Comunicazione letta al seminario Global Environment. A Journal of Transdisciplinary History. Un bilancio a diciotto anni dalla sua nascita, tenuto al CNR-ISMed di Napoli il 17 giugno 2024.
Facile dire che, quando nel 2008 uscì il primo numero del Global Environment, fu una scommessa. Anzitutto perché si trattava di una rivista promossa da storici italiani, ma scritta in inglese e rivolta a un pubblico internazionale, oltreché sorretta da un piccolo editore, dal nome anch’esso eloquente: le edizioni XL, extra-large, appunto, come le ambizioni di chi intendeva parlare dell’ambiente globale alla comunità degli storici. Ovvero di Gabriella Corona e Mauro Agnoletti e delle due istituzioni cui essi tuttora appartengono, l’allora Istituto di studi sulle società del Mediterraneo (oggi Ismed) del Cnr con sede a Napoli, e il Dipartimento di Scienze e Tecnologie forestali dell’Università di Firenze. Agnoletti e Corona erano parte del piccolo gruppo di storici dell’ambiente italiani inseriti nella European Society for Environmental History (Eseh), di cui il primo era all’epoca vicepresidente.
I due direttori della rivista erano affiancati da un comitato editoriale composto da una ventina di studiosi: erano americani del nord e del sud del continente, africani, asiatici e di vari paesi europei, oltre alcuni italiani, i quali condividevano l’interesse per la storia ambientale, ma i cui profili disciplinari spaziavano dall’antropologia alle scienze agrarie e forestali, dalla chimica all’ecologia, dall’economia alla geografia, e quant’altro. Quasi vent’anni dopo, l’assetto non è cambiato, come immutata è rimasta la ragione sociale, quella di guardare alle questioni ambientali nelle loro dimensioni globali, ma non necessariamente planetarie, ovvero cercando di coglierle nelle diverse realtà del pianeta e di mettere in comunicazione gli studiosi di quelle diverse realtà, andando oltre la dicotomia tra occidente e resto del mondo, che nasconde la varietà, la sovrapposizione e l’interazione dei processi trasformativi. Questa maggiore attenzione alle diverse (e talvolta periferiche) aree del pianeta e agli studiosi che le studiano e le vivono era e resta la cifra caratteristica del “Global Environment” e la suggestione che lo portava a ritagliarsi uno spazio, rispetto alle due grandi riviste di storia ambientale all’epoca già solidamente affermate, non a caso entrambe espressioni della cultura – e dello sguardo – storiografico anglosassone: la statunitense “Environmental History”(organo della American Society for Environmental history e della Forest History Society) e la sostanzialmente britannica “Environment and History”.
Quella suggestione era d’altronde strettamente collegata ad una visione della storia ambientale che, come esplicitato nei primi editoriali della rivista, insisteva sui nessi tra il passato e il presente e sulla necessità di comprendere come si è arrivati all’attuale stato di crisi ambientale e come le questioni ambientali sono state gestite nel passato e come lo sono nel presente. L’ambiente, dunque, come prospettiva per guardare al mondo e alla sua storia, allo sviluppo economico, ai rapporti sociali e produttivi, alle modalità di government e alle relazioni tra i popoli. Dunque, integrare, o rivoluzionare, l’agenda tradizionale degli storici, ma lasciando al centro della scena gli uomini nelle relazioni tra loro e nel loro essere parte della natura. E, per fare questo, lavorare per elaborare un linguaggio comune e promuovere uno scambio di conoscenze e di metodi di ricerca, che possano alimentare la storia dell’ambiente e superare nella cultura dei decisori politici la separazione tra economia e ambiente.
A questi intenti rispondeva la vivace struttura della rivista, che ad una più corposa parte, sovente monografica, composta da articoli di taglio accademico, accompagnava interventi sul tempo presente, affidati a varie rubriche, tra le quali risaltavano le interviste ad alcuni nomi eccellenti della cultura scientifica e politica ambientalista, come Donald Worster, John Mc Neill, Serge Latouche, Joachim Radkau, Vandana Shiva.
Coerente con questi intenti era anche l’ambizione culturale evocata dal sottotitolo, quello con il quale la rivista si definiva Journal of History and Natural and Social Sciences, una formula inconsueta, che teneva insieme tre grandi campi disciplinari, la storia, le scienze naturali e le scienze sociali e evocava un dibattito all’epoca particolarmente intenso. Era la prospettiva dell’interdisciplinarietà, effettivamente espressa tanto dalla già ricordata composizione del comitato editoriale, quanto dai profili di molti degli autori dei saggi pubblicati, che si muovevano trasversalmente, navigavano tra questi ambiti, travasando conoscenze e promuovendo l’interazione, oltreché la convivenza, tra paradigmi o, per lo meno, percorsi disciplinari in origine anche assai distanti. Nel 2015, la riformulazione del sottotitolo in Journal of Transdisciplinary History ha in qualche modo preso atto del superamento o di una certa rigidità di quella dicotomia e, nella centralità del metodo storico della rivista, ha confermato la ricerca e la fecondità di un approccio capace di attraversare, contaminandoli, gli spazi delle competenze, dei metodi e delle prospettive disciplinari.
Che la rivista intercettasse e in apprezzabile misura rispondesse ad una domanda diffusa lo dimostrano i quasi 40, consistenti, fascicoli usciti finora, dunque in ormai circa diciotto anni, con esemplare regolarità e evidente solidità, sotto la guida dei due condirettori e con il sostegno di un comitato editoriale che ha mantenuto inalterati, se non tutti i nomi, certamente il proprio profilo scientifico e culturale. E, difatti, nel 2020 il passaggio della periodicità da semestrale a quadrimestrale ha suggellato questa solidità. Che l’obiettivo di collocarsi con un proprio originale profilo nel panorama internazionale degli studi di storia ambientale sia stato progressivamente raggiunto con esiti di indubbia qualità lo conferma, d’altra parte, la collaborazione avviata nel 2012 con il prestigioso Rachel Carson Center, centro di ricerca di eccellenza promosso dalla Ludwig Maximilian Universität di Monaco di Baviera e punto di riferimento internazionale per gli studi di storia ambientale, che da allora ogni anno cura uno dei fascicoli del “Global Environment”.
A ulteriore riprova della crescita, dei risultati raggiunti e delle persistenti ambizioni del progetto del “Global Environment” è, inoltre, intervenuto nel 2017 il passaggio ad un diverso editore, la White Horse Press, casa editrice di qualità, a rivendicata gestione familiare, e nome prestigioso nell’ambito della storia ambientale, sia per importanti collane monografiche, sia per la già ricordata rivista di riferimento, “Environment and History”. Una conferma del peso che il “Global” ha acquisito nella disciplina, senz’altro vincendo quella scommessa da cui siamo partiti.