente ha ampliato i confini del concetto di sostenibilità in modo che qualsiasi azienda potesse esserne coinvolta12. Tuttavia, finora, pochi storici d’impresa si sono confrontati con le questioni legate alla governance ambientale globale13. Il caso della governance ambientale coglie molti aspetti chiave del ruolo specifico svolto dagli interessi dell’imprenditoria organizzata, inclusa la pressione politica, nel modellare e rimodellare le strutture di governance globale nel ventesimo secolo.

Sociologi e scienziati politici hanno studiato come le corporazioni transnazionali abbiano acquisito potere nella governance ambientale globale14. Parte di queste ricerche analizzano l’influenza che le corporation transnazionali ebbero sui trattati globali, come il Protocollo di Montreal sulla protezione dello strato di ozono, e sui governi15. È stata avanzata l’ipotesi che l’influenza delle corporation sia stata più evidente nell’ascesa globale del neoliberismo e nella sua istituzionalizzazione tramite accordi commerciali16. Un filone di ricerca correlato si è concentrato maggiormente sull’evoluzione delle regolamentazioni private, compresi i codici di condotta come fonte di governance17. Questa “privatizzazione” dell’autorità è stata vista, generalmente, nel contesto di una crescente fiducia nella superiorità delle politiche orientate al mercato e della globalizzazione a partire dagli anni ‘9018.

Ciononostante, come dimostrerà questo articolo, l’ICC era già diventata un partner significativo dell’UNEP negli anni ‘70 e ‘80, e fu in grado di incidere sulla crescente importanza dei meccanismi di mercato all’interno della governance ambientale globale. L’ICC e l’UNEP svilupparono una partnership che, verso la metà degli anni ‘80, portò a una convergenza di percezioni che superavano le precedenti visioni di un contrasto tra crescita industriale e ambiente. Insieme, l’ICC e l’UNEP lavorarono alla costruzione del concetto di sviluppo sostenibile, in cui i meccanismi di mercato e l’azione volontaria delle imprese venivano visti come forze costruttive e vitali. Strumentale in questo processo fu la capacità dell’ICC di collegarsi alla Commissione Mondiale sull’Ambiente e lo Sviluppo (WCED) e sviluppare progressivamente un insieme coerente di regole di management ambientale verso cui le imprese si impegnavano, e che venivano riconosciute dalle organizzazioni internazionali. Queste regole aiutarono l’ICC a promuovere i principi dell’autoregolamentazione e a legittimare la sua richiesta di un minor intervento governativo, posizione che è diventata egemone dopo Rio. È importante notare che l’ICC era un’organizzazione mondiale con una lunga tradizione di cooperazione con le organizzazioni internazionali19. Fu creata nel 1920 a Parigi per riunire la comunità imprenditoriale mondiale20. Il numero di stati membri dell’ICC crebbe notevolmente nel corso del XX secolo, passando da quattordici nel 1922 a trentadue nel 1935 e a più di novanta nel 2019. L’ICC poteva quindi contare sul sostegno finanziario, organizzativo e reputazionale della maggior parte delle comunità industriali e finanziarie che rappresentavano l’intero mondo degli affari, e non un settore particolare, ad eccezione delle piccole imprese e degli interessi rurali. All’interno della ICC, la rappresentanza imprenditoriale nazionale e internazionale lavorava fianco a fianco. Le associazioni imprenditoriali nazionali e le camere di commercio formavano i comitati nazionali della ICC, i quali inviavano i propri delegati al Consiglio della Camera di Commercio Internazionale, che a sua volta sceglieva un comitato esecutivo per assistere il presidente della ICC. Ogni due anni, un congresso eleggeva un nuovo presidente e votava le risoluzioni che riflettevano l’opinione della comunità imprenditoriale. Inoltre, l’ICC aveva numerosi comitati tecnici su temi relativi agli affari internazionali, come l’arbitrato, la standardizzazione dei termini commerciali, il trasporto, le tecniche bancarie e la tassazione. Questi comitati promuovevano politiche di libero scambio e la (auto)regolamentazione del business internazionale attraverso standard e codici. Erano in stretto contatto con le agenzie intergovernative – la Lega delle Nazioni durante il periodo interbellico e le agenzie dell’ONU dopo il 1945 – che riconoscevano all’ICC la sua legittima competenza su questi argomenti21.

Gli ultimi due decenni del ventesimo secolo segnarono una svolta per la ICC. In primo luogo, diverse condizioni favorirono le sue attività e le sue elaborazioni discorsive, in particolare il clima economico e ideologico degli anni ‘80, che fu in gran parte definito dalla globalizzazione economica, dall’ascesa del neoliberismo durante l’era di Reagan e Thatcher, dall’apertura delle economie comuniste ai meccanismi di mercato e dalle difficoltà finanziarie delle Nazioni Unite, incluso l’UNEP. In secondo luogo, nello stesso periodo, l’ICC si impegnò in nuovi settori della governance internazionale dove cercò di promuovere meccanismi di autoregolamentazione: l’ambiente, come vedremo, ma anche la lotta contro la corruzione22. I membri dell’ICC parteciparono a questo nuovo ordine mondiale neoliberista, contrapponendosi fortemente al Nuovo Ordine Economico Internazionale del decennio precedente, caratterizzato dai tentativi delle Nazioni Unite di regolare le multinazionali23.

L’interrogativo è, quindi, in che modo le associazioni imprenditoriali internazionali come l’ICC siano riuscite a interagire con i policy maker della governance internazionale. Spesso si dà per assodato che gli attori imprenditoriali abbiano cercato di ottenere un posto al tavolo dei negoziati per influenzare la legislazione a livello internazionale24. Raramente, però, ci si è chiesti se e perché le imprese siano state effettivamente invitate a quel tavolo e, in tal caso, su quali basi. Questo articolo mostra come l’ONU e l’UNEP preferissero stabilire canali di contatto fin dall’inizio attraverso organizzazioni ombrello dell’industria internazionale (cioè business interest associations, o BIAs) e non attraverso contatti con singole società25. Gli studiosi concordano sul fatto che l’industria internazionale si sia presentata ben organizzata e con un’agenda unitaria a Rio, il che ha avuto un grande impatto sulla governance ambientale globale per i decenni successivi. Tuttavia, il processo storico che ha posto le basi per questa vittoria degli interessi del business internazionale nel campo della governance ambientale globale resta da esplorare.

Questo articolo è diviso in due parti, ciascuna focalizzata su un “punto di svolta” nelle interazioni tra le imprese e l’ONU, al fine di comprendere come lo sviluppo sostenibile e le regolamentazioni private sulla tutela ambientale abbiano acquisito legittimità nel contesto internazionale durante gli anni ‘70 e ‘80. Prima ci si focalizza sul periodo che ha avuto inizio intorno alla Conferenza di Stoccolma e che è durato fino alla Conferenza Mondiale dell’Industria sulla Gestione Ambientale (WICEM) tenutasi a Versailles, Parigi, nel 1984. La seconda parte si concentra sul periodo successivo, fino al Summit della Terra a Rio nel 1992.

Da Stoccolma a Versailles

I primi anni ‘70 hanno dato il via a una serie di effervescenti attività nel campo della politica ambientale internazionale all’interno dell’ICC. In breve, questo lasso cronologico comprende la Conferenza di Stoccolma, l’istituzione della cooperazione tra l’ICC e l’UNEP e le iniziative di autoregolamentazione dell’ICC nel settore ambientale. Il quadro di riferimento della Conferenza di Stoccolma enfatizzava le preoccupazioni per i limiti planetari posti alla crescita economica e metteva in discussione il percorso di crescita del mondo occidentale nel dopoguerra26. Il dibattito si intensificò dopo la conferenza, quando il Club di Roma pubblicò il suo rapporto del 1972 su I Limiti dello Sviluppo27. La protezione dell’ambiente è stata ritenuta difficile, se non impossibile, da conciliare con la crescita economica nel lungo periodo, alla luce delle previsioni relativa alla crescita della popolazione28. In questo scenario, gli industriali temevano che si rendesse necessaria una costosa regolamentazione ambientale, mentre le multinazionali avrebbero dovuto affrontare anche la sfida di politiche ambientali diverse a livello nazionale29. Ciò che l’ICC temeva di più non era tanto la regolamentazione ambientale in sé, ma la possibilità che questa complicasse notevolmente il commercio internazionale e le attività economiche transnazionali a causa della disomogeneità tra le legislazioni dei diversi paesi.

Nell’aprile del 1971, l’ICC tenne il suo congresso biennale a Vienna, con il titolo di “Tecnologia e Società: una sfida per l’Impresa Privata”. Le discussioni si basarono su una relazione introduttiva ai problemi ambientali globali, preparato in anticipo da Lord Solly Zuckerman, ex capo consulente scientifico del governo britannico. La conferenza di Vienna portò all’adozione di una “dichiarazione conclusiva”, che accettava e riconosceva la responsabilità che l’industria globale aveva nei “temi ambientali”. Prendendo nota della rapida crescita della mobilitazione internazionale attorno alla questione ambientale, i partecipanti al congresso di Vienna raccomandavano l’istituzione urgente di un comitato speciale per l’ambiente all’interno della ICC. Il primo compito sostanziale del comitato era quello di preparare un contributo dell’industria mondiale per la Conferenza di Stoccolma nel 197230.

Nel luglio del 1971, Charles S. Dennison, direttore del Consiglio per lo Sviluppo d’Oltreoceano e membro del Consiglio dell’ICC negli Stati Uniti, partecipò come unico rappresentante del settore privato a un ritiro di tre giorni ad Aspen, in Colorado, che aveva l’obiettivo di discutere il contenuto dell’imminente Conferenza di Stoccolma31. Nel suo rapporto, Dennison avvertì i suoi colleghi dell’ICC delle difficoltà che avrebbero incontrato nei prossimi anni a causa della regolamentazione ambientale internazionale: “Lest the impression be given that the environment effort will be a cooperative tea party, it is obvious that the international industrial community will be involved in a rough, immensely costly struggle”. Dal suo punto di vista, le principali aziende statunitensi erano già pienamente consapevoli della questione ambientale per quanto riguardava le loro operazioni interne; tuttavia, a causa della loro crescente dipendenza dalle loro operazioni internazionali, avrebbero dovuto essere altrettanto attente alle implicazioni internazionali. Dennison proclamò che era urgente agire immediatamente e che l’ICC era il miglior “strumento” a disposizione32.

Questo appello all’azione fu recepito dalla sede centrale della ICC. Il comitato speciale per l’ambiente dell’organizzazione si riunì per la prima volta il 22 febbraio 1972, e si focalizzò sulla preparazione di una risposta alla documentazione di base dell’agenda per la Conferenza di Stoccolma33.

Una consultazione riservata con il segretario generale della conferenza, Maurice Strong, si svolse presso la sede dell’ICC a Parigi, in un incontro che l’ICC aveva organizzato insieme all’Istituto Internazionale per le Questioni Ambientali (IIEA)34. Strong si impegnò a fornire ufficiosamente informazioni a proposito della conferenza imminente ai dirigenti aziendali e a rispondere alle loro domande. Anche Aurelio Peccei, vicepresidente del Club di Roma, partecipò alla riunione a Parigi35. I contatti dell’ICC con Strong si sarebbero rivelati importanti per entrambe le parti in futuro. Strong sarebbe poi diventato il segretario generale dell’UNEP, l’organizzazione di riferimento della governance ambientale internazionale a partire dal 1973; un membro della Commissione Brundtland; e infine il segretario generale della Conferenza di Rio.

