Questo numero della rivista era già pronto quando è arrivata la notizia della morte di Giorgio Nebbia. “Altronovecento” è nata su suo impulso, la fisionomia volutamente eclettica, con prevalente ma non esclusiva vocazione divulgativa, deriva dalle sue scelte e convincimenti, impostazione e lavoro. Così il mescolare l’alto e il basso, la scienza con le tecniche, la critica con la curiosità per qualsivoglia scoperta, racconto, vicenda riguardanti l’uomo e l’ambiente, ogni forma di vita, tutto ciò che agita il piccolo pianeta, la navicella spaziale, per usare un’immagine a cui era affezionato, proiettata verso l’ignoto. Pur con tutti i limiti tenteremo di continuare l’intrapresa voluta da Giorgio, anche se, senza la sua energia e la rete di contatti che animava, non sarà facile.
La scelta di fondo, centrata sull’indagine in chiave storica della questione ambientale, esito maggiore e ad ora non padroneggiabile dell’industrializzazione, è ribadita attraverso il nucleo più consistente di contributi, che si soffermano sulle varie coniugazioni e ricadute del concetto di ecologia, anche quando tale termine non viene usato, e però sono evidenti le connessioni sia con le matrici teoriche della riflessione e conoscenza della natura sia con i risvolti politici, delle condizioni di lavoro, di costruzione degli spazi urbani e delle forme di agricoltura.
Non manca chi ritiene il dibattito intellettuale e le scelte pratiche originate dalla questione ambientale o ecologica un episodio del passato – e non penso alle patetiche liquidazioni in nome delle magnifiche sorti progressive –, un’occasione perduta per sempre. Richiamo queste posizioni perché Giorgio Nebbia conveniva sul fatto che tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso c’era stata una “primavera dell’ecologia” e che per un breve giro d’anni fu possibile tradurre gli esiti e gli avvertimenti della ricerca non asservita in azione politica e, ancor prima culturale, realizzando, come auspicato da Alex Langer, una conversione ecologica della società. Nulla di tutto ciò avvenne, semmai l’opposto, e però Giorgio era lontano dal pessimismo radicale di un Guido Ceronetti, per citare un intellettuale, e molto altro, che, tra i pochi in Italia, aveva capito la portata di un passaggio d’epoca. La tesi di Ceronetti è precisamente che la svolta risalga agli anni ’70, la breccia che si era aperta viene rapidamente richiusa, e la possibilità perduta; lo fa con un richiamo a Cornelius Castoriadis, teorico della politica mai entrato nell’italico pantheon degli intellettuali di riferimento, interprete tra i più acuti del Sessantotto. Scrive Ceronetti: “Oggi, come Alce Nero dalla collina solitaria, posso vederlo chiaramente, senza vani progetti di frustrazione, quello che fu il decennio delle Termopili ecologiche, ed è bello esserci stati e aver perso. Capìto no, non ancora. Quando scrisse nel 1995 che la questione ecologica era la prima, la più profonda e importante che l’umanità contemporanea aveva davanti a sé, Cornelius Castoriadis, uno dei grandi pensatori del secolo, aveva già l’orologio in ritardo: venti anni prima una svolta (però enorme, di tipo messianico) era ancora possibile. Con questo piatto razionalismo tecnologico verde come bagaglio siamo soltanto ad una stazione dove non passano più treni” (“La Repubblica”, 26.02.2007, poi in “Carte vive”, dicembre 2017, p. 107).
La visione di Ceronetti è espressione della riattivazione del filone apocalittico di fronte all’illimitatezza della Tecnologia. Un nodo cruciale ci pare essere la potenzialità distruttiva dell’uomo rispetto alla natura, ovvero rovesciando di segno e di valore lo stesso fenomeno, la capacità dell’uomo di costruire un ambiente puramente artificiale, tecnologico. In entrambi i casi: distruzione pura e semplice oppure artificialismo totale, si pecca di antropocentrismo acritico, facendo dell’uomo, secondo tradizione, la misura di tutte le cose, Tanto per il singolo individuo che per le collettività vale l’invito a tornare a Leopardi per mantenere o riconquistare un minimo di sobrietà.
