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Su “Rame quotidiano” di Giulia Malavasi

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Recensione di Giulia Malavasi, Rame quotidiano. La Società Metallurgica Italiana di Fornaci di Barga, Milano-Brescia, Jaca Book-Fondazione Micheletti, 2024.

Il libro di Giulia Malavasi è un’opera di storia territoriale partecipata: l’oggetto è una fabbrica ma non si tratta di una storia d’impresa perché la prospettiva è centrata sul rapporto tra una grande azienda, il suo contesto territoriale e la relativa comunità. L’esito è un’opera corposa ma “leggibile” in cui una storia industriale, raccontata a partire da un grande impianto con lavorazioni di importanza cruciale per il Paese, si intreccia con le fonti di archivio e soprattutto con le voci di ex lavoratori, familiari e cittadini. la ricerca è stata infatti condotta nell’ambito del progetto europeo Citizen Science for Urban Environment and Health (CitieS-Health), adottando l’impostazione degli studi “citizen science”: i cittadini sono coinvolti in tutte le fasi della ricerca, dalla definizione degli obiettivi alla raccolta dei dati fino alla loro interpretazione. Effettivamente, il libro di Malavasi è un libro corale, ma prendiamola alla larga.

Secondo Braudel, il rame tra il XV e XVIII secolo era forse più importante del ferro: serviva per le monete, per gli scafi delle navi, per i pezzi di bronzi delle artiglierie, i Fugger sono stati “re del rame” e sulla borsa di Amsterdam si poteva giocare sul rame a occhi chiusi. Rame, guerra, navi e soldi, i termini tornano anche nella lunga storia raccontata da Malavasi, a partire dalle vicende del fondatore, Luigi Orlando. Suo padre fu un mazziniano palermitano proprietario con i fratelli di un’azienda meccanica che dovette essere venduta a causa della repressione borbonica. Trasferitisi a Genova, città di Mazzini, ripresero l’attività, cioè continuarono a sostenere i patrioti risorgimentali ma ottennero anche dall’armatore Rubattino la commessa per la riparazione dei piroscafi, per poi aprire una propria società di navigazione. Nel 1859 il padre del fondatore è chiamato da Cavour a dirigere lo stabilimento Ansaldo, nel 1860 un fratello partecipa alla spedizione dei Mille, insomma continua la vita familiare all’insegna dell’impegno politico e del successo imprenditoriale, su livelli sempre più alti e grazie a una rete di contatti sempre più significativa. Genova sicuramente aiutò: questa città fu l’altro epicentro, oltre ovviamente a Torino, del processo di unificazione italiana – laboratorio politico, certo, ma soprattutto polo industriale (e finanziario: secondo Giovanni Arrighi, le immense fortune accumulate dai nobili di questa città tra ‘500 e ‘600, quando i Genovesi furono i Fugger dei re di Spagna, furono anche alla base delle costose imprese dei Savoia). Gli Orlando come abbiamo visto sono dei capacissimi e patriottici parvenu, ma la loro ascesa avviene in simbiosi con l’affermarsi dei grandi nomi dell’industria genovese e poi nazionale, a partire da Attilio Odero: con il proprietario dei cantieri San Giorgio di Sestri Ponente gli Orlando, dopo aver costruito i nuovi grandi cantieri di Livorno, strinsero un’alleanza che comprendeva anche la Terni, principale polo siderurgico del Paese. Siamo nell’ultimo quarto del XIX secolo, si sta facendo la prima Italia industriale, resa possibile da una forte protezione dello Stato, e gli Orlando ne sono uno dei nomi più grandi: nella cantieristica e nel siderurgico, come abbiamo visto, ma di lì a poco anche nell’elettrico (impianti idroelettrici) e nel metallurgico.

Nel 1902 Luigi Orlando assume la direzione della Società Metallurgica Italiana, attiva soprattutto nella produzione di rame e leghe di rame. Perché il rame è tanto importante? Rispetto agli usi elencati da Braudel, la lista del XXI secolo è ancora più impressionante: anzitutto fili elettrici per il secolo dell’elettricità, ma anche cavi telefonici, lamiere e, non certo da ultimo, munizioni.

Non è quindi un caso se la SMI comincia a costruire un suo grande stabilimento a Fornaci di Barga nell’agosto del 1915: l’Italia è appena entrata in guerra e la SMI ha una commessa statale per la fornitura di armi, bisogna muoversi.