L’ICC sollevò presto preoccupazioni che le decisioni e le azioni promosse dalla Conferenza di Stoccolma avrebbero avuto in futuro ricadute sul commercio e sulle relazioni economiche internazionali in generale. Secondo la visione della ICC, era necessario armonizzare le regolamentazioni sui prodotti e sulla produzione imposte a specifici settori industriali36. Per arrivare ben preparata a Stoccolma, la ICC, su iniziativa della Federazione delle Industrie Svedesi, organizzò la Conferenza Mondiale dell’Industria sull’Ambiente Umano da tenersi a Göteborg poche settimane prima della Conferenza di Stoccolma. Alla conferenza di Göteborg parteciparono oltre cento industriali provenienti da diciassette paesi, rappresentanti dell’ONU, dell’OCSE e della Comunità Economica Europea. Una dichiarazione unanime dei partecipanti alla conferenza fu presentata a Strong, che la portò all’attenzione dei delegati nazionali a Stoccolma37.

A Stoccolma, l’ICC era rappresentata da una delegazione di undici membri guidata dal segretario generale, Walter Hill, e dal presidente del Comitato Speciale per l’Ambiente, John Langley38. Come venne fuori, “i rappresentanti del settore privato furono in qualche modo messi ai margini a Stoccolma39. In un discorso durante una sessione plenaria, Hill sostenne che la conferenza si fosse focalizzata troppo sulla scienza. Evidenziò il ruolo necessario giocato dall’industria in ogni sforzo globale per la protezione e il miglioramento dell’ambiente, ed espresse la sua preoccupazione per l’apparente mancanza di consapevolezza in proposito alla conferenza. Il presidente della Federazione delle Industrie Svedesi e i membri del comitato per l’ambiente dell’ICC espressero visioni simili sulla stampa internazionale40. Nell’opporsi a una normativa dettagliata, Hill sosteneva che l’economia di mercato fornisse le migliori condizioni per affrontare i problemi ambientali e sollecitò l’armonizzazione dei requisiti ambientali41. L’ICC invocava inoltre una maggiore cooperazione nazionale e internazionale così come un coinvolgimento attivo delle Nazioni Unite in futuro. Tra le proposte, vi era quella di istituire una banca internazionale di “know-how” sotto l’egida delle Nazioni Unite42.

Un anno dopo, nel 1973, l’ICC lanciò il Centro Internazionale per l’Industria e l’Ambiente (ICIE), che doveva fungere da canale di comunicazione tra i dirigenti d’impresa e l’UNEP43. Tuttavia, l’iniziativa incontrò da subito grandi difficoltà e l’ICIE, nell’anonimato totale, scomparve all’inizio degli anni ‘80. Una delle ragioni del fallimento fu la diffidenza tra l’ICC e l’UNEP. L’ICC sosteneva, per esempio, che si trattasse di una relazione asimmetrica, criticando il fatto che l’UNEP non condividesse le sue informazioni44.

Nello stesso periodo, l’ICC avviò un’iniziativa che avrebbe avuto un impatto di lungo periodo. Nel suo discorso a Rio nel 1973, Ian MacGregor, amministratore delegato della società mineraria statunitense AMAX, avanzò la proposta che l’ICC definisse un codice internazionale di pratica ambientale che includesse “fair and equitable rules of industry behavior in the field of the environment “. Un anno dopo, il congresso dell’ICC a Amburgo adottò le sue “Linee guida ambientali per l’industria mondiale”. Come primo passo, Paul de la Calle, responsabile ambientale della Shell, redasse una bozza ispirata alle direttive ambientali che dava alle sue filiali in tutto il mondo. La bozza venne accuratamente revisionata da un gruppo di lavoro speciale e dai comitati nazionali45. F. Taylor Ostrander, economista presso “AMAX e membro del gruppo di lavoro speciale spiegò che le linee guida contenevano un pacchetto carico di politiche e si lamentò delle “unknowledgeable or capricious or just plain unconstructive proposals from some of the National Committees”46.

Le linee guida ambientali che vennero adottate alla fine rappresentavano perfettamente la preferenza dell’ICC per l’autoregolamentazione aziendale. A proposito della governance ambientale internazionale, l’ICC sottolineava che le misure ambientali non avrebbero dovuto “distort international trade relationships “e sosteneva che i metodi command-and-control introdotti sempre di più dai governi nazionali avrebbero dovuto essere limitati e integrati con misure di autoregolamentazione. L’idea dell’autoregolamentazione per controllare l’inquinamento non era nuova; era già stata sviluppata, ad esempio, all’interno dell’industria petrolifera statunitense durante la prima metà del XX secolo, prima che l’etica dell’autoregolamentazione fosse sostituita da normative imposte dal governo a partire dagli anni ‘6047. All’inizio degli anni ‘80, l’ICC revisionò per la prima volta le sue linee guida. È interessante la giustificazione che venne data per questa revisione, perché mostra i limiti della prima versione: “This updating seemed highly desirable as the present guidelines were somewhat too general having been prepared at a time when industry had felt that a very cautious approach to the subject was required”48.

Il discorso sulla crescita economica e sul suo rapporto con l’ambiente non era favorevole al mondo degli affari internazionali. Quando Strong fece la sua dichiarazione introduttiva di fronte al Consiglio di Governo dell’UNEP nel 1973, invocò la necessità di nuovi concetti di crescita e di nuovi modelli per lo sviluppo economico e sociale49. Si basava sul lavoro scientifico di background in preparazione alla Conferenza di Stoccolma, che delineava i potenziali “limiti esterni” biofisici rispetto alla generazione di calore, al contenuto di biossido di carbonio dell’atmosfera, al contenuto di ozono della stratosfera e alla salute degli oceani50. Ma una visione dell’UNEP della relazione tra crescita e ambiente maggiormente fondata sulle scienze naturali si approfondì negli anni ‘80. Come dimostrerà la sezione successiva, l’UNEP avrebbe invitato l’ICC a prendere il timone e a prendere in considerazione la possibilità di un percorso in qualche modo meno impegnativo andando aldilà della percezione dei limiti.

Verso un trattato di pace a Versailles

Nel 1982, in occasione del decimo anniversario della Conferenza di Stoccolma, l’UNEP e l’ICC organizzarono due diverse conferenze. Nel mese di aprile, l’ICC e la Federazione delle Industrie Svedesi organizzarono la Conferenza dell’Industria Mondiale sull’Ambiente a Stoccolma, a cui parteciparono, tra gli altri, dei rappresentanti dell’UNEP e della Banca Mondiale. Circa cento industriali si riunirono per fare un bilancio “on industry’sachievements in environmental protection”. La conferenza accolse favorevolmente la cooperazione tra UNEP e la ICC, ma le imprese si lamentarono comunque che c’era stato “too much of a one-way traffic”, in quanto l’industria, “often providing the information”, aveva “little influence on its use”. La conferenza ribadì anche che la legislazione e la regolamentazione ambientale dovevano essere armonizzate in maniera ragionevole a livello mondiale, per diminuire il rischio di dannose distorsioni nella concorrenza e nel commercio. Non una minore, ma una maggiore crescita avrebbe portato a miglioramenti per l’ambiente attraverso lo sviluppo tecnologico51. Ancora, il mondo industriale sembrava fiducioso di poter fornire una soluzione tecnologica ai problemi ambientali preservando al contempo la economica. Vennero presentati esempi di successo provenienti dall’industria della carta, della cellulosa e da altri settori. “We must substitute for the false alternative: protection of the environment or economic growth”, come si espresse il direttore dell’Ambiente, della Protezione dei Consumatori e della Sicurezza Nucleare per la Commissione delle Comunità Europee52. Il vice direttore esecutivo dell’UNEP, Peter S. Thacher, proclamò nel suo discorso inaugurale che mai prima di allora c’era stato nella comunità dell’industria mondiale così tanto bisogno di cooperazione, simboleggiata dall’ICC e dalle altre organizzazioni che si riunivano nell’UNEP53.

Un mese dopo, a Nairobi, 105 delegazioni governative, organizzazioni intergovernative e agenzie dell’ONU, oltre ai rappresentanti di oltre 100 ONG, si riunirono per valutare le modificazioni ambientali avvenute nel decennio precedente. Il loro obiettivo era quello di valutare le attività dell’UNEP ed elaborare degli scenari per il futuro. La valutazione della situazione ambientale era “rather grim”54. Tuttavia, emersero aspri disaccordi tra i paesi industrializzati, in particolare gli Stati Uniti, e i paesi in via di sviluppo. Questi ultimi volevano sviluppare la cooperazione ambientale multilaterale ampliando le attività dell’UNEP, cosa a cui gli Stati Uniti si opponevano. Infatti, come riferì un delegato degli Stati Uniti, l’amministrazione Reagan era “defensive and even hostile towards multilateral cooperation for resolving global environmental problems”55.

La collaborazione con il mondo industriale fu menzionata, ma non costituì un punto importante all’ordine del giorno.

Solo un anno dopo la conferenza di Nairobi, nel 1983, il Consiglio di Amministrazione dell’UNEP approvò una risoluzione “urging the world industry to convene an international conference to examine ways in which their technological and scientific expertise could be applied”56. Era la prima volta che l’ONU chiedeva ufficialmente all’industria di contribuire a risolvere i problemi ambientali. Il risultato fu la prima Conferenza dell’Industria Mondiale sul Management Ambientale, tenutasi a Versailles nel 1984 e organizzata congiuntamente dall’UNEP e dalla ICC. Un vasto gruppo di grandi multinazionali, tra cui Exxon, Gulf Oil, US Steel, Ford, Union Carbide, Dow Chemical, Nestlé, Unilever, Shell, Henkel e altri, sponsorizzò e partecipò alla conferenza. In sintesi, la conferenza riunì oltre cinquecento rappresentanti governativi e d’impresa provenienti da paesi sviluppati e in via di sviluppo, per valutare come le aziende potessero affrontare le crescenti sfide e preoccupazioni riguardanti gli effetti a lungo termine dell’inquinamento sul pianeta.

Come mai, quindi, UNEP si rivolse all’ICC per organizzare una conferenza congiunta, e come mai l’ICC accettò questa proposta solo un anno dopo la fallita conferenza a Nairobi? Probabilmente il meeting dell’ICC del 1982 a Stoccolma era stata un’esperienza positiva, a differenza di Nairobi. Thomas M. McCarthy, presidente del comitato ambiente dell’ICC e direttore delle Relazioni Tecniche con l’Europa per la multinazionale statunitense Procter & Gamble, fornì una risposta più precisa. Come spiegò, l’ICC aveva accettato la proposta del successore di Strong, Mustafa Tolba, perché “noted an important change in the attitude of the Executive Director of UNEP towards the industry”57.

Tolba, in un’intervista, riassunse così questo cambiamento: “For the past 10 years, we have been trying to convert the converted – we have been talking to the environmentalists and we have not tried to go beyond that. […] Now I intend to go straight to industry and business for support “58.

