Dal Glossario dei linguaggi tecnici e specialistici, in preparazione presso il «Museo dell’industria e del lavoro – Eugenio Battisti», a cura di Giancarlo Zinoni.
Tromba: «In generale corpo cavo cilindrico usato per movimentare dei fluidi. Pompa a stantuffo per il sollevamento dell’acqua; anche “sifone”», e Sifone: «Condotta a U rovesciata che convoglia un liquido da un serbatoio posto in alto a uno più basso passando per punti che sono a quota superiore del serbatoio più alto. Perché il travaso avvenga è necessario adescare il sifone, ossia riempirlo d’acqua. Una volta riempito, l’acqua passa spontaneamente dal serbatoio posto in alto a quello basso.» (Glossario)
La definizione è ovvia, persino banale, per il nostro sentire odierno, ma dentro e dietro la parola c’è un pezzo di storia del sapere per governare e dirigere il movimento delle acque; n’è prova che presso alcuni dialetti, come quello milanese, il trombè è l’idraulico.
Nella versione del sifone la “tromba” era già conosciuta dagli etruschi e largamente applicata dai romani, nei loro acquedotti, quando bisognava superare dislivelli di pochi metri, poiché le loro tubazioni in muratura o in piombo non permettevano grosse pressioni.
La pompa aspirante con stantuffo fu un grande passo avanti per il sollevamento e trasporto dei fluidi; ce la descrive Agricola nel De re metallica del 1556; ma c’era un problema che Galileo solleva nei «Discorsi e dimostrazioni matematiche» del 1638. Sagredo agli inizi della prima giornata introduce l’argomento e nel descrivere la pompa usa la parola tromba:
SAGR. Ed io mercé di questi discorsi ritrovo la causa di un effetto che lungo tempo m’ha tenuto la mente ingombrata di maraviglia e vota d’intelligenza. Osservai già una citerna, nella quale, per trarne l’acqua, fu fatta fare una tromba, da chi forse credeva, ma vanamente, di poterne cavar con minor fatica l’istessa o maggior quantità che con le secchie ordinarie; ed ha questa tromba il suo stantuffo e animella su alta, sì che l’acqua si fa salire per attrazzione, e non per impulso, come fanno le trombe che hanno l’ordigno da basso. Questa, sin che nella citerna vi è acqua sino ad una determinata altezza, la tira abbondantemente; ma quando l’acqua abbassa oltre a un determinato segno, la tromba non lavora più. Io credetti, la prima volta che osservai tale accidente, che l’ordigno fusse guasto; e trovato il maestro acciò lo raccomodasse, mi disse che non vi era altrimente difetto alcuno, fuor che nell’acqua, la quale, essendosi abbassata troppo, non pativa d’esser alzata a tanta altezza; e mi soggiunse, né con trombe, né con altra machina che sollevi l’acqua per attrazzione, esser possibile farla montare un capello più di diciotto braccia: e siano le trombe larghe o strette, questa è la misura dell’altezza limitatissima. Ed io sin hora sono stato così poco accorto, che, intendendo che una corda, una mazza di legno e una verga di ferro, si può tanto e tanto allungare che finalmente il suo proprio peso la strappi, tenendola attaccata in alto, non mi è sovvenuto che l’istesso, molto più agevolmente, accaderà di una corda o verga di ‘acqua. E che altro è quello che si attrae nella tromba, che un cilindro di acqua, il quale, havendo la sua attaccatura di sopra, allungato più e più, finalmente arriva a quel termine oltre al quale, tirato dal suo già fatto soverchio peso, non altrimente che se fusse una corda, si strappa?
Sagredo parla della pompa aspirante e si chiede perché non si riesca a sollevare l’acqua oltre le 18 braccia, circa dieci metri e mezzo. È da notare che l’osservazione del fenomeno non viene da esperimenti di laboratorio ma dall’esperienza degli operatori: il “maestro”, dalla tecnica applicata; anche in questo caso come in tutta l’opera di Galileo, risalta il legame tra il sapere empirico accumulato dell’artigiano in anni d’esperienze e la scienza, legame che la scolastica aristotelica negava. È sul filo di questa esperienza che Galileo abbozza una spiegazione.
SALV. Così puntualmente cammina il negozio; e perché la medesima altezza delle diciotto braccia è il prefisso termine dell’altezza alla quale qualsivoglia quantità d’acqua, siano cioè le trombe larghissime o strette o strettissime quanto un fil di paglia, può sostentarsi, tutta volta che noi peseremo l’acqua contenuta in diciotto braccia di cannone, sia largo o stretto, haremo il valore della resistenza del vacuo ne i cilindri di qualsivoglia materia solida, grossi quanto sono i concavi de i cannoni proposti. E già che haviamo detto tanto, mostriamo come di tutti i metalli, pietre, legni, vetri etc., si può facilmente ritrovare sino a quanta lunghezza si potrebbono allungare cilindri, fili o verghe di qualsivoglia grossezza, oltre alla quale, gravati dal proprio peso, più non potrebber reggersi, ma si strapperebbero. […]
La risposta del perché l’acqua non possa salire nella tromba oltre le diciotto braccia può sorprenderci, sarebbe come dire che la colonna d’acqua sale finché il suo peso non raggiunge il carico di rottura dell’acqua ossia la sua coesione molecolare. Ma Sagredo, la coscienza critica di Galileo, non è soddisfatto,
SAGR. Resta hora che ci dichiate in qual cosa consista il resto della resistenza, cioè qual sia il glutine o visco che ritien attaccate le parti del solido, oltre a quello che deriva dal vacuo: perché io non saprei imaginarmi qual colla sia quella che non possa esser arsa e consumata dentro una ardentissima fornace in due, tre e quattro mesi, né in dieci o in cento; dove stando tanto tempo argento oro e vetro liquefatti, cavati, poi tornano le parti loro, nel freddarsi, a riunirsi e rattaccarsi come prima. Oltre che, la medesima difficoltà che ho nell’attaccamento delle parti del vetro, l’harò io nelle parti della colla, cioè che cosa sia quella che le tiene così saldamente congiunte.
La risposta di Galileo è sicuramente imbarazzata; egli è tutto preso della meccanica dei solidi e la meccanica dei liquidi è di là da venire; se alla prima la teoria dell’horror vacui, della natura che rifugge dal vuoto, gli sembra possa spiegare il fenomeno poi ha un dubbio.
«SALV. Pur poco fa vi dissi che ‘l vostro demonio vi assisteva. Sono io ancora nelle medesime angustie; ed ancor io, toccando con mano come la repugnanza al vacuo è indubitabilmente quella che non permette se non con grande violenza la separazione delle due lastre, e più delle due gran parti della colonna di marmo o di bronzo,(se n’era parlato in precedenza) non so vedere come habbia ad aver luogo ed esser parimente cagione delle parti minori e sino delle minime ultime delle medesime materie: ed essendo che d’un effetto una sola è la vera e potissima causa, mentre io non trovo altro glutine., perché non debbo tentar di vedere se questo del vacuo, che si trova, può bastarci?» (Einaudi, 1990, pp. 27-30)
Mancano ancora cinque anni alla scoperta, di Torricelli, che anche l’aria ha un peso e che l’horror vacui non esiste; ci viene da pensare che a quella scoperta ha contribuito il dubbio di Galilei, quando si chiede se quella teoria può bastare, ma è anche il dubbio che non ci sia incompatibilità e separatezza tra il sapere ufficiale, dell’horror vacui, e quello degli artigiani che mettono le mani nelle cose; è il dubbio da cui è partito il metodo sperimentale, la scienza.
Nel sec XVI Agricola ci parla della tromba (la pompa aspirante) e Giambattista Della Porta ci racconta di un’altra tromba, meglio ricordata come tromba eolica: «Anche Ora. Pompa a eiezione idraulica che utilizza l’energia di caduta libera dell’acqua, in un condotto verticale. L’acqua, trascina l’aria, che poi rilascia in una camera ove si comprime, per il continuo afflusso d’altra aria, e quindi avviata al forno. Apparecchio molto semplice con produzione costante usato per insufflare aria nei forni, in sostituzione del “mantice”; non ha grandi portate, è adatta per piccoli forni.» (Glossario)