Ambiente Tecnica Società. Rivista digitale fondata da Giorgio Nebbia

Per una rivoluzione tecnico-scientifica

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Il mondo degli oggetti

Lo sviluppo umano è basato, direttamente o indirettamente, su oggetti materiali: alimenti, metalli, abitazioni, strumenti di telecomunicazione, macchine, mezzi di trasporto, mobili, carta, vetro, cemento, prodotti chimici, carburanti, e tanti altri.

Tutti gli oggetti vengono tratti da materiali, da risorse, offerti dalla natura – il legno, la sabbia, le pietre, l’aria e l’acqua, i combustibili fossili, il sale, i minerali, i vegetali, gli animali – che vengono trattati e trasformati mediante processi e cicli produttivi, tecnologici, sviluppati nel corso di secoli, ma con maggiore intensità nei recenti decenni.

Nel corso della trasformazione delle risorse naturali in oggetti utili si formano residui, scorie, sottoprodotti, solidi, liquidi o gassosi, che vengono in gran parte immessi nell’aria, nelle acque, nel suolo, cioè nei grandi corpi riceventi naturali, talvolta modificandone profondamente e negativamente la composizione.

Gli oggetti, le merci, passano a questo punto ad un processo di “consumo”. Il termine è improprio perché gli esseri umani non consumano gli oggetti con cui vengono a contatto, ma li usano, per un tempo più o meno lungo, dopo di che gli oggetti e le merci usati vengono buttati via e finiscono anch’essi nei corpi riceventi naturali.

Questi, per quanto grandi siano, non sono illimitati: ciascuno – un fiume, un lago, il mare, l’aria – ha una sua capacità ricettiva – “carrying capacity” – limitata per i rifiuti che vi vengono immessi. Molte modificazioni della composizione chimica e dei caratteri fisici dei corpi della natura possono arrecare danni alla salute umana, alla vegetazione, possono limitare la stessa efficienza dei processi produttivi.

Tutte le attività umane, insomma, sono basate su una grande circolazione di materia e di energia dalla natura, ai processi di produzione, a quelli di “consumo” e infine di nuovo alla natura, una circolazione natura-oggetti-natura. Il ritorno alla natura può avvenire in tempi brevi o in tempi lunghi. Gli alimenti vengono “bruciati” nel corpo umano o animale nel corso di poche ore; la carta dei giornali viene buttata via poche ore dopo l’uso; le macchine, i mobili, i televisori possono svolgere la loro “vita utile” per mesi o anni. Molti edifici restano in funzione per decenni.

La “tecnosfera”, cioè l’insieme degli oggetti fabbricati e usati dagli esseri umani, si dilata continuamente. Si pensi che ogni anno la tecnosfera nel mondo è attraversata da circa 60 miliardi di tonnellate di materiali: combustibili fossili, alimenti, prodotti forestali, minerali, materiali da costruzione, eccetera; da 3 a 5 miliardi di tonnellate di tali materiali restano fissati per tempi lunghi.

Le sostanze liquide, solide, gassose che vengono immesse nell’ambiente in seguito ai processi di produzione e di uso degli oggetti sono di diversissima natura: alcune sono molto ingombranti ma di limitato disturbo ambientale – i residui della demolizione di edifici – altri manifestano effetti tossici anche in piccolissima quantità (è il caso del mercurio) per cui la valutazione delle modificazioni negative della biosfera – e lo sviluppo di mezzi per evitarle introducendo tecnologie pulite al posto delle attuali – richiedono accurate conoscenze delle quantità, della natura chimica e fisica, e degli effetti di ciascuna scoria che si forma in ciascun processo.

Come sviluppare tecnologie e oggetti puliti

Il primo passo da fare è condurre una analisi del bilancio di materia ed energia che entra in ciascun ciclo produttivo. Attualmente tale analisi viene fatta misurando il costo monetario delle materie prime e del processo di trasformazione; l’analisi economica in genere non tiene conto dei residui di ciascun processo, a meno che non si debba agare per liberarsi di tali rifiuti.

Lo sviluppo di tecnologie pulite richiede l’elaborazione di una contabilità in unità fisiche di tutti i materiali che entrano in ciascun ciclo di produzione e di consumo e che ne escono come rifiuti. Si parla ormai di studi di “metabolismo industriale” analoghi a quelli che vengono condotti per misurare il metabolismo del corpo umano.

Vi sono già ricerche in questa direzione, ma il lavoro da fare è ancora molto grande. Una analisi dei cicli produttivi permetterebbe anche di identificare dei nuovi indicatori del valore, diversi dalle unità monetarie, che consentirebbero di confrontare vari processi e merci fra loro per riconoscere quelli meno dannosi per la vita umana e per l’ambiente naturale.