Tre fattori principali furono alla base di questo mutamento. In primo luogo, l’UNEP affrontava gravi difficoltà finanziarie, principalmente a causa della diminuzione del contributo degli USA all’ONU59. Organizzare una conferenza internazionale con il sostegno finanziario dell’industria era un modo per ampliare le attività dell’UNEP senza mettere troppa pressione sulle sue finanze. Secondo, lavorando con l’impresa privata, l’UNEP sperava di guadagnare il favore del governo statunitense, il suo principale finanziatore, che era stato molto critico nei suoi confronti dell’agenzia delle Nazioni Unite a Nairobi. Come spiegò Gregory J. Newell, sottosegretario di stato, l’amministrazione Reagan “sought to encourage a broader role for the private sector in international forums, because we believe that the private sector can greatly contribute to solutions for a wide range of international economic and development problems”60. Terzo, la creazione della WCED nel 1983 e la nomina di Gro Harlem Brundtland come sua presidente erano stati duri colpi per UNEP61. La Commissione Brundtland si impose durante la seconda metà degli anni ‘80 come fiore all’occhiello delle Nazioni Unite in campo ambientale. Collaborare con l’industria era un modo per UNEP per riacquistare una qualche influenza all’interno delle Nazioni Unite. Per la ICC, la conferenza di Versailles rappresentava un’ottima opportunità per stabilire il suo diritto legittimo a un maggior coinvolgimento nelle discussioni politiche governative sia a livello nazionale che internazionale.

Prima dell’inverno del 1984, era l’UNEP che stava organizzando la conferenza; il comitato organizzativo si trovava negli Stati Uniti ed era composto quasi esclusivamente da uomini d’affari statunitensi. Tuttavia, questa strategia si rivelò presto controproducente. Gli europei stavano perdendo interesse per la conferenza, come dimostravano i suoi sponsor: delle ventiquattro aziende che contribuivano finanziariamente, generalmente con una somma di $10.000, solo una (Ciba-Geigy) era europea62. Quattro mesi prima dell’inizio della conferenza, erano stati raccolti solo $250.000, cifra molto lontana dagli $850.000 necessari per ospitare l’evento. Si rese quindi necessario incoraggiare attivamente il coinvolgimento europeo e giapponese. Inoltre, era essenziale “de-Americanize the preparatory efforts” se la WICEM doveva essere percepita dai paesi in via di sviluppo come una “genuine world-industry conference”63.

All’inizio del 1984, Tolba decise di trasferire la maggior parte delle operazioni dagli Stati Uniti a Parigi. Ciò fu reso possibile da discussioni tra l’UNEP e la ICC, in cui quest’ultima assunse un ruolo di primo piano nella pianificazione della conferenza. “Finally, we have the Europeans on board”, scrisse Casey E. Westell, coordinatore del lato statunitense della conferenza, a Maurice Strong nel febbraio 198464. Ma l’ICC accettò di co-organizzare WICEM secondo i propri termini. Ad esempio, alcune figure chiave dell’ICC comparvero nel board della conferenza, e McCarthy divenne co-presidente del comitato organizzativo con Tolba. Il coinvolgimento dell’ICC diminuì notevolmente i costi della conferenza e attirò rapidamente nuovi sponsor europei e giapponesi, cambiando così l’equilibrio di potere tra le due istituzioni. Non era più l’UNEP a dettare i tempi; l’ICC prese il comando.

Il concetto di sviluppo sostenibile al WICEM

La conferenza si tenne presso il Château de Versailles, a Parigi, a metà novembre 1984. Grande sforzo fu fatto per garantire la presenza di rappresentanti da diverse regioni del mondo. La scelta del Château de Versailles come sede della conferenza fu significativa non solo per l’importanza storica del Trattato di Versailles, ma anche perché “the Palace, with its monumental gardens stretching away into the horizon, could hardly be bettered as an example of an orderly and highly-managed environment”65. La Commissione Brundtland aveva appena iniziato il suo lavoro, ma la nozione di sviluppo sostenibile era già nell’aria a Parigi.

Nel rapporto preliminare pubblicato prima della conferenza, Tolba e McCarthy sostenevano che “too often had debate about the environment issues been adversarial, and that too many people had seen them as ‘either-or”. Chiarirono che le discussioni a WICEM si sarebbero concentrate su “how to achieve economic growth with environmental quality”, e fecero notare che il concetto di crescita economica era stato superato in alcuni circoli da una sua versione più avanzata: “sviluppo sostenibile”. Formularono la domanda e immediatamente vi risposero: “What does that [sustainable development] mean, exactly? Again, let us try a definition – and then throw it open for discussion. ‘Sustainable,’ we suggest, means that development can be maintained indefinitely without damaging the environment – or threatening development itself”66.

Tolba e McCarthy si chiesero anche, retoricamente, se lo sviluppo sostenibile potesse realizzarsi. La risposta fu semplice: “It has”67. Durante la conferenza, alcuni relatori enfatizzarono l’importanza della sostenibilità, tra i quali Gro Harlem Brundtland, che non era l’unico membro della WCED che partecipò alla conferenza. L’amministratore dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente degli Stati Uniti, William Ruckelshaus, anch’egli membro della Commissione Brundtland, svolse il ruolo di coordinatore e relatore principale. Nel rapporto finale della conferenza, fu adottato il concetto di “sustainable economic development”. Secondo Erik Lykke, direttore della sezione ambiente dell’OCSE, un esito simile non sarebbo stata possibile dieci anni prima.

Fu, egli dichiarò, “a widely held view that environmental protection could be achieved only at the expense of slower economic growth”68.

La conferenza sottolineò anche l’importanza della collaborazione tra diversi stakeholders, soprattutto l’industria e i governi. L’industria cominciò quindi a essere considerata un partner importante del governo, delle organizzazioni internazionali e delle ONG nell’ambito della governance ambientale internazionale, il che segnò un cambiamento significativo rispetto a Stoccolma. L’UNEP ora vedeva le multinazionali, così tanto criticate un decennio prima dalle organizzazioni internazionali, come attori chiave “in helping to raise the standard of environmental management in those countries in which they operated”69. Robert O. Anderson, presidente della Atlantic Richfield Company (ARCO), la nona compagnia petrolifera più grande al mondo, che aveva partecipato sia alla Conferenza di Stoccolma nel 1972 che alla conferenza di Versailles, riportò che “for me, a key aspect of Versailles was a strong recognition – far less obvious in Stockholm – that the problems we face in the environment will not be solved by governments alone”70.

A livello aziendale, la WICEM segnò un passo importante nella definizione delle norme ambientali, nella loro operatività all’interno dell’impresa e nel loro riconoscimento da parte delle imprese e delle organizzazioni internazionali. Gli industriali, i governi e le organizzazioni internazionali discussero diversi strumenti di management durante la conferenza: analisi costo-beneficio, linee guida autonome e valutazione dell’impatto ambientale (EIA). Negli anni ‘90, la EIA divenne uno dei pilastri della verifica ambientale che l’ICC promuoveva come strumento di gestione autonoma interna71.

Una questione chiave affrontata più volte alla WICEM fu l’efficacia dell’autoregolamentazione da parte dell’industria. L’ICC, che aveva pubblicato le sue linee guida ambientali nel 1973 e le aveva riviste nel 1981, era una forte sostenitrice dell’autoregolamentazione. Alla conferenza stampa della WICEM, Hans König, Segretario Generale dell’ICC, dichiarò che “international environmental standards should be expressed through guidelines and codes rather than through legally binding treaties among nations. The reason? The virtual impossibility of drafting treaties that are equally appropriate to the many nations asked to ratify them”72. A differenza che negli anni ‘70, l’ICC non era sola. Ad esempio, il World Wildlife Fund (WWF) era un forte sostenitore dei codici di condotta volontari, dopo una collaborazione di successo con i rappresentanti dell’industria navale per combattere l’inquinamento causato dalle navi. Tuttavia, non tutti erano convinti della necessità di introdurre tali misure. Alcune ONG e rappresentanti governativi si chiedevano se questo codice di condotta “could be anything more than [a] public relations exercise” e alcuni uomini d’affari temevano potesse essere “the first step on the road to more restrictive legislation and standards”73. Infine, la conferenza raccomandò lo sviluppo continuo di diverse forme di autoregolamentazione74.

Da Versailles a Rio

La conferenza di Versailles del 1984 segnò un cruciale punto di svolta e cambiò profondamente le relazioni tra UNEP e ICC. Allo stesso tempo, rappresentò un passo importante negli sforzi dell’ICC per implementare il concetto di industria sostenibile nella quotidianità delle attività commerciali e amministrative delle imprese.

L’organizzazione della WICEM rafforzò i legami dell’ICC con l’UNEP in tre aree specifiche. In primo luogo, nel 1985 l’ICC revisionò le sue linee guida ambientali con l’obiettivo di renderle “increasingly specific and actionable”, in risposta alle critiche secondo cui le linee guida iniziali tendevano “to list general and philosophical principles rather than recommendations for specific action.” Nella revisione delle sue linee guida, l’ICC tenne conto delle osservazioni fatte dall’UNEP e teneva “in mind the WICEM Conference Declaration”75. In secondo luogo, a Versailles, l’ICC e l’UNEP decisero di organizzare un “summit” annuale tra amministratori delegati e funzionari governativi di livello ministeriale con l’obiettivo di “to provide the opportunity for a high-level overview of worldwide developments concerning industry and environmental management.” Il primo di questi incontri ad alto livello ICC-UNEP si tenne nel gennaio 1986 e si concentrò sul follow-up della conferenza76. In terzo luogo, l’ICC partecipò in modo più costruttivo alle conferenze dell’UNEP dedicate alle questioni ambientali. Durante questo periodo, le negoziazioni dell’ONU che portarono al Protocollo di Montreal sulle Sostanze che Riducono lo Strato di Ozono, firmato nel 1987, furono centrali, in quanto furono “UNEP’s greatest achievement”77. L’ICC seguì da vicino e partecipò all’elaborazione del Protocollo di Montreal, anche se internamente era divisa sulla questione.78 Tuttavia, dopo che l’accordo fu firmato, l’ICC adottò un’altra strategia, che mirava a sostenere l’implementazione rapida del protocollo e ad aiutare le industrie, specialmente nei paesi in via di sviluppo, a “use appropriate substitutes”79. Questa strategia faceva parte del programma dell’ICC sullo sviluppo sostenibile e rafforzò la legittimità in campo ambientale dell’organizzazione presso l’ONU80.

Durante i tre anni successivi alla conferenza di Versailles, la principale priorità del comitato per l’ambiente dell’ICC fu quella di fornire il proprio contributo alla Commissione Brundtland81. Ciò risultava vitale, perché i membri dell’ICC avevano criticato aspramente alcune versioni preliminari del Rapporto Brundtland. Il Consiglio degli Stati Uniti dell’ICC osservò che una bozza del 1986 del rapporto conteneva “much biased and fallacious data and suggestions for massive over-regulation by governments and international organizations”. La bozza ripeteva “same old clichés and unbalanced approach to complex environmental factors we have been hearing from those who see environmental issues as means to further their own social, economic and political philosophies”, e rendeva urgente un intervento dell’ICC82.

L’ICC fu in grado di influenzare il rapporto finale attraverso diversi canali: espresse le sue preoccupazioni durante le audizioni pubbliche organizzate dalla WCED in diverse regioni del mondo. Ma soprattutto, Thomas McCarthy, presidente del comitato per l’ambiente dell’ICC, era membro dell’Industrial Panel, uno dei tre panel istituiti dalla Commissione Brundtland per commentare le varie bozze del rapporto. L’ICC aveva anche accesso privilegiato ad alcuni membri della commissione, tra cui Susanna Agnelli, politica e imprenditrice italiana appartenente alla famiglia proprietaria della principale produttrice italiana di automobili, la Fiat. Suo fratello, Umberto, era stato membro dell’ICC dagli anni ‘60 agli anni ‘80.

Il Consiglio dell’ICC degli USA aveva contatti diretti con Ruckelshaus, il membro statunitense della WCED83. Maurice Strong, anche lui membro della commissione, non era ostile agli interessi commerciali; infatti “become heavily involved in big business” dopo Stoccolma84. Infine, l’ICC era in contatto regolare con il Segretario Generale della WCED Jim MacNeill, l’ex direttore del Direttorato Ambiente dell’OCSE. MacNeill aveva svolto un ruolo importante nel portare avanti l’agenda dell’OCSE, che enfatizzava l’importanza dei meccanismi di mercato nella definizione delle politiche ambientali85.

Gli sforzi dell’ICC per influenzare il lavoro della commissione valsero l’impegno. “Following the extensive input made by the industry-based members”, McCarthy credeva che “the ICC and business at large would be able to ‘live with’ the final report”86. Anche se l’ICC manifestò alcune riserve sulla versione finale del Rapporto Brundtland, su questioni come l’energia, accolse con favore la pubblicazione di “Our Common Future”, affermando che affrontava “significant issues which require the attention of industry, especially the concept of sustainable development”. Aggiunse che la comunità imprenditoriale avrebbe dovuto accettare la proposta della WCED di cooperare con i governi e le organizzazioni internazionali “in fostering sustained economic growth consistent with environmental quality”87. Come affermò Sally E. Eden, “Our Common Future” era effettivamente favorevole agli interessi commerciali; “the Brundtland Commission opened the door for the business perspective on sustainable development. Previously, within a no-or low-growth framework, business had difficulties influencing the agenda in a positive light”88.

L’autoregolamentazione per lo sviluppo sostenibile

La pubblicazione di “Our Common Future” fu un enorme successo. Tuttavia, come sottolinea Iris Borowy, “the broad acceptance of ‘sustainable development’ created a competition of who could ‘pin his or her definition to the term’ and thereby gain influence over future development decisions”89. L’ICC partecipò a questa competizione. A partire dal 1988, inserì le questioni ambientali tra le sue tre massime priorità. In un documento che descriveva la sua strategia presentava l’idea che l’“exact meaning of sustainable development is . . . highly debatable.” Tuttavia, l’organizzazione credeva che “business spokesmen must take part in such debates, and that they must be properly briefed so as to make a strong and positive contribution”90. In questo confronto, l’ICC riuscì a costruirsi una forte legittimità all’interno della governance ambientale globale e a guadagnare un’influenza significativa. Allo stesso tempo, c’erano tensioni all’interno delle istituzioni dell’ONU, e l’UNEP fu messo da parte nel processo di preparazione della Conferenza di Rio91.

Secondo Pratap Chatterjee e Matthias Finger, durante il Summit della Terra del 1992 a Rio, le imprese e l’industria plasmarono sia la concezione di governance ambientale internazionale sia i confini della definizione di sviluppo sostenibile92. I due individuano una serie di fattori che spiegano il successo delle imprese e della ICC, tra cui il finanziamento della conferenza da parte della ICC, il carattere globale della sua struttura e il fatto che fosse estremamente ben preparata. È vero che fin da metà anni ‘80, l’ICC aveva cooperato da vicino al lavoro dell’ONU nell’ambito della protezione ambientale ed era quindi stata in grado di integrare perfettamente l’appello dell’ONU allo sviluppo sostenibile nelle pratiche di management ambientale. In breve, tre importanti aspetti della strategia dell’ICC contribuirono a legittimare in maniera forte l’organizzazione: l’operazionalizzazione dello sviluppo sostenibile; l’avvio e il coordinamento del contributo aziendale alle principali conferenze dell’ONU che sono seguite alla pubblicazione di “Our Common Future” e hanno portato al Summit della Terra del 1992; e la creazione di una fitta rete aziendale che promuoveva lo sviluppo sostenibile93.

Come ha rivelato Dominique Pestre, negli anni precedenti a Rio, l’ICC aveva sviluppato una concezione coerente dello sviluppo sostenibile che veniva applicata alla gestione interna delle imprese, un processo che era iniziato quasi vent’anni prima94. La Business Charter dell’ICC per lo Sviluppo Sostenibile – che era stata preparata nel 1988, pubblicata nel 1991 e poi sostituì le linee guida ambientali iniziali – riassumeva la concezione che l’ICC aveva dello sviluppo sostenibile95. La carta, in parte redatta dalla compagnia petrolifera Shell, era l’equivalente per la comunità imprenditoriale della “Carta della Terra” sollecitata dalla WCED96. La Business Charter consisteva in sedici principi per aiutare le aziende a convertire la visione della Commissione Brundtland in realtà operativa e “to demonstrate to governments and electorates that business is taking its environmental responsibilities seriously”97. Era quindi importante stabilire politiche, programmi e pratiche “for conducting operations in an environmentally sound manner” e integrarle “into each business as an essential element of management in all its functions”98. Nel lanciare la carta, l’ICC informò i suoi membri che la sua attuazione era “essential for establishment of public credibility in order to reduce government tendency to over-legislate and to strengthen business influence on public policies”99.

Concretamente, la concezione di sviluppo sostenibile dell’ICC favoriva prese d’impegno volontarie in quattro aree chiave: un nuovo approccio di management ambientale integrato nel modello della Qualità Totale; il ciclo di vita dei processi e dei prodotti; audit ambientali; e marketing ambientale ed etichettatura100. A livello più concettuale, l’idea di sviluppo sostenibile così presentata dall’ICC differiva leggermente da quella sviluppato dalla WCED. Come in “Our Common Future”, la Carta delle Imprese dell’ICC sottolineava gli aspetti ambientali dello sviluppo sostenibile (ad esempio, la necessità di gestire l’esaurimento delle risorse non rinnovabili e minimizzare l’impatto dei rifiuti sull’integrità degli ecosistemi). Tuttavia, sottolineando gli aspetti ambientali, la carta “de-emphasize[d] social aspects, in particular intra- and intergenerational equity and the Brundtland emphasis on overwhelming priority to be given to meeting the needs of the world’s poor”101.

L’ICC faceva anche parte integrante del processo di follow-up del Rapporto Brundtland. Nel 1990, i ministri dell’ambiente di trentaquattro paesi della regione della Commissione economica delle Nazioni Unite per l’Europa (ECE) parteciparono alla conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile tenutasi a Bergen, in Norvegia. In quanto partecipante a questa conferenza, all’ICC fu chiesto di avviare e coordinare il contributo delle aziende che la componevano. Appena prima della conferenza, l’ICC organizzò il Forum dell’Industria sull’Ambiente a Bergen, a cui parteciparono duecento CEO provenienti da tutto il mondo, che si confrontarono sulle sfide ambientali che le loro imprese affrontavano, e sulle loro opinioni a proposito dello sviluppo sostenibile. Il forum si concluse con un’“industry agenda for action”, elaborata successivamente dall’ICC102.

Un anno dopo, l’ICC organizzò il Second World Conference on Environmental Management (WICEM 2) a Rotterdam, che fu il più importante evento dell’ICC del 1991103. Più di 750 rappresentanti dell’industria, dei governi e delle ONG si incontrarono per fare il punto sui progressi compiuti nella gestione ambientale dal primo WICEM nel 1984 e per prepararsi alla Conferenza di Rio del 1992. Il messaggio della conferenza di Rotterdam a proposito della governance ambientale internazionale era quello di una forte adesione da parte dell’industria ai principi dello sviluppo sostenibile, che poteva essere realizzato al meglio lavorando all’interno del quadro dell’economia di mercato e attraverso il commercio aperto. Pertanto, l’ICC consigliò ai governi di rafforzare il ruolo dell’Accordo Generale sulle Tariffe Doganali e sul Commercio (GATT) nella promozione dei principi del commercio equo e di dare priorità all’autoregolamentazione piuttosto che agli approcci command-and-control.

Alla Conferenza di Rio del 1992, l’ICC ribadì la sua posizione ed espresse soddisfazione per il fatto che molte delle sue raccomandazioni fossero state prese in considerazione dall’ONU. Si schierò anche a favore dell’Agenda 21, il piano d’azione ambientale adottato dai 182 capi di stato a Rio104. Gli osservatori esterni notarono che la Conferenza di Rio fu un successo storico per le multinazionali. I documenti finali non solo trattavano le multinazionali con i guanti, “but extolled them as key actors in the ‘battle to save the planet”105.

Reti commerciali green

L’influenza dell’ICC può essere spiegata anche dal fatto che essa era il centro dei network commerciali “green”106. Dal 1985, due istituzioni direttamente correlate all’ICC – il comitato per l’ambiente dell’ICC e l’International Environmental Bureau (IEB) – contribuirono all’elaborazione del discorso dell’organizzazione sul management ambientale. Il comitato per l’ambiente dell’ICC perseguiva la sua strategia di seguire da vicino le politiche ambientali delle Nazioni Unite, creando inoltre il proprio Gruppo di Lavoro sullo Sviluppo Sostenibile, presieduto da Peter Bright, responsabile delle questioni ambientali presso la Shell (Londra), che teneva le relazioni con la Commissione Brundtland e che successivamente redasse la Business Charter dell’ICC.

Nel 1985, un anno dopo la conferenza di Versailles, Louis von Planta, CEO di CIBA-Geigy, presentò il progetto di un ufficio internazionale per l’ambiente107. Questo ufficio, per come lo vedeva lui, doveva essere un “international clearing-house for the exchange of information on environmental management questions”108. La proposta di von Planta era stata elaborata da un gruppo di altri cinque CEO: Robert O. Anderson (ARCO), Louis Fernandez (Monsanto), Charles W. Parry (Alcoa) e David Roderick (US Steel). Il sostegno di Anderson, l’altro principale promotore dell’IEB, era particolarmente importante: durante gli anni ‘60 e ‘70, Anderson aveva sostenuto numerose iniziative ambientali ed era una figura nota e rispettata tra le organizzazioni ambientali. La sua statura conferiva legittimità alle azioni di von Planta per lanciare l’IEB109.

L’ufficio, creato diversi mesi dopo, aveva due obiettivi. In primo luogo, era “concerned with the technological, managerial and operational aspects of environmental management rather than general and policy issues”; e in secondo luogo, dava priorità a “responding to the needs of industrial enterprises”110. Rispetto all’ICIE, lanciato più di un decennio prima, l’IEB aveva altre competenze, che contirbuirono a rafforzare la legittimità della politica ambientale dell’ICC tra i suoi membri e con le organizzazioni internazionali e le ONG in generale111.

Innanzitutto, l’IEB non aveva problemi di adesione: era stato fondato e finanziato dalle multinazionali, e non dalle associazioni di categoria. In effetti, la sua creazione rappresentava una nuova forma di lobbying aziendale, emersa negli anni ‘70 e rafforzatasi negli anni ‘80. Due dei quattro CEO americani citati sopra, che aiutarono von Planta a lanciare l’IEB, Parry e Roderick, erano membri attivi del Business Roundtable degli Stati Uniti che era stato fondato nel 1972. Non era un caso: negli anni ‘80, sotto la pressione dell’opinione pubblica, il Business Roundtable degli Stati Uniti aveva trasformato la sua politica ambientale da una di “dogmatic opposition in the name of profits” a una che fosse auto-regolata e orientata al mercato112. La creazione dell’IEB mostrava che la controparte europea del Business Roundtable degli Stati Uniti condivideva la sua etica ambientale. È interessante notare che von Planta era nel 1983 uno dei fondatori del European Round Table of Industrialists, modellato sull’associazione statunitense113.

Le tavole rotonde aziendali costituivano anche una nuova forma di BIA (business interest association), poiché i CEO selezionati dalle società più importanti si incontravano a livello continentale per sviluppare una maggiore influenza politica rispetto a quella che avrebbero altrimenti avuto nelle associazioni di settore o nazionali114. La creazione dell’IEB incarnava questa nuova forma di lobbying: i sei CEO che lanciarono questa iniziativa lavoravano in modo indipendente dall’ICC. Di fronte a un fatto compiuto e nonostante le riserve del suo comitato per l’ambiente, l’ICC alla fine accettò di integrare l’IEB nella sua struttura115. La creazione dell’IEB illustrava quindi l’aumento dell’influenza delle multinazionali all’interno dell’ICC116.

In secondo luogo, la relazione tra l’ONU, in particolare l’UNEP e la Commissione Brundtland, e l’ICC/IEB era molto più collaborativa rispetto agli anni ‘70. Nel corso di un decennio, l’IEB diventò un’istituzione chiave all’interno dell’ICC e contribuì significativamente al rafforzamento di una visione coerente della questione ambientale e di un insieme di pratiche. Attraverso i contatti del suo personale con varie organizzazioni internazionali, rafforzò l’influenza dell’ICC sulla Conferenza di Rio del 1992117.

In terzo luogo, fornendo servizi alle aziende di tutto il mondo, l’IEB ampliò il campo delle attività ambientali dell’ICC, che non erano più limitate alle multinazionali occidentali118. Di conseguenza, l’IEB rafforzava la dimensione globale dell’ICC. Nella seconda metà degli anni ‘80, i comitati nazionali dell’ICC del Sud Globale parteciparono allo sviluppo della strategia di sviluppo sostenibile dell’organizzazione. Il ventinovesimo congresso dell’ICC, tenutosi a New Delhi nel 1987, poneva particolare enfasi sui temi ambientali: nel suo discorso inaugurale, il primo ministro indiano Rajiv Gandhi affrontò la questione; una sessione intitolata “Coniugare la crescita economica e il progresso ambientale” prevedeva presentazioni di Tolba (UNEP) e Syed Babar Ali (Pakistan). La partecipazione di Ali fu particolarmente significativa, trattandosi di un importante industriale che negli anni ‘70 e ‘80 aveva collaborato con l’ICC nel suo tentativo di impedire all’ONU l’introduzione di un codice di condotta vincolante per le multinazionali, ed era stato anche presidente del World Wildlife Fund119. Negli anni ‘80 e ‘90, le discussioni sullo sviluppo sostenibile, sia all’interno della Commissione Brundtland che in altre organizzazioni internazionali, furono segnate da forti tensioni tra rappresentanti dei paesi industrializzati del Nord e i paesi del Sud, poiché i primi si rifiutavano di finanziare la protezione globale dell’ambiente, il che, secondo i secondi, poteva minacciare la loro capacità di sviluppo120. Al contrario, i comitati nazionali dell’ICC occidentali e del Sud promossero una strategia di sviluppo sostenibile che chiedeva auto-regolamentazione e minor intervento statale121.

Dal 1990, l’ICC ricevette anche il sostegno del Business Council for Sustainable Development (BCSD), che era strettamente – anche se indirettamente – associato all’ICC. Nel febbraio 1990, il Segretario Generale dell’ONU Javier Pérez de Cuéllar nominò Maurice Strong Segretario Generale del Vertice della Terra di Rio del 1992. Una delle prime decisioni di Strong fu quella di nominare come suo consigliere speciale Stephan Schmidheiny, un industriale svizzero vicino all’ICC e all’IEB che aveva sviluppato un interesse precoce per le questioni di management ambientale. Strong diede a Schmidheiny due incarichi: agire come rappresentante del mondo imprenditoriale alla Conferenza di Rio, e incoraggiare e promuovere tra le imprese una grande espansione degli interessi economici nello sviluppo sostenibile122. In questo nuovo ruolo di consigliere speciale, e con l’aiuto di Edgar S. Woolard Jr., presidente della DuPont, Schmidheiny creò il BCSD, costituito da 48 uomini d’affari provenienti da tutto il mondo.

Il BCSD pubblicò un libro per la conferenza intitolato Changing Course: A Global Business Perspective on Development and the Environment, che presentava la concezione aziendale della governance ambientale a livello aziendale e internazionale123.

Si profilava una divisione del lavoro tra l’ICC e il BCSD: nell’introduzione al libro From Ideas and Actions, che l’IEB presentò a Rio, il direttore dell’IEB Jan-Olaf Willums spiegò che il BCSD aveva “conveyed a vision of direction and a call for action”, mentre il ruolo dell’IEB era “to transform a vision to reality”124. Inoltre, alcuni membri dello staff del BCSD avevano lavorato per l’ICC o l’IEB negli anni ‘80, incluso l’ex Segretario Generale dell’ICC Hugh Faulkner, assunto da Schmidheiny. Tuttavia, emersero alcune tensioni – le cui origini non sono chiare – e nel 1992 l’ICC fondò una nuova organizzazione “to lobby on environmental issues for business interests”: il World Industry Council for the Environment (WICE)125. Le due organizzazioni, che avevano modelli distinti – WICE era basato sul coinvolgimento delle aziende e il BCSD sulla partecipazione dei CEO – si fusero infine nel 1995 per formare il World Business Council for Sustainable Development (WBCSD), che sarebbe presto diventato uno dei promotori principali dell’ambientalismo corporate a livello mondiale.

Oltre che con il BCSD, l’ICC collaborò anche strettamente con un’altra organizzazione, la Global Environmental Management Initiative (GEMI)126. Quest’ultima era stata fondata nel 1989 dal Business Roundtable degli Stati Uniti, per promuovere degli strumenti di base e dei sistemi di misurazione che aumentassero l’efficacia delle performance di sostenibilità delle aziende negli Stati Uniti e nel mondo. Includeva diciannove multinazionali statunitensi ed era connessa all’ICC poiché era amministrata dalla Fondazione del Consiglio degli Stati Uniti, il braccio didattico del comitato nazionale degli Stati Uniti dell’ICC. Tra i suoi primi progetti suoi primi progetti, la GEMI partecipò allo sviluppo della Business Charter dell’ICC per lo Sviluppo Sostenibile. Nel 1992, sviluppò il Programma di Autovalutazione Ambientale, progettato per valutare i progressi di un’azienda nel soddisfare i sedici principi di management ambientale della carta. Il programma era destinato a migliorare i sistemi di management ambientale nelle organizzazioni aziendali127. Questo processo di responsabilizzazione conferì grande legittimità alla Business Charter dell’ICC, poiché rappresentava una verifica esterna delle performance ambientali delle imprese che avevano adottato la carta.

Durante gli anni ‘80, una comunità transnazionale prese forma a partire dalle interazioni che superavano i confini nazionali, e le diverse istituzioni – associazioni imprenditoriali, da un lato, e organizzazioni ambientali internazionali, dall’altro – si orientarono verso un progetto comune128. Infatti, questi network aziendali “verdi”, malgrado tutte le loro differenze, avevano un punto in comune: la loro fede su uno sviluppo sostenibile che si fondasse sull’autoregolamentazione e sui codici di condotta volontari129. Questa comunità transnazionale mise a punto alcuni concetti economici e gestionali che riflettevano un nuovo consenso intorno all’ordine economico liberale che avrebbe poi trionfato a Rio. Tuttavia, “restava una considerevole eterogeneità tra i membri” di queste comunità transnazionali130. Infatti, alcune delle multinazionali attive nella promozione dello sviluppo sostenibile appartenevano allo stesso tempo a network che erano ben lontani dall’essere eco-friendly. Come spiega Geoffrey Jones, le multinazionali “are complex organizations which can make both sustainability improvements and greenwash at the same time”131. Shell, la multinazionale petrolifera anglo-olandese, ne è un buon esempio.

Shell era fortemente coinvolta nella svolta ambientalista dell’ICC durante la seconda metà degli anni ‘80. Peter Bright, responsabile degli affari ambientali della società a Londra, era un membro del comitato ambientale dell’ICC a partire dalla metà degli anni ‘80. Nel 1988, in qualità di presidente di un piccolo gruppo di lavoro dell’ICC per il follow-up della WCED, riferì che il gruppo di lavoro riteneva “the concept of sustainable development and the political strength of environmentalist or ‘green’ ideas were steadily growing in importance. It was highly desirable for the business community, through inter alia the ICC, to take a pro-active leadership position in facing up to this trend”132. Questa posizione non era completamente condivisa dalla sua azienda; in una revisione interna, alcuni dirigenti di Shell calcolarono che il Rapporto Brundtland fosse “overly optimistic” nel suo tentativo di conciliare la tutela ambientale e la crescita economica133. Bright fu poi nominato presidente del gruppo di lavoro dell’ICC sullo Sviluppo Sostenibile, che elaborò e diffuse la Business Charter. L’impegno di Shell non si limitava alle attività di Bright: il presidente della Royal Dutch Shell, Lodewijk C. van Wachem, fu uno dei CEO europei che si unirono al BCSD di Schmidheiny, e la società divenne anche uno dei membri fondatori del WBCSD134.

Tuttavia, fino alla metà degli anni ‘90, l’impegno della Shell in campo ambientale rimase modesto. Fu solo dopo il 1995 che l’azienda tentò seriamente di incorporare le considerazioni di carattere ambientale nei processi decisionali, dopo che due incidenti avevano minato la sua reputazione: la disputa con Greenpeace riguardo alla Brent Spar, una piattaforma galleggiante per lo stoccaggio del petrolio nel Mare del Nord, e le lamentele pubbliche fatte da una minoranza etnica in Nigeria a proposito dei danni ambientali causati dalla Shell135. Inoltre, ancora nei primi anni ‘90, Shell si opponeva con forza a qualunque provvedimento per combattere il riscaldamento globale. Insieme ad altre compagnie petrolifere, promuoveva lo “scetticismo” e contestava la gravità dei cambiamenti climatici136. In primo luogo, la Shell finanziò le ricerche di alcuni scienziati noti per produrre incertezza: tre giornalisti hanno dimostrato come la Shell fosse stato il principale sostenitore delle attività di Frits Böttcher, un famoso negazionista del cambiamento climatico molto stimato nei Paesi Bassi in quanto cofondatore del ramo olandese del Club di Roma137. In secondo luogo, la Shell fu tra i fondatori della Coalizione Globale per il Clima, un gruppo di facciata progettato per contrastare le prove che dimostravano l’esistenza del cambiamento climatico. In questa veste, l’azienda contribuì a ridurre l’influenza del Panel Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici che l’UNEP aveva istituito nel 1988. Fu solo nel 1998 che Shell lasciò la Coalizione Globale per il Clima138.

Conclusioni

Negli anni ‘70 e ‘80 si assistette a una profonda trasformazione nella governance ambientale globale, che gradualmente aderì a una visione liberale della questione ambientale, che celebrava la crescita economica, le forze di mercato, il libero scambio e un ritiro dello stato. Le Business Impact Analysis (BIA) internazionali giocarono un ruolo importante in questo processo. La ICC, che era stata marginalizzata nei dibattiti sull’ambiente a Stoccolma nel 1972, riuscì gradualmente a imporsi come un partner chiave delle Nazioni Unite entro gli anni ‘90.

Dopo la Conferenza di Stoccolma, si confrontarono visioni contrastanti su come creare possibili quadri di governance ambientale nazionali e internazionali. Quello che l’ICC temeva di più era che l’UNEP avrebbe incoraggiato i governi nazionali ad attuare nuove regolamentazioni che complicassero molto il commercio internazionale, le operazioni commerciali transnazionali e, in ultima analisi, la crescita economica. La posta in gioco era il rischio che si creassero regolamentazioni non armonizzate tra i diversi paesi. In ogni caso, l’ICC lottò negli anni ‘70 per legittimare la propria voce nell’arena delle Nazioni Unite e per affermarsi in veste di organismo “esperto” con l’esperienza e le conoscenze necessarie per inserirsi nelle discussioni politiche internazionali sull’ambiente.

I primi argomenti dell’ICC a favore dell’autoregolamentazione aziendale come meccanismo alternativo di governance rispetto agli interventi governativi ebbero poco impatto, e le sue linee guida ambientali iniziali, pubblicate nel 1973, furono a malapena prese in considerazione dalla comunità imprenditoriale e dalle organizzazioni internazionali. Ciò che accadde tra i primi anni ‘80 e la Conferenza di Rio del 1992 è una storia diversa, in cui la trasformazione delle linee guida riflette l’importanza crescente dell’ICC nella governance globale durante questo periodo. Una vasta legittimità delle linee guida autoregolative dell’ICC fu raggiunta non solo perché furono approvate dalle Nazioni Unite, ma anche grazie all’organizzazione globale della ICC, all’estensione delle sue reti e al potere finanziario dei suoi membri.

Vi furono due importanti fattori che favorirono il successo dell’ICC nel suo tentativo di istituzionalizzare l’autoregolamentazione nel business internazionale e nella governance ambientale globale: la macro-trasformazione ideologica avvenuta negli anni ‘80 e il concetto stesso di sviluppo sostenibile. Per quanto riguarda la prima, le discussioni dei primi anni ‘80 iniziavano a incoraggiare visioni e formule politiche fondate sui meccanismi di mercato e sull’iniziativa privata. La svolta ideologica neoliberista che si manifestò con le amministrazioni di Reagan e Thatcher promosse un ruolo più ampio per il settore privato nei forum internazionali, il che favorì le iniziative di collaborazione tra l’ICC e l’UNEP.

Nello stesso tempo, l’argomento dell’ICC secondo cui non una minore, ma una maggiore crescita avrebbe portato a un miglioramento delle condizioni ambientali grazie a soluzioni tecnologiche, cominciò a ottenere accettazione. Questo spostamento concettuale dal quadro della “crescita zero o bassa crescita” degli anni ‘70 allo “sviluppo sostenibile” si manifestò chiaramente alla conferenza “di pace” di WICEM a Versailles nel 1984, quando l’UNEP e l’ICC si trovarono d’accordo sul fatto che il conflitto intrinseco tra crescita e tutela ambientale fosse una concezione errata.

La nuova definizione della crescita nel quadro dello sviluppo sostenibile risolse molte delle impasse che si erano create in precedenza tra paesi ricchi e paesi poveri nell’arena delle Nazioni Unite tra paesi ricchi e paesi poveri, consentendo allo stesso tempo a imprese e governi di arrivare al consenso su una via da seguire. Questa visione più ottimistica della relazione tra crescita e ambiente aiuta a spiegare la graduale legittimazione dell’autoregolamentazione come alternativa agli interventi governativi, poiché gli interessi economici tradizionali, le forze di mercato e la protezione ambientale potevano ora essere allineati all’interno di questo nuovo discorso favorevole alla crescita.

In secondo luogo, come è stato mostrato in questo articolo, l’ICC non ebbe un ruolo trascurabile nella costruzione del concetto stesso di sviluppo sostenibile. L’ICC non era affatto un attore esterno nel momento in cui la Commissione Brundtland elaborava il suo rapporto: i due erano in qualche modo membri della stessa comunità transnazionale. L’ICC ebbe successo adottando selettivamente la nozione di sviluppo sostenibile e combinandola con standard ambientali e regole che potevano essere implementati all’interno delle aziende. Questa capacità di articolare una visione della governance ambientale globale guidata dal mercato con pratiche “sostenibili” che potevano essere applicate alla gestione delle imprese permise all’ICC di convincere un numero crescente di aziende della validità dei propri standard di autoregolamentazione. Riuscì a convincere anche organizzazioni internazionali, ONG ambientaliste e governi nazionali della necessità di trasferire dallo stato alle imprese una parte delle responsabilità ambientali. Il problema è che questa concezione dello sviluppo sostenibile consentì un “inverdimento graduale”, che non rifletteva il reale bisogno di misure per prevenire il peggioramento di una crisi ambientale in corso, incluso il cambiamento climatico.

1 A. Najam, M. Papa, e N. Taiyab, Global Environmental Governance. A Reform Agenda (Winnipeg, 2006).

2 D. Ciplet, J. Timmons Roberts, Climate Change and the Transition to Neoliberal Environmental Governance, in “Global Environmental Change”,46 (2017), pp. 146-56.

3 Sul ruolo della regolamentazione privata cfr. T.Bartley, Power and the Practice of Transnational Private Regulation, in “New Political Economy”,27, n. 2 (2022), pp. 188-202; P. J. Newell, Business and International Environmental Governance. The State of the Art, in The Business of Global Environmental Governance, a cura di D. L. Levy e P. J. Newell, Cambridge (Ma), MIT Press, 2005, pp. 21-45.

4 G. Sluga, Capitalists and Climate, in “Humanity Journal”(blog), 11.6.2017, ultimo accesso 14.3.2023, http://humanityjournal.org/blog/capitalists-and-climate/.

5 P. J. Newell, Business and International Environmental Governance, cit.; S. Bernstein, The Compromise of Liberal Environmentalism, New York, Columbia University Press, 2001.

6 S. Bernstein, Liberal Environmentalism and Global Environmental Governance, in “Global Environmental Politics”,II (2002), n. 3, pp. 1-16.

7 R. Smith, Green Capitalism. The God That Failed, London, College Publications, 2016.

8 S. Macekura, Of Limits and Growth, Cambridge, Cambridge University Press, 2015; M. Schmelzer, The Hegemony of Growth. The OECD and the Making of the Economic Growth Paradigm, Cambridge Cambridge University Press, 2016; I. Borowy, Before UNEP. Who Was in Charge of the Global Environment? The Struggle for Institutional Responsibility 1968-72, in “Journal of Global History”,XIV (2019), n. 1, pp. 87-106; M. Ivanova, The Untold Story of the Worlds Leading Environmental Institution. UNEP at Fifty, Cambridge (Ma), MIT Press, 2021.

9 Per esempio, cfr. S. Bernstein, Compromise, cit.; L. Sklair, The Transnational Capitalist Class, London, Wiley, 2001; J. Clapp, Global Environmental Governance for Corporate Responsibility and Accountability, in “Global Environmental Politics”,V (2005), n. 3, pp. 23-34; P. Chatterjee, M. Finger, The Earth Brokers. Power, Politics and World Development, London, Routledge, 2014; D. Pestre, La mise en économie de l’environnement comme règle. Entre théologie économique, pragmatisme et hégémonie politique, in “Ecologie & Politique”,(2016), n. 52, pp. 19-44; D. Pestre, Les entreprises globales face à l’environnement, 1988-1992. Engagement volontaires, management vert et labels, in “Le Mouvement Social”(2020), n. 271, pp. 83-104.

10 S. Bernstein, Liberal Environmentalism, cit.; I. Borowy, Defining Sustainable Development for Our Common Future. A History of the World Commission on Environment and Development (Brundtland Commission), London, Routledge, 2014, cap. 2.

11 The Business of Global Environmental Governance, a cura diD. L. Levy e P. J. Newell, cit.; N. Hildyard, Foxes in Charge of the Chickens, in Global Ecology. A New Area of Political Conflict, a cura di W. Sachs, London, Zed Books, 1993, pp. 22-33.

12 G. Jones, Profits and Sustainability. A History of Green Entrepreneurship, Oxford, Oxford University Press, 2017, pp. 233-62, 379.

13 A.-K. Bergquist, Renewing Business History in the Era of the Anthropocene, in “Business History Review”, XCIII (2019), n. 1, pp. 3-24.

14 J. Capp, The Privatization of Global Environmental Governance. ISO 14000 and the Developing World, in “Global Governance”, IV (1998), n. 3, pp. 295-316; The Business of Global Environmental Governance, a cura diD. L. Levy e P. J. Newell, cit.; D. Vogel, Trading Up. Consumer and Environmental Regulation in a Global Economy, Cambridge (Ma), Harvard University Press, 2009.

15 R. Falkner, The Business of Ozone Layer Protection. Corporate Power in Regime Evolution, The Business of Global Environmental Governance, a cura diD. L. Levy e P. J. Newell, cit., pp. 105-34.

16 T. Bartley, Transnational Corporations and Global Governance, in “Annual Review of Sociology”,XLIV (2018), pp. 145-63.

17 V. Haufler, A Public Role for the Private Sector. Industry Self-Regulation in a Global Economy, Washington (Dc), Carnegie Endowment for International Peace, 2001.

18 The Business of Global Environmental Governance, a cura diD. L. Levy e P. J. Newell, cit.

19 T. David, P. Eichenberger, Business and Diplomacy in the Twentieth Century. A Corporatist View, in “Diplomatica”, II (2020), n. 1, pp. 48-56; T. David, P. Eichenberger, ‘A World Parliament of Business’? The International Chamber of Commerce and Its Presidents in the Twentieth Century, in “Business History”,LXV (2023), n. 2, pp. 260-283; Q. Slobodian, Globalists. The End of Empire and the Birth of Neoliberalism, Cambridge (Ma), Harvard University Press, 2018.

20 C. Druelle-Korn, The Great War. Matrix of the International Chamber of Commerce, a Fortunate Business League of Nations, in The Impact of the First World War on International Business, a cura di A. Smith, S. Mollan e K. D. Tennent, New York, Routledge, 2016, pp. 103-20.

21 C. Lemercier, J. Sgard, Arbitrage privé international et globalisation(s), (Research report, Sciences Po, CNRS, 2.6.2015), ultimo accesso 14.3.2023, https://halshs.archives-ouvertes.fr/halshs-01158980; S. Jogorajan, Double Taxation and the League of Nations,Cambridge, Cambridge University Press, 2018; M. Bertilorenzi, The International Chamber of Commerce. The Organisation of Free-Trade and Market Regulations from the Interwar Period to the 1960s, in Free Trade and Social Welfare in Europe. Explorations in the Long 20th Century, a cura di L. Coppolaro e L. Mechi, London, Routledge, 2020, pp. 90-108; R. Hoffer, Is the Business of Business Alone? The International Chamber of Commerce and the Origins of Global Business Diplomacy, 1920-1931 (“Economic History Student Working Papers”, n. 4, London School of Economics and Political Science, December 2021); N. M. Perrone, Bridging the Gap between Foreign Investor Rights and Obligations. Towards Reimagining the International Law on Foreign Investment, in “Business and Human Rights Journal”, VII (2022), n. 3, pp. 375-96.

22 E. Katzarova, The Social Construction of Global Corruption. From Utopia to Neoliberalism, Cham, Palgrave Macmillan, 2019.

23 N. Gilman, The New International Economic Order. A Reintroduction, in “Humanity”,VI (2015), n. 1, pp. 1-16; L. Warlouzet, Governing Europe in a Globalizing World. Neoliberalism and Its Alternatives following the 1973 Oil Crisis (London, Routledge, 2017); S. Kott, Organiser le monde. Une autre histoire de la Guerre froide, Paris, Seuil, 2021.

