Recensione di Sergio Bologna, Alcune note sulla questione dei ceti medi e dell’estremismo di destra in Italia dal dopoguerra a oggi, Acro-polis, Trieste, 2024.
Il libro ripropone un intervento tenuto dall’autore a un simposio internazionale dal titolo: “Il Centro e il suo estremismo: dalla crisi delle ‘classi medie’ all’ascesa dell’autoritarismo”, tenutosi a Madrid nell’ottobre del 2023. Siamo quindi in Spagna, culla del “fascismo lungo” e Paese in cui Carl Schmitt presentò negli anni Sessanta la sua “Teoria del partigiano”, matrice filosofica delle strategie contro-rivoluzionarie. Non solo: Bologna ricorda in una nota che fu proprio a Madrid che l’Italia dichiarò guerra alla Germania con un documento consegnato all’ambasciatore tedesco in Spagna. Sembrerebbe il posto giusto per ri-ri-gridare al fascismo alle porte, ma Bologna prende un’altra strada, meno battuta ma non più rassicurante.
Bologna comincia spiegando che con “Centro” gli organizzatori del convegno traducono il tedesco “Mitte”, termine usato da un gruppo di lavoro dell’Università di Lipsia1 guidato da Elmar Brahler e Oliver Decker per denominare le proprie ricerche biennali sulla diffusione della mentalità autoritaria e di estrema destra nella popolazione tedesca. Questi “Mitte-Studie” sono stati ribattezzati “Autoritarismus-Studie” a partire dal 2018. Possiamo quindi dire che il titolo del convegno spagnolo riprende dalle ricerche tedesche non solo il termine, ma l’idea stessa di un rapporto tra “Centro” ed “estremismo”. Non è un’idea nuova: gli studiosi di Lipsia si muovono infatti nel solco del filone empirico della Scuola di Francoforte, cioè gli studi su autorità e famiglia, degli anni Trenta, e soprattutto l’opera del 1950 “La personalità autoritaria”, curata da T.W. Adorno e alcuni psicologi europei e statunitensi. L’obiettivo di quest’ultima opera era proprio quello di studiare il rapporto tra fascismo, anti-semitismo e strutture profonde della personalità a partire da un campione di 2.099 persone ritenuto rappresentativo dell’americano medio (“non Jewish, white, native born, middle-class Americans” scrivevano gli autori). Non si trattava quindi di uno studio sull’ideologia di militanti, quindi, ma un’analisi volta a individuare nella middle-class americana i profili “potenzialmente fascisti”, cioè più esposti alla propaganda fascista o antisemita. Va notato che questa faccia empirica della Scuola di Francoforte in Italia è arrivato tardi e poco: Bologna ricorda la ricezione sfaccettata, anche su Quaderni Piacentini, delle traduzioni di Renato Solmi di Minima Moralia (1954) e Dialettica dell’Illuminismo (1966), ma La personalità autoritaria viene tradotto solo nel 1973 e pubblicato non a caso da Edizioni di Comunità (il “laboratorio Olivetti” fu l’autentica avanguardia italiana in ambito di scienze psicologiche e sociali).
Rispetto alle cornici teoriche evocate dal titolo del convegno, Bologna denuncia subito una distanza di metodo: il suo contributo è di carattere storico-comparativo (caso italiano e caso tedesco), non quantitativo né psico-sociale. In realtà, leggendo si capisce anche che il discorso di Bologna è una problematizzazione degli assunti indicati nel titolo del convegno.
Cominciamo dalla storia politica dell’Italia del Dopoguerra, per Bologna caratterizzata dal congedo auto-assolutorio dalla guerra e dal fascismo: la Resistenza fu giocata abilmente non solo per far sedere l’Italia al tavolo dei vincitori, ma anche come un grande “abbiamo già dato” rispetto a qualsiasi idea di resa dei conti con il proprio passato. In Germania, sconfitta sul campo da eserciti stranieri, questo non successe e anche per questa “indifendibilità” proprio la Germania divenne per gli Italiani il grande capro espiatorio a cui addossare ogni male. In un’Italia segnata soprattutto da una gran voglia di scordarsi il recente passato accadde così qualcosa di impossibile in Germania: il MSI, continuatore fin nel nome della RSI, si presentò alle elezioni politiche del 1948. Per farla breve, la linea di Bologna quanto all’estremismo di destra in Italia è che, se c’è, non è una novità: il fascismo è sempre stato una realtà dell’Italia repubblicana, la novità relativa è che questa realtà è oggi diventata centrale soprattutto grazie allo sdoganamento effettuato dai populismi (Forza Italia e Lega Nord), per Bologna vero tratto emblematico e distintivo della storia italiana recente (“è interessante notare che i primi due grandi partiti della Seconda Repubblica nascono e si sviluppano a Milano e in Lombardia, cioè nella parte più ricca del Paese e quella con la maggior tendenza alla terziarizzazione e alla finanziarizzazione”, p. 51). Ma il “Sessantotto rovesciato” della Lega (cit. P.P. Poggio) è stato reso possibile anche da una memoria pubblica estremamente parziale, retta sull’identificazione “anni Sessantotto”-“anni di piombo”. Sull’oblio dell’unica vasta fase progressiva “dal basso” dell’Italia repubblicana Bologna usa le parole di chi non ha smesso di scandalizzarsi. Un terzo fattore è individuato nel venir meno dei presidi politici e sindacali della sinistra, su cui torneremo tra poco.