Ma perché proprio qui, in provincia di Lucca, nella non centralissima val di Serchio? Beh, non eravamo fuori dal mondo: il luogo aveva una tradizione metallurgica fin dal nome (“Fornaci”), ma soprattutto c’era la ferrovia, era arrivato il telegrafo e poi gli Orlando avevano aperto lo stabilimento di Campo Tizzoro, nel vicino pistoiese, con buoni risultati. Ma ci sono anche ragioni ambientali, le prime del libro: lì c’era tanta acqua per produrre elettricità ma anche per il raffreddamento e i lavaggi (l’acqua del posto ha poco residuo e va benissimo), lì c’erano boschi utili per alcune fusioni, il posto è in un pianoro protetto dalle montagne (e quindi da possibili bombardamenti). Queste cose ce le dice Malavasi ma ce le dicono anche le persone intervistate, che a questo punto del libro (siamo a p. 80) sono già entrate in scena. Ne occuperanno sempre di più il centro nel resto dell’opera, facendo da contrappunto al filo narrativo dell’autrice.

La Prima guerra mondiale è una sorta di battesimo del fuoco per il neonato stabilimento, riconosciuto come fabbrica ausiliaria e quindi retto con disciplina militare: per i 4.300 dipendenti (in maggioranza maschi, ma anche molte femmine e parecchi minori) i turni di lavoro erano durissimi, la gerarchia rigidissima, le resistenze impossibili (anche per la scarsa predisposizione della manodopera, molto lontana da un qualsiasi forma di “coscienza operaia”). Molti partivano dai paesi vicini sperando che quel giorno ci fosse bisogno di loro, le fotografie del resto restituiscono l’immagine di gigantesche architetture industriali, un po’ di case intorno e le montagne sullo sfondo. Come dice B. C. (ex operaio SMI): “Fornaci è nata con la SMI, poi la SMI ha fatto le case operaie, ha fatto i casermoni che erano quelli lungo il viale […] Gli Orlando hanno creato Fornaci di Barga” (p. 130).

Non solo la fabbrica, in effetti: gli Orlando accoppiarono la gerarchia dentro con il paternalismo fuori: la gestione rigida del ciclo produttivo, militare in tempo di guerra ma quasi-militare nei due dopoguerra, fu cioè accompagnata da una serie di opere e servizi (per esempio le scuole professionali SMI) che fecero della SMI di Fornaci di Barga una fabbrica-paese.

Su questo sfondo, il “biennio rosso” (1919-1920) ebbe a Fornaci un’eco significativa: “sulle ciminiere che spuntavano dallo stabilimento […] sventolavano delle bandiere rosse” (p. 150). Ci restarono per 24 giorni, ma presto l’aria cambiò.

L’arrivo del fascismo significò subito un forte investimento negli armamenti e la SMI, che subito dopo la fine della guerra aveva dovuto licenziare migliaia di operai, già a fine 1924 era arrivata a 5.591 dipendenti. Si aprì un periodo d’oro per la SMI, che superò persino la crisi del ‘29 senza essere assorbita dall’IRI (sorte che invece toccò ai cantieri Orlando di Livorno). Mussolini nel 1930 fa addirittura visita alla fabbrica, ma la vicenda va ascoltata dalle parole di Vittorio Biondi (storico locale): Mussolini entra in fabbrica, il fascio locale vorrebbe comandare, ma “entra Mussolini dentro, riesce con una borsa nera piena di soldi e dice ‘qui è tutto a posto, fuori dalle scatole, rimangono le cose come stanno’. Questi rimangono spiazzati e il fascio non entrerà mai dentro in fabbrica” (p. 171). La SMI resta privata, quindi, ma in osmosi con lo Stato grazie soprattutto al warfare.

La storia procede tra alti e alti a parte il basso fisiologico alla fine della Seconda guerra mondiale, quando la produzione calò, ci furono scioperi, licenziamenti mirati (contro sindacalisti e operai politicizzati) e una nuova occupazione della fabbrica. Ma negli anni Cinquanta la SMI rilancia: restano la produzione di fili e componenti di bossoli, ma vengono fatti forti investimenti per potenziare il settore dei laminati (lastre e dischi di rame, ottone, alpacca). Dice B. C., un ex-operaio assunto nel 1956: “La SMI lavorava rame e derivati, quindi rame e ottone in modo particolare, perciò aveva il laminato, facevano tubi, fili, bossoli da cannone, cartucce, facevano rubinetteria, viteria, raccordi, erano in grandi di fare tutto” (p. 268).

Questo sguardo dal di dentro della fabbrica diventa sempre più sistematico, si susseguono pagine in cui diversi operai raccontano le loro condizioni di vita, la disciplina e le discriminazioni, denunciate anche in un opuscolo della FIOM del 1957. In questa prospettiva diventa sempre più marcata l’attenzione per gli infortuni e la salute dei lavoratori. Se l’inquadramento a livello di storia industriale nazionale e regionale è assicurato soprattutto dalle opere di Giorgio Mori, la storia della salute dei lavoratori è ricostruita soprattutto grazie ai lavori di Franco Carnevale, con significativi rimandi al “Dossier 1970” curato Marino Ruzzenenti per il numero 43 di AltroNovecento. Questa è la cornice, ma come abbiamo detto quello che caratterizza il libro è la coralità del quadro.