24 D. Kelly, The International Chamber of Commerce, in “New Political Economy”,X (2005), n. 2, pp. 259-71; The Business of Global Environmental Governance, a cura diD. L. Levy e P. J. Newell, cit.; The Globalization and Environment Reader, a cura di P. J. Newell e J. Timmons Roberts, Malden (Ma), Wiley, 2017.

25 Per una panoramica sulle international business interest associations, vedere N. Rollings, The Development of Transnational Business Associations during the Twentieth Century, in “Business History”, LXV (2023), n. 2, pp. 235-259; P. Eichenberger, N. Rollings, J. M. Schaufelbuehl, The Brokers of Globalization. Towards a History of Business Associations in the International Arena, in “Business History”, LXV (2023), n. 2, pp. 217-234.

26 B. Ward, R. Dubos, Only One Earth. The Care and Maintenance of a Small Planet,Harmondsworth, Penguin, 1972; M. F. Strong, The Stockholm Conference, in “Geographical Journal”,CXXXVIII (1972), pp. 412-17; E. Paglia, The Swedish Initiative and the 1972 Stockholm Conference. The Decisive Role of Science Diplomacy in the Emergence of Global Environmental Governance, in “Humanities and Social Sciences Communications”, VIII (2021), n. 1, pp. 1-10.

27 D. H. Meadows, D. L. Meadows, J. Randers, W. W. Behrens III, The Limits to Growth. A Report for the Club of Rome’s Project on the Predicament of Mankind, New York, Universe Books, 1972. On the Club of Rome, see M. Schmelzer, The Eegemony of Growth, cit., cap.7.

28 P. Ekins, ‘Limits to Growth’ and ‘Sustainable Development’. Grappling with Ecological Realities, in “Ecological Economics”, VIII (1993), n. 3, pp. 269-88.

29 G Jones, Renewing Unilever. Transformation and Tradition, Oxford, Oxford University Press, 2005, pp. 342-447.

30 Special Committee on the Environment. Proposal for an international environment center for industry, 29.11.1972, busta 11, Swedish National Committee of International Chamber of Commerce, National Archives (da qui in poi, SICCNA).

31 Tra il 1949 e il 1981, l’affiliato statunitense dell’ICCP si chiamava United States Council of the International Chamber of Commerce. Negli anni ‘80, il suo nome venne cambiato in United States Council for International Business. Questo articolo utilizza “Consiglio degli Stati Uniti” per riferirsi a entrambi. Cfr. J. M. Schaufelbuehl, Becoming the advocate for US-based multinationals. The United States Council of the International Chamber of Commerce, 1945-1974, in “Business History”, LXV (2023), n. 2, pp. 284-301.

32 Charles S. Dennison (in veste di direttore, Development Committee, Consiglio degli Stati Uniti dell’ICC) a Willis C. Armstrong (presidente), 1971 International Environment Workshop, Aspen Colorado, July 1971, memorandum, 29.7.1971, busta 21, P. D. Reed Papers, Hagley Museum, Wilmington (De).

33 Special Committee on the Environment. Memorandum of decisions taken at a meeting on 22 February1972, n.d., busta 11, SICCNA.

34 Sull’IIEA, vedere D. Satterthwaite, Barbara Ward and the Origins of Sustainable Development, London, IIED, 2006, pp. 12-13.

35 Walter Hill ad Axel Iveroth, 26.1.1972, busta 11, SICCNA; Maurice Strong, Private Briefing for World Business Leaders, programma dell’evento, 21.2.1972, busta 11, SICCNA. Sul ruolo del mondo degli affari alla Conferenza di Stoccolma, vedere G. Sluga, Capitalists and Climate, cit.; G. Sluga, Climate and Capital. Barbara Ward, Margaret Mead and the 1972 UN Conference on the Human Environment, in Rise of the International. International Relations meets History, a cura di R. Devetak e T. Dunne, Oxford, Oxford University Press, 2024, pp. 310-329.

36 Industry and Environment V. Identification and control of pollutants of broad international significance, 1972, busta 11, SICCNA.

37 The World Industry Conference on the Human Environment 29-30 May 1972, Gothenburg, Sweden. Conclusions adopted by the Final Plenary Session, busta 11, SICCNA; Special Committee on the Environment. Proposal for an international environment center for industry, 29.11.1972, p. 2.

38 John Langly (Regno Unito) è stato presidente del comitato per la legislazione ambientale e tecnica della Confederazione dell’Industria Britannica e direttore della Imperial Tobacco Ltd.

39 G. Hill, The Pollution Lobby, in “New York Times”, 18.6.1972.

40 Special Committee on the Environment. Memorandum for Discussion, 1972, busta 11, SICCNA.

41 Walter Hill, intervento alla plenaria, 8.6.1972, busta 11, SICCNA.

42 Federation of Swedish Industries, “Vår Miljö”, n. 7, 1972.

43 I. MacGregor, Industry and the Environment, discorso di apertura, 24° congresso dell’ICC, Rio de Janeiro, 21.5.1973, busta 6, ser. 5, 6/1973, Winifred Armstrong Papers, Pace University School of Law Library, White Plains, NY (da qui in poi, Armstrong Papers).

44 Vedere A.-K. Bergquist, T. David, Beyond Limits to Growth. The Collaboration between the International Business and the United Nations in Shaping Global Environmental Governance (“IEP Working Paper Series”, n. 80, 2022).

45 Winifred Armstrong a M. Stanley Dempsey, 15.1.1974, busta 6, ser. 5, 3/1974, Armstrong Papers.

46 F. Taylor Ostrander a Raymond K. Fenelon, International Chamber of Commerce, 18.1.1974, 1, busta 6, ser. 5, 3/1974, Armstrong Papers.

47 H. S. Gorman, Efficiency, Environmental Quality and Oil Field Brines. The Success and Failure of Pollution Control by Self-Regulation, in “Business History Review” LXXIII (1999), n. 4, pp. 601-40.

48 Special Committee on Environment, Meeting, 28.9.1979, 7, ED 708/2, vol. 138, 1978-1980, Institut für Zeitgeschichte, Munich (hereafter, IfZArch).

49 Introductory Statement. Geneva 12.7.1973, busta 33, Maurice F. Strong Papers, Environmental Science and Public Policy Archives, Lamont Library, Harvard University, Cambridge, MA (da qui in poi, Strong Papers).

50 Report sulla consultazione relativa a Outer Limits, Aspen, CO, 19-24.8.1973, busta 34, cartella 335, Strong Papers.

51 ICC [International Chamber of Commerce] and Federation of Swedish Industries, World Industry Conference on the Environment (Stockholm, 1982), pp. 4-6.

52 Ivi, p. 41.

53 Ivi, 41.

54 D. Struthers, The United Nations Environment Programme after a Decade. The Nairobi Session of a Special Character, May 1981, in “Denver Journal of International Law &Policy”, XII (1981), pp. 269-284.

55 Ivi, p. 281.

56 “World Environment Center”, nuova edizione, 3.6.1983, busta 272, cartella VII, Strong Papers.

57 ICC. Commission de l’environnement, Réunion du 10 février 1984, 10.2.1984, 2, ED 708/2, vol. 141, 1984, IfZArch.

58 R. Pearson, Industry, Environment Focus of UN Conference, in “Journal of Commerce”, 3.6.1983, busta 272, cartella 2562, Strong Papers.

59 M. Ivanova, The Untold Story, cit.

60 Gregory J. Newell a David M. Roderick, promotore, World Industry Conference on Environmental Management, 28.10.1983, busta 272, cartella 2563, Strong Papers.

61 M. Ivanova, The Untold Story, cit.

62 World Industry Conference on Environmental Management Sponsored by Industry and the United Nations Environment Programme (UNEP) in Cooperation with the International Chamber of Commerce (ICC), lista dei contributi, 23.2.1984, busta 272, cartella 2563, Strong Papers.

63 Minute del decimo Steering Committee, 29.3.1984, 3, busta 272, cartella 2562, Strong Papers.

64 Westell a Strong, 24.2.1984, busta 272, cartella 2563, Strong Papers.

65 UNEP, Industry and Environment Office, World Industry Conference on Environmental Management (WICEM). Outcome and Reactions (Paris, 1984), 1.

66 M. K. Tolba, T. M. McCarthy, Draft Discussion Paper for the Conference, n.d., cap. II, 1, n.d., busta 272, cartella 2564, Strong Papers.

67 Ivi, cap. II, p. 3.

68 UNEP, Industry and Environment Office, WICEM. Outcome and Reactions, cit., p. 3.

69 Ivi, p. 14.

70 R. O. Anderson, Does Industry Have a Global Environmental Conscience?, in “EPA Journal”, XI (1985), p. 8. Su Anderson alla Conferenza di Stoccolma, vedere G. Sluga, Climate and Capital, cit.

71 R. Hillary, Environmental Auditing. Concepts, Methods and Developments, in “International Journal of Auditing”, II (1998), n. 1, p. 75; D. Pestre, Les entreprises globales, cit., pp. 83-104.

72 Hans König, Secretary-General of the ICC, discorso preparato per la conferenza stampa per la WICEM, Parigi, 7.9.1984, busta 272, cartella 2563, Strong Papers.

73 UNEP, Industry and Environment Office, WICEM. Outcome and Reactions, p. 24.

74 Ivi, p. 13.

75 Statement by Thomas M. McCarthy, Chairman of the Commission on Environment, ICC To UNEP’s Governing Council at its Thirteenth Session Nairobi, 15.5.1985, p. 4; ICC Environmental Guidelines for World Industry, 20.6.1985, p. 1; entrambi in ED 708/2, vol. 142, 1983-85, IfZArch.

76 Verbale riassuntivo della riunione della Commissione per l’Ambiente dell’ICC, 18.4.1986, 2-3, ED 708/2, vol. 143, 1986-87, IfZArch.

77 M. Ivanova, The Untold Story, cit., p. 152. Sul ruolo del mondo degli affari nel Protocollo di Montreal, vedere anche R. Falkner, Business Power and Business Conflict. A Neo-pluralist Perspective, in Business Power and Conflict in International Environmental Politics, a cura di R. Falkner, London, Palgrave MacMillan, 2008, pp. 16-45.

78 Verbale riassuntivo della riunione della Commissione per l’Ambiente dell’ICC, 27.5.1988, 7-8, 480.1.4.11.1.2, 1983-88, Archiv fur Zeitgeschichte, Zurich (da qui in poi, AfZ).

79 ICC’s Own Programme on Sustainable Development, in Sustainable Development, the Business Approach, ICC brochure (1989), p. 9, ED 708/2, vol. 146, 1989, IfZArch.

80 ICC’s Own Programme, cit. Sulla reazione positiva di Tolba rispetto alla risposta dell’industria al protocollo di Montreal, vedere International Environment Reporter, 10.2.1988, 2, 124.1.1., AfZ.

81 Cfr. Commissione per l’Ambiente dell’ICC, riunione del 18 April 1986, 7, ED 708/2, vol. 143, 1986-87, IfZArch.

82 ICC Commission on Environment, Draft Report of WCED Advisory Panel on Industry and Sustainable Development, Meeting on 18 April 1986, Telex from Mr. Don McCollister (Chairman of the US Council’s Environment Committee), to Mr. F. A. Meier (Switzerland) with copy for International Headquarters, 3, ED 708/2, vol. 143, 1986-87, IfZArch.