In grande maggioranza sia i pensatori che le persone comuni, per non dire politici e giornalisti, sono in estasi di fronte alla Tecnologia, di cui parlano molto, anzi al netto di ciò che è pura routine, le innovazioni tecnologiche nei più diversi ambiti sono l’argomento principale, il contenuto esplicito o sotteso di ogni scambio – sicuramente nell’universo maschile –, con netta prevalenza di giudizi entusiastici. Esattamente l’opposto vale per l’Ecologia, con forte prevalenza di giudizi liquidatori – specie nella fascia adulta maschile, la base elettorale di Trump e assimilabili. Il concetto base è che le ragioni dell’industria non possono che prevalere su utopie vaghe o irrealizzabili. Perché abbandonare la vecchia strada che sancisce i rapporti di forza tra gli Stati e nelle varie forme di vita sociale – a partire dalla famiglia – per un cambiamento rischioso e destabilizzante? Ci sono problemi veri, non quelli inventati dagli ambientalisti, la Tecnologia li risolverà.
La Tecnologia è l’alfa e l’omega, l’unica vera religione degli uomini contemporanei, decide del bene e del male, della vita e della morte. Il pensiero critico novecentesco si è ripetutamente confrontato con tali argomentazioni e atti di fede. Uno dei percorsi più rigorosi e senza speranze è quello tracciato da Günther Anders, sollecitato da manifestazioni distruttive estreme come la bomba atomica e i campi di sterminio. La visione di Anders sfocia nella radicale asimmetria uomo – macchina e inadeguatezza antropologica della specie umana. Il giudizio di valore è ribaltato ma l’assolutezza della Tecnologia, in forme disumane, permane.
È necessario esplorare altre strade. Alcune molto concrete e di grande fascino intellettuale le suggerisce Luciano Gallino in un libro del 2007 da leggere o rileggere, Tecnologia e democrazia. Conoscenze tecniche e scientifiche come beni comuni (Einuadi). Il tema più interessante che esplora è quello del Nichtwissen, vale a dire del non sapere nel cuore stesso dell’ambiente tecnico-scientifico:
Le analisi e l’approccio di Gallino ci riportano coi piedi per terra, sia dal lato delle tecnica che dell’uomo. Quanto alle donne è innegabile che sono riuscite a incrinare il modello maschile, il loro apporto potrà essere risolutore ma è una transizione enorme in tempi brevi, ferocemente contrastata. Il conflitto senza mediazione tra Ecologia e Tecnologia (a cui si può assimilare l’Economia) è tra limite e illimitato. Nel caso del singolo individuo il limite è inaggirabile, per superarlo o fronteggiarlo sono state create le religioni, un’altra dimensione del reale. Nel tempo storico, qui e ora, egli oscilla tra limite (Ecologia) e illimitato (Tecnologia),
Avendo evocato l’antropocentrismo è opportuno un cenno al tema, ultimamente sotto i riflettori, dell’Antropocene, anche avendo presenti alcuni scambi di opinioni con Giorgio Nebbia. Nel 2000 il chimico olandese Paul Crutzen e il biologo statunitense Eugene Stormer hanno resa popolare la proposta di introdurre una nuova era geologica, l’Antropocene appunto, caratterizzata dalla rapida modificazione di ogni aspetto dell’ambiente planetario, dal suolo al clima, alla distruzione e trasformazione delle forme viventi, con spinte in direzione extraterrestre. È la descrizione sintetica di un dato di fatto, anche se la periodizzazione – la data d’inizio – resta controversa. Ma se l’attività umana, con tutte le specificazioni necessarie, a partire dalla generalizzazione dell’economia capitalistica, ha creato la Tecnologia, inaugurando una nuova era geologica, come opporsi ad un tale salto di scala nel tempo storico oltre che in quello personale? E, ancor prima, perché opporsi? Contro una nuova era geologica ?!
Al G20 di Osaka il 28-29 giugno scorso, il presidente del più potente e tecnologicamente avanzato Stato del mondo, seppure isolato nel suo oltranzismo, ha respinto ogni accordo sul clima, rivendicando la leadership mondiale degli Stati e popoli che di fare una qualsiasi autocritica sulla ben collaudata via dello sviluppo, costi e guadagni inclusi, non ci pensano nemmeno. Siamo quindi in presenza di una radicalizzazione delle posizioni, forse anche ad una chiarificazione dei termini essenziali, rispetto a cui l’Europa può svolgere un ruolo, nonostante lo stato confusionale in cui versa, la crisi di identità culturale e politica che la sta scuotendo. Situare l’Europa nel mondo e l’uomo di fronte a ciò che ha costruito: la tecnica, sono i due punti nodali su cui ha offerto contributi illuminanti Romano Guardini (1885-1968) principale ispiratore della Laudato si’ di papa Francesco.
L’Europa, abbandonato l’eurocentrismo, ha un senso, una missione si sarebbe detto: prefigurare l’avvenuta unificazione del mondo, il compimento dell’Oikouméne, in cui ogni popolo e ogni cultura possono coesistere e cooperare, piuttosto che distruggersi reciprocamente. “Prima – senza essere sfiorata dal minimo dubbio – l’Europa considerava la propria cultura come misura in base alla quale valutare e criticare tutte le altre. Ora essa è già arrivata ad accettare critiche formulate dall’Asia e dall’America, poiché sente che sono giustificate. Il tempo del puro europeismo è passato. In tutti i campi, sia in quello artistico che in quello sociale e religioso, proviamo una singolare incertezza. La sicura compiacenza di sé dell’uomo europeo è scossa. Si è destata per contro la coscienza di sé dell’orientale. La coscienza e l’opera di ogni singolo popolo sono esaminate e giudicate alla luce di una critica fondata sulla coscienza del mondo intero”.
Non meno puntuali e strettamente collegate sono le riflessioni di Guardini sul rapporto uomo-tecnica, in cui da filosofo e teologo anticipa in qualche modo i temi analizzati da Gallino, a partire dai percorsi della Tecnologia: “Queste vie corrono nell’oscurità, questo lavorio avviene nell’incoscienza; spesso va avanti senza una regola apparente, va ‘come vuole’. Cosa accadrà quando prenderemo bruscamente coscienza delle formule razionali, quando ci troveremo davanti al prevalere degli imperativi della tecnica? La vita, ormai, è inquadrata in un sistema di macchine. Essa si difende, aspira all’aria libera e cerca un rifugio al sicuro. Ma che giovamento trae da questa lotta? In un tale sistema la vita può rimanere vivente?”
“Procedendo per investigazioni razionali, la conoscenza moderna scopre le leggi e le formule degli avvenimenti: essa le converte in tecnica, in apparecchi, in metodi; e mentre l’uomo perde tutti i legami interiori che gli procuravano un senso organico della misura e delle forme di espressione in armonia con la natura, mentre nel suo essere interiore egli è divenuto senza contorni, senza misura, senza direzione, egli stabilisce arbitrariamente i suoi fini e costringe le forze della natura, da lui dominate, ad attuarli”. E ancora “ho l’impressione che il nostro patrimonio sia stato preso tra gli ingranaggi di una macchina mostruosa, capace di triturare tutto […] Tutto è costruito partendo dall’uomo e perciò tutto è assolutamente umano. E tutto trae origine da un’ unione con la natura e perciò è così profondamente naturale. Ma questo appunto è ciò che va perdendosi”.
Questi passi di Romano Guardini sono tratti da Lettere dal lago di Como. La tecnica e l’uomo nell’edizione pubblicata da Morcelliana nel 1993, al centro del contributo di Francesco Miano Il tempo come compito in “Agalma”, n. 37, aprile 2019, di cui riporto la conclusione: “Guardini aveva già intravisto le forme nuove che andava assumendo il compito del pensiero nel volgere vorticoso dei tempi: sostenere la responsabilità dell’uomo, nella concretezza del tempo, per non perdere completamente se stessi, per non consegnare totalmente l’umano al non-umano” (p. 100). I termini essenziali delle questioni, nel caos del presente, sono piuttosto chiari. Poter contare su punti fermi è un indispensabile aiuto; si possono trovare in tempi e contesti del tutto diversi, con lo stimolo dell’esempio di Giorgio Nebbia continueremo a cercarli.