Come visto in più occasioni, la storia della SMI non è una storia locale, è una storia nazionale che ha luogo fuori mano: spesso non c’è alcuna discontinuità temporale tra le date della storia italiana e quelle della storia SMI di Fornaci. Prendiamo il 1973: la crisi del ‘73 significa immediatamente un calo delle commesse per la maggior industria non ferrosa italiana del tempo, nel 1974 raddoppiano le giacenze. Non siamo in una nicchia periferica quindi, siamo nella prima linea industriale, con una controparte operaia (ecco una parte del coro) nel frattempo cresciuta di consapevolezza e combattività, allineandosi all’alto livello di conflitto diffuso su scala nazionale. Nel 1976 la SMI entra in una società più grande, sempre controllata dagli Orlando, la LMI (La Metalli Industriale): inizia la lunga e dura “vertenza LMI”, che significa in val di Serchio scioperi per la difesa dei posti di lavoro ma soprattutto per un confronto sulle strategie di investimento. Trattandosi di un’azienda quasi monopolista nazionale nella produzione di rame, la richiesta di un confronto sulle strategie di investimento significava “esercitare un controllo democratico sul tipo di sviluppo” (p. 361), avendo come esempio il Cile di Allende, dove il governo di Unità Popolare aveva puntato a controllare e pubblicizzare l’estrazione del rame.

Sappiamo come va a finire questa stagione di conflitto in Italia, la data-simbolo è la marcia dei quarantamila a Torino del 1980. Anche qui, puntualmente, proprio nel 1980 38 operai della LMI di Fornaci di Barga vennero condannati per violenza privata legata ai picchetti davanti all’azienda, contro i quali la LMI aveva chiesto l’intervento della forza pubblica. Il Consiglio Comunale di Barga si schierò contro “l’atteggiamento antidemocratico e antisindacale tenuto costantemente dall’Azienda durante i rinnovi contrattuali” del ‘76-’77 (p. 373). Nel 1982 le condanne saranno confermate in Appello con pene dai quindici ai venti giorni di reclusione.

La conflittualità operaia, individuata retrospettivamente come grande male nazionale e quindi sostanzialmente azzerata (con i risultati oggi visibili), si era manifestata anche come difesa della salute in fabbrica. Da pagine 375 comincia una sorta di “libro nel libro”, da molti punti di vista la parte più caratteristica dell’opera di Malavasi. Fino a questo punto, infatti, la dimensione scientifico-tecnologica aveva ricevuto poco spazio, l’inquadramento storico-industriale aveva dialogato con documenti e memorie di ex-lavoratori e cittadini, ma restando quasi sempre fuori dalla materialità del ciclo produttivo. Eppure, quello che ci era stato promesso era un libro di “citizen science”. Ebbene, eccola qua la scienza saputa, o vissuta e appresa, da esperti, operai e cittadini, sotto forma di studio critico dei processi produttivi (quindi soprattutto chimica e ingegneria), ma anche sotto forma di impatto sulla salute di operai e comunità (medicina ed epidemiologia), il tutto in un contesto in cui rimaneva fortissimo il legame con gli Orlando, padroni ma anche padri. Emergono quindi fatti e dati (infortuni, malattie) che erano reali da decenni, ma indicibili o invisibili. Questa disponibilità alla lotta per la salute ha tempi e sviluppi diversi rispetto alla conflittualità “contrattuale”: negli anni ‘80 e ‘90 l’attenzione per la salute contagia il “fuori”, nascono comitati, le emissioni nocive diventano oggetto di attenzione da parte delle istituzioni sanitarie, la “fabbrica-paese” diventa parte di una questione ambientale, che coinvolgerà soprattutto la vicina Alce di Fornoli (produzione di tannino). Qui le pagine sono quasi totalmente riempite dalle voci dei protagonisti, alternando ricostruzione a memoria dei processi produttivi con racconti delle vertenze ambientali. Finisce così il libro, come una storia industriale che diventa storia civile.

L’esemplare libro corale di Giulia Malavasi è stato presentato il 18 ottobre presso il Museo del Ferro di San Bartolomeo, una delle sedi del MUSIL – Museo dell’Industria e del Lavoro di Brescia, la cui Sede Centrale, non realizzata, è prevista presso la Metallurgica Bresciana (ex-Tempini), acquistata nel 1935 proprio dalla SMI. Se consideriamo che il MUSIL nasce da un progetto della Fondazione Micheletti, co-editrice del libro, il Museo del Ferro ha ospitato l’evento in forza di una variegata affinità, metallica ed istituzionale. Il pubblico ha potuto conoscere l’autrice e ascoltarla in tutta la sua appassionata immersione in una storia davvero importante, davvero collettiva.

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