83 I. Borowy, Defining Sustainable Development, cit., pp. 70 e 68.

84 P. Chatterjee, M. Finger, The Earth Brokers, cit., p. 105.

85 I. Borowy, (Re-)Thinking Environment and Economy. The Organisation for Economic Cooperation and Development and Sustainable Development, in International Organizations and Environmental Protection. Conservation and Globalization in the Twentieth Century, a cura di W. Kaiser e J.-H. Meyer, New York, Berghahn, 2017, p. 222.

86 Verbale riassuntivo della riunione della Commissione per l’Ambiente dell’ICC, 18.4.1986, 7, ED 708/2, vol. 143, 1986-1987, IfZArch.

87 ICC’s Own Programme on Sustainable Development, in Sustainable Development, the Business Approach, brochure dell’ICC (1989), p. 5, ED 708/2, vol. 146, 1989, IfZArch.

88 S. E. Eden, Using Sustainable Development. The Business Case, in “Global Environmental Change”,IV (1994), n. 2, p. 161.

89 I. Borowy, Defining Sustainable Development, cit., p. 179.

90 ICC Commission on Environment, Principal Current ICC Projects in the Environmental Area, February 1989, 1, ED 708/2, vol. 146, 1989, IfZArch.

91 M. Ivanova, The Untold Story, cit., p. 227.

92 P. Chatterjee, M. Finger, The Earth Brokers, cit.

93 Cfr., per esempio, ICC’s Own Programme, cit., p. 9.

94 D. Pestre, Les entreprises globales.

95 ICC, Business Charter for Sustainable Development Principles for Environmental Management, Paris, ICC, 1991.

96 ICC, Commission on Energy, Meeting on the 11 October 1991, Executive Summary, 2, 480.1.4.9.4, AfZ.

97 ICC Working Party on Sustainable Development, Background Note on the ICC Business Charter for Sustainable Development – Principles for Environmental Management, 11.12.1990, 125.4.2., AfZ.

98 ICC, Business Charter, 1-2. Per un resoconto più dettagliato, vedere A.-K. Bergquist, T. David, Beyond Limits, cit.

99 WICEM 2, Second World Industry Conference on Environmental Management, Session 8. Strengthening Industry’s Role, Background Notes, 1-2, 2.11.1991, 3, 124.1.3., AfZ.

100 Si profila in ICC, An ICC Guide to Effective Environmental Auditing, Paris, ICC, 1991. Vedere anche Chatterjee e Finger, Earth Brokers, cap. 8; D. Pestre, Les entreprises globales, cit.

101 P. Chatterjee, M. Finger, The Earth Brokers, cit., cap. 8; D. Pestre, Les entreprises globales. R. Barkemeyer, D. Holt, L. Preuss, S. Tsang, What Happened to the ‘Development’ in Sustainable Development? Business Guidelines Two Decades after Brundtland, in “Sustainable Development”,XXII (2014), n. 1, p. 23.

102 J.-O. Willums,The Greening of Enterprise. Business Leaders Speak Out (paper presentato all’Industry Forum on Environment, un incontro per dirigenti d’azienda in connesso alla Conferenza dell’ONU sull’Azione per un Futuro Comune, Bergen, Norway, 10-11.5.1990), 1-3.

103 Jean-Charles Rouher, Segretario Generale dell’ICC, lettera, 28 Gennaio. 1991, 124.1.2., AfZ.

104 Vedere Jonathan Plaut, chair, Environment Committee, US Council for International Business, discorso preparato, 2.6.1992, in House Foreign Affairs Committee, U.S. Policy toward the United Nations Conference on Environment and Development. Joint Hearings before the Committee on Foreign Affairs (Washington, DC, 1992), 254.

105 N. Hildyard, Foxes in Charge, cit., p. 22.

106 L. Sklair, The Transnational Capitalist Class, cit., pp. 204-5.

107 Sul ruolo di von Planta nelle BIA’s svizzere, cfr. S. Pitteloud, Les multinationales suisses dans larène politique (19421993), Geneva, Droz, 2022.

108 Verbale riassuntivo della riunione della Commissione per l’Ambiente dell’ICC, 18.4.1986, 3.

109 Sul ruolo di Anderson, il primo presidente dell’IEB, vedere Raymond J. P. Brouzes, direttore, Environmental Affairs, Alcan, circolare su “some recent developments with respect to the WICEM conference”, 14 Sep. 1984, 2, busta 272, cartella 2563, Strong Papers; sul suo ruolo nel vertice ICC/UNEP Del 23 Gennaio. 1986, vedere anche A. Clerc, Réunion pour la mise en oeuvre des conclusions de la Conférence mondiale de l’industrie sur la gestion de l’environnement, 20.3.1986, Bern, 124.1.1., AfZ.

110 CC Commission on Environment, Meeting, 17.10.1986, 4, ED 708/2, vol. 143, 1986-87, IfZArch.

111 Sull’ICIE, vedere A.-K. Bergquist, T. David, Beyond Limits, cit.

112 B. C. Waterhouse, Lobbying America. The Politics of Business from Nixon to NAFTA, Princeton, Princeton University Press, 2013, cap.. 3, 197.

113 Sull’European Business Roundtable of Industrialists, vedere B. Van Apeldoorn, Transnational Class Agency and European Governance. The Case of the European Round Table of Industrialists, in “New Political Economy”, V (2000), n. 2, pp. 157-81; A. Pageaut, The Current Members of the European Round Table. A Transnational Club of Economic Elites, in “French Politics”, VIII (2010), n. 3, pp. 275-93.

114 P. Eichenberger, N. Rollings, J. M. Schaufelbuehl, The Brokers of Globalization, cit.; W B. C. Waterhouse, Lobbying America, cit., cap. 3.

115 IEB forniva, per esempio, know-how e tecnologie per il buon management ambientale (offerte dai suoi membri) a coloro che lo chiedevano dai paesi in via di sviluppo (verbale riassuntivo della riunione della Commissione per l’Ambiente dell’ICC, 18.4.1986, 3-6). Sulle attività dell’IEB, vedere “IEB Newsletter” in 480.1.4.11.2.1, AfZ.

116 Sulla crescente influenza all’interno dell’ICC del tempo dei CEO delle multinazionali alle spese dei comitati nazionali, vedere anche S.-S. Spiliotis, Die Zeit Der Wirtschaft. Business Statesmanshipund die Geschichte der Internationalen Handelskammer, Göttingen, Wallstein, 2019, 205.

117 Cfr. Il verbale riassuntivo della riunione della Commissione per l’Ambiente dell’ICC, 13.5.1987, 4-7, ED 708/2, vol. 147, 1986-88, IfZArch; Eden, Using Sustainable Development, pp. 163-64.

118 ICC Commission on Environment, Principal Current ICC Projects” p. 5.

119 Su questa figura, vedere S. Babar Ali, intervistato da T. Khanna, 5.5.2016, Creating Emerging Markets Oral History Collection, Baker Library Special Collections and Archives, Harvard Business School, ultimo accesso 14 March 2023, https://www.hbs.edu/creating-emerging-markets/interviews.

120 S. Macekura, Of Limits and Growth, cit.; I. Borowy, Defining Sustainable Development, cit.

121 Sulle aziende che supportarono la Business Charter dell’ICC nel maggio 1992, cfr. House Foreign Affairs Committee, U.S. Policy toward the United Nations Conference on Environment and Development. Joint Hearings, 321-22; The Success Story of the ICC’s Green Code for Business. More Than 1,260 Supporters, in “ICC Business WorldIV (Aprile-Giugno 1994), n. 3, pp. 4-5.

122 Draft. Summary Description of Proposed Assignment of Dr. Stephan Schmidheiny, 25.6.1990, busta 495, cartella 4675, Strong Papers.

123 L. Timberlake, Catalyzing Change. A Short History of the WBCSD, Geneva, WBCSD, 2006, cap. 1-2. Cfr.l Stephan Schmidheiny con il Business Council for Sustainable Development, Changing Course. A Global Business Perspective on Development and the Environment, Cambridge (Ma), MIT Press, 1992.

124 J.-O. Willums, U. Golüke, From Ideas to Action. Business and Sustainable Development; The ICC Report on the Greening of Enterprise 92, Oslo, ICC Publishing, 1992, p. 10.

125 P. Chatterjee, M. Finger, The Earth Brokers, cit., p. 115.

126 Sul GEMI, cfr. L. Sklair, The Transnational Capitalist Class, cit., p. 204; D. Pestre, Les entreprises globales, cit., pp. 91-92; V. Haufler, A Public Role, pp. 45-46.

127 S. B. Hellem, A. M. Goldman, The Global Environmental Management Initiative (GEMI). A Case for Corporate Leadership; Two Decades of Environmental, Health and Safety (EHS) and Sustainability Progress, Washington (Dc), GEMI, 2009, pp. 1-5.

128 Sulla nozione di comunità transanzionale, vedere M.-L. Djelic, S. Quack, Transnational Communities and Governance, in Transnational Communities. Shaping Global Economic Governance, a cura di M.-L. Djelic, S. Quack, Cambridge, Cambridge University Press, 2010, pp. 3-36.

129 L. Sklair, The Transnational Capitalist Class, cit., pp. 204-5.

130 M.-L. Djelic, S. Quack, Transnational Communities, p. 27.

131 G. Jones, Profits and Sustainability, cit., p. 376.

132 ICC Commission on Environment, Meeting, 24.10.1988, 6, ED 708/2, vol. 145, 1988, IfZArch.

133 K. Sluyterman, Royal Dutch Shell. Company Strategies for Dealing with Environmental Issues”, in “Business History Review”, LXXXIV (2010), n. 2, p. 221.

134 L. Timberlake, Catalyzing Change, cit,. pp. 11, 24, 76.

135 K. Sluyterman, Royal Dutch Shell, cit.; J. G. Frynas, Royal Dutch/Shell, in “New Political Economy”,VIII (2003), n. 2, pp. 275-85; A. Kolk, D. Levy, Winds of Change. Corporate Strategy, Climate Change and Oil Multinationals, in “European Management Journal”,XIX (2001), n. 5, pp. 501-9.

136 Su queste politiche, vedere R. E. Dunlap, A. M. McCright, Organized Climate Change Denial, in The Oxford Handbook of Climate Change and Society, a cura di J. S. Dryzek, R. B. Norgaard e D. Schlosberg, Oxford, Oxford University Press, 2011, 144-60. Vedere anche C. Bonneuil, P.-L. Choquet, B. Franta, Early Warnings and Emerging Accountability. Total’s Responses to Global Warming, 1971-2021,in “Global Environmental Change”, XXXII (2021), n. 71.

137 B. Van Beek, A. Beunder, J. Mast, M. De Buck, For Nine Years, Multinationals like Shell and Bayer Funded a Prominent Climate Denier, in “Follow the Money”, 3.3.2020, ultimo accesso 14.3.2023, https://www.ftm.nl/dutch-multinationalsfunded-climate-sceptic

138 A. Kolk, D. Levy, Winds of Change, cit., pp. 502-3; M. Boon, A Climate of Change? The Oil Industry and Decarbonization in Historical Perspective, in “Business History Review”, XCIII (2019), n. 1, pp. 101-25. On the ICC and climate change, see A.-K. Bergquist, T. David, Business Inaction. The International Chamber of Commerce and Responses to Climate Change, 1970s to the Early 1990s (paper presentato al congresso dell’EBHA, Madrid, 23-25.6.2022).

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