Questi giudizi conducono a una problematizzazione dell’effettivo estremismo dell’attuale destra al potere: Bologna sottolinea la continuità RSI-MSI-Fratelli d’Italia, ma ne relativizza l’effettiva presa sociale (solo il 16% degli elettori ha votato Fratelli d’Italia) e soprattutto ricorda con la continuità con le forze di centro-destra che hanno spesso governato dal 1994 in avanti. Come vedremo, le note conclusive evidenziano un’altra lettura dei rischi attuali. In ogni caso, la parte (per chi scrive) più coinvolgente dello scritto di Bologna non è questa, più strettamente politica e a volte un po’ appesantita da una cronaca circostanziata delle peripezie spesso dimenticabili della Seconda Repubblica.
Il vero punto del libro è un altro e consiste in un’altra brevissima storia dell’Italia contemporanea, stavolta socio-economica e centrata su ascesa e declino dei ceti medi. Si tratta di cenni di taglio sociologico o economico spesso molto rapidi ma sempre incisivi, in parte legati alla stagione militante dell’autore ma soprattutto esito della sua “seconda vita” scientifica, quella del Bologna esperto di logistica e studioso del lavoro autonomo. Segnalo i punti più importanti.
Bologna ricorda anzitutto una cosa fondamentale, cioè che il boom italiano degli anni Sessanta si è basato sull’impianto finanziario e industriale fondato negli anni Trenta da Beneduce e Menichella. Questa nota è anche una critica alla lettura gramsciana di un fascismo quale sintomo e insieme vincolo di un Paese economicamente arretrato, strada anti-moderna sostenuta dalla piccola borghesia (eccoli qua i ceti medi, in ottica marxista una massa residuale rispetto alla matrice borghesia-proletariato). Resterà questa per decenni la tesi del PCI sull’Italia e in particolare sull’Italia industriale: un Paese arretrato da modernizzare.
Questa posizione è compatibile con il Saggio sulle classi sociali di Paolo Sylos Labini, opera centrale, con i lavori di Bagnasco degli anni Ottanta, della carrellata di Bologna. Anche se l’impianto analitico dell’opera di Sylos Labini non è più basato sulle classi marxiane ma sulle stratificazioni di stampo sociologico, questo libro del 1974 continua però a vedere l’Italia come un Paese arretrato, stretto tra conflitti distruttivi e ceti medi (rieccoli, ma ora come soggetto-chiave maggioritario) esposti alle sirene autoritarie. Riecco anche lo spettro del fascismo, che però, nota criticamente Bologna, si rivela davvero tale: erano in corso smottamenti politici ed economici che quella lettura della realtà, giudicata globalmente conservatrice, non riusciva a percepire. La glossa che il lettore è indotto ad aggiungere è: non è che sta capitando lo stesso oggi? Di fatto, allora la minaccia fascista passò presto in secondo piano ed emerge un nuovo ordine. In particolare, Bologna sottolinea che il conflitto venne a poco a poco disinnescato anche ricorrendo a una “arma di pacificazione di massa” potentissima, la CIG – Cassa Integrazione Guadagni. In pochi anni si installa un altro equilibrio, simboleggiato dalla marcia dei 40.000 ma più ancora dalla pax distrettualista, che nel 1980 era già stata siglata nei territori (il punto è espresso in maniera più compiuta da Bologna nel suo contributo all’Annale Feltrinelli 2016-2017 curato da Franco Amatori: “L’approdo mancato. Economia, politica e società in Italia dopo il miracolo economico”).
L’Italia, come retrospettivamente evidente, comincia allora a dire addio alle grandi imprese statali (presto capiterà lo stesso con le grandi imprese private, salvo poche eccezioni). Rimane però un Paese a forte presenza manifatturiera soprattutto grazie alla piccola e media impresa organizzata su scala territoriale, diffusasi negli anni Settanta in Toscana, Emilia, Veneto e Friuli (nota: il fatto che questa formula sia stata buona per l’Italia rossa come per quella bianchissima costringe a modulare certi giudizi sul rapporto effettivo leghismo-distretti e dice molto sul nostro Paese, che con questa base economica localistica vede accentuato il proprio carattere storico di mosaico territoriale).
Oltre che anti-gramsciano (come viene ricordato, lo erano l’operaismo e larga parte della sinistra oltre-PCI), Bologna si ribadisce anche allergico all’apologia dei distretti e dei territori: “chi aveva creduto all’ideologia distrettualista e nei distretti come modello di capitalismo democratico doveva subire però atroci delusioni” (p. 36). La tesi di Bologna è che in Italia il conflitto degli anni Sessanta-Settanta sia stato sostanzialmente eluso, trovando nei territori dei motori economici pacificati sostenuti “dall’esterno” da enti locali e politica. Forze e limiti dell’Italia industriale odierna sono fissati da questa sorta di esternalizzazione interna e dalla parallela scomparsa di una politica industriale nazionale.
C’è però ancora una storia da raccontare, quella che più caratterizza l’autore del libro e il libro stesso: nell’Italia del declino industriale e dei ceti medi in crisi c’è una tipologia di lavoro in costante crescita, il “lavoro autonomo di seconda generazione” (la formula è di un Bologna d’annata, correva l’anno 1987). Si parla dei professionisti freelance, non incardinati in ordini e relative casse previdenziali. Non si tratta di avvocati o commercialisti ma nemmeno degli operatori di call center o dei rider, che avendo un impiego più simile al lavoro tradizionale sono anche più mediatizzati e commiserati. Qui si parla di quelli che traducono i sottotitoli dei film, dei progettisti, dei ricercatori indipendenti etc. etc. Questa galassia letteralmente sconosciuta ai più si caratterizza per essere stata non capita, ma a lungo nemmeno osservata, dalla sinistra politica e sindacale, con il paradosso di una CGIL con molti dipendenti tesserati che votano Lega ma incapace di istituire almeno un dialogo con persone che spesso votano o voterebbero a sinistra, ma devono ringraziare Salvini per averli fatti respirare un po’. Ecco, questo ammesso non siano nel frattempo emigrati con universitari precari, camerieri e gelatai: come Bologna giustamente sottolinea, un pezzo consistente d’Italia non trova di che vivere nell’Italia del XXI secolo.
Queste forme di lavoro e la loro scarsa visibilità sociale portano Bologna a toccare il tema battutissimo dell’impoverimento dei ceti medi da un altro punto di vista: l’opposizione-chiave non è più sopra/sotto (con i ceti medi, maggioritari, nel mezzo), ma è tra chi è dentro e chi è fuori, con ampie parti dei vecchi ceti medi ormai “out” e operai dipendenti full-time “in”, anche se magari di poco. In altre parole, gran parte dei freelance avrebbero tutto per essere quello che era il ceto medio (a partire dall’istruzione) ma sono invece spesso para-proletari che invece della prole hanno il PC, loro condizione di possibilità sociale. Qui Bologna fa le uniche incursioni in campo psico-sociale provando a delineare la mentalità di questi freelance: la disponibilità all’auto-sfruttamento solitario, osservata in anni di studio e sostegno alle poche forme di auto-organizzazione, viene intesa come introiezione dei dettami dell’individualismo neoliberista, un retroterra ideologico che è entrato in circolo vizioso con l’indifferenza di sindacati burocratizzati e partiti di sinistra presi da altre priorità, finendo con il lasciare un settore globalmente in crescita e comunque quantitativamente cospicuo senza tutele decenti.
Date queste premesse, la conclusione non può essere allegra. Non lo è, è piuttosto nera ma, come dicevamo, non in senso tradizionalmente politico. I segnali più negativi infatti non sono individuati da Bologna nel quadro elettorale, ma in quello culturale: “c’è qualcosa di più preoccupante del potere di Giorgia Meloni (che comunque è una persona di buon senso e come professionista della politica certamente molto dotata) ed è lo scivolamento di una popolazione verso forme di inciviltà (Entzivilisierung)” (p. 91). Partiti dalla Scuola di Francoforte siamo arrivati a Norbert Elias e al processo di civilizzazione, concetto anch’esso formulato negli anni Trenta ma che troviamo qui invertito, per l’appunto, come “decivilizzazione”: violenza, frodi, abusivismo, “anti-civismo” (ma potremmo aggiungere la schiavitù nelle campagne di Latina e tanti altri posti, a cui Bologna dedica le ultime pagine del libro), passati in rassegna da Alberto Baldissera, Adele Bianco e Renzo Carriero in: “Moving away from civilization: the case of Italy. An overview and presentation”2.
In conclusione, Bologna tratta il rapporto tra ceti medi e estremismo di destra ma in realtà mette in dubbio entrambi i termini della questione. C’è dell’altro, c’è del nuovo e forse c’è di peggio, si tratta di guardare in faccia la realtà materiale e mettersi anche di traverso, cosa che la sinistra ha smesso di fare da troppo.
1 Cfr. https://www.uni-leipzig.de/newsdetail/artikel/neue-mitte-studie-der-universitaet-leipzig-gesellschaft-ist-zunehmend-polarisiert-bereitschaft-zu [consultato il 4 gennaio 2025].
2 Cfr. https://doi.org/10.4000/qds.4961 [consultato il 4 gennaio 2025].