Uno di tali indicatori è il “costo energetico” degli oggetti fabbricati, definito come la quantità di energia necessaria per ottenere una unità di peso di ciascun prodotto: per esempio una tonnellata di ferro o di alluminio o di alcol etilico.

La misura del costo energetico non è facile: bisogna tenere conto della “qualità” termodinamica dell’energia impiegata. L’elettricità impiegata in molti processi, se è di origine termoelettrica, ha “dentro di se” un costo energetico, quello dei combustibili richiesti per generarla; l’elettricità di origine idroelettrica va “valutata” diversamente essendo ricavata da una fonte primaria rinnovabile come il moto dell’acqua. Molti processi sono alimentati con sottoprodotti agricoli o forestali, cioè con fonti energetiche rinnovabili. In prospettiva e in via di principio l’energia del vento o quella del Sole appaiono le più favorevoli.

Alcuni studi hanno permesso di identificare, per alcuni prodotti, il “costo in acqua”, anche in questo caso definito come la quantità di acqua richiesta per ottenere una unità di peso di prodotto.

In via di principio “valgono” di più i processi tecnologici che consentono di ottenere una unità di peso di prodotto con minori consumi di energia e di acqua e un primo criterio guida verso tecnologie pulite dovrebbe essere quello di modificare i cicli produttivi realizzando un ricupero di molti sottoprodotti energetici e di parte delle acque usate, che spesso possono essere reimmesse nello stesso o in altri cicli produttivi. Si pensi all’acqua di raffreddamento di molti processi industriali che viene semplicemente scaldata di qualche grado rispetto alla temperatura in entrata.

Il terzo indicatore importante è il “costo ambientale” di ogni prodotto. Qui la definizione è più difficile perché l’effetto negativo sull’ambiente non deriva dall’emissione di una sola sostanza: in generale l’inquinamento è dovuto a più sostanze il cui effetto può essere esaltato, o attenuato, se sono presenti contemporaneamente. In prima approssimazione, e per alcuni fini ecologici e industriali, si può misurare il “costo ambientale” facendo riferimento alle emissioni di un particolare agente inquinante, per esempio, come sarà chiaro fra poco, alla quantità di anidride carbonica immessa nell’aria in seguito ad una combustione che genera una unità di energia. In questi casi si parlerà di kg di CO2 per megajoule di energia.

I processi di depurazione

L’analisi del bilancio di massa dei materiali che entrano ed escono dai processi di produzione e di consumo mostra che si tratta di quantità grandissime.

Cominciamo ad analizzare il flusso di materiali associati all’uso dei combustibili fossili: nel mondo circa dieci miliardi di tonnellate all’anno di carbone, di petrolio e derivati e di gas naturale che liberano circa 350 exajoules di calore (circa 90 mila miliardi di kilocalorie, o 9 miliardi di tonnellate equivalenti di petrolio).

Il carbonio C contenuto nei combustibili fossili viene restituito, dopo la combustione, alla biosfera sotto forma, per lo più, di anidride carbonica CO2 in ragione di circa 3,5 tonnellate di CO2 per ogni tonnellata di C. I diversi combustibili fossili liberano differenti quantità di CO2, per unità di energia prodotta nella combustione: in grammi/MJ le emissioni sono 100 per il carbone, 80 per i prodotti petroliferi e 50 per il gas naturale. Per quanto si è detto poco prima, per questo particolare agente chimico il “costo ambientale” dell’uso del carbone è circa doppio rispetto a quello del gas naturale. Si tratta, come è ovvio, di “costi” in unità fisiche, che niente hanno a che fare con i costi monetari.

L’anidride carbonica immessa nell’atmosfera ogni anno nel mondo ammonta, da sola, a circa 30 miliardi di tonnellate e l’aumento della concentrazione di questo gas nell’atmosfera è responsabile di gran parte dei mutamenti climatici associati all'”effetto serra”, il lento decennale aumento della temperatura della superficie terrestre. Altra anidride carbonica viene immessa nell’atmosfera in seguito alla scomposizione dei carbonati, per esempio durante la produzione del cemento, dell’acciaio, eccetera. E, naturalmente, dalla respirazione dei vegetali e degli animali, anche se in questo caso si tratta di CO2 che ritorna nell’atmosfera da cui era stata prelevata poco prima.

La preoccupazione per l’aumento della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera è così grande che le Nazioni Unite hanno chiesto a tutti i paesi di diminuire le proprie emissioni di CO2 nell’atmosfera; questo si può ottenere sia diminuendo i consumi di energia – ma questo ha effetti sull’economia e lo sviluppo – sia usando (fin che ce n’è) gas naturale piuttosto che carbone, sia raccogliendo l’anidride carbonica ed evitando che finisca nell’atmosfera.

Si tratta di un campo di grande interesse e vi sono state varie proposte che meriterebbero di essere trasformate in processi industriali: alcuni hanno suggerito di raccogliere i gas emessi dai grandi impianti di combustione (centrali termoelettriche, raffinerie, industrie metallurgiche) e di immetterli, mediante tubazioni, negli oceani. In questo modo verrebbero anche eliminati altri gas inquinanti acidi (come gli ossidi di zolfo e di azoto) che il mare neutralizza facilmente e senza rilevanti alterazioni ecologiche.

La combustione dei combustibili fossili genera molti altri gas inquinanti dell’atmosfera: fra questi si possono ricordare gli ossidi di azoto e gli ossidi di zolfo che sono responsabili della crescente acidità delle piogge e quindi di danni alla vegetazione. Anche questi gas possono essere filtrati o raccolti su sostanze che li neutralizzano e i prodotti della filtrazione e neutralizzazione di tali gas possono fornire materiali di interesse commerciale, come acido solforico o concimi.

Per diminuire l’inquinamento dovuto ai composti dello zolfo è possibile eliminare tali composti dai prodotti petroliferi durante la raffinazione del petrolio: anche in questo caso è possibile ricuperare acido solforico e zolfo, sostanze economicamente importanti come materie prime.

La depurazione del gas naturale “acido”, contenente acido solfidrico H2S, ha portato a sviluppare processi che permettono di eliminare l’acido ossidandolo in modo da ricuperare zolfo; ormai circa la metà dello zolfo prodotto nel mondo non è più ottenuto da giacimenti, ma è zolfo di ricupero industriale.

L’uso del carbone – il combustibile fossile di cui esistono nel mondo le riserve più abbondanti – comporta immissione nell’aria di polveri e di composti solforati e lascia come residui grandi quantità di ceneri costituite da ossidi e sali inorganici. Lo sviluppo di processi di gassificazione sotterranea (iniezione nei giacimenti sotterranei di aria e vapore acqueo che provocano la combustione parziale sotterranea del carbone) consentirebbe di far arrivare in superficie una miscela di gas combustibili privi di ceneri e facilmente depurabili, che potrebbero essere immessi nei metanodotti tradizionali.

Non si deve dimenticare che, nel corso della storia della tecnica, varie iniziative per evitare l’inquinamento industriale, come quello dei primi processi per la fabbricazione del carbonato sodico, hanno spinto a creare processi meno inquinanti e più efficienti anche economicamente addirittura a utilizzare nuove materie e merci.

Anche molte forme di inquinamento delle acque possono essere eliminate con tecnologie di depurazione che addirittura consentono il ricupero di materiali commerciali: per esempio i processi di depurazione delle acque delle fogne urbane generano dei fanghi organici che possono essere usati come concimi o che possono essere sottoposti a processi di fermentazione con produzione di metano (biogas).

Tecniche per prevenire l’inquinamento

Lo sviluppo di tecnologie pulite dipende non soltanto dalla filtrazione o scomposizione dei rifiuti, dopo che si sono formati, ma anche dallo sviluppo di processi produttivi o di oggetti che generano una minore quantità di rifiuti.

Dove sono disponibili riserve di energia idroelettrica alcuni processi produttivi che attualmente sono basati sui combustibili fossili potrebbero essere condotti usando l’elettricità. Con l’elettricità è possibile scomporre l’acqua e ottenere idrogeno da usare come agente riducente al posto del metano o dell’ossido di carbonio, usati attualmente consumando combustibili fossili.

Per esempio è possibile trattare i minerali di ferro con un processo di riduzione con idrogeno elettrolitico e ottenere poi, dal minerale preridotto, acciaio in forni elettrici, nei quali il minerale preridotto può anche essere miscelato con rottami di ferro ottenuti dal ricupero di materiali ferrosi usati.

Già oggi l’alluminio viene ottenuto con un processo elettrolitico e così il fosforo dai minerali fosfatici. L’ammoniaca sintetica può essere prodotta con idrogeno elettrolitico. combinato con l’azoto separato dall’aria, con compressori azionati anch’essi con energia elettrica.

Una volta che siano disponibili conoscenze accurate sui materiali trattati e sui cicli produttivi, è possibile applicare – o inventare – accorgimenti tecnici “puliti”, mirati al preciso scopo di diminuire l’inquinamento ambientale.

Da molti anni varie agenzie delle Nazioni Unite incoraggiano lo studio e la sperimentazione di “tecnologie senza rifiuti” (No-waste technologies). Sono disponibili ormai molti volumi contenenti i risultati degli studi condotti e la rassegna dei problemi ancora aperti. Qualsiasi nuova soluzione da luogo a processi e brevetti esportabili in altri paesi e crea ricchezza e nuova occupazione.

Si sta diffondendo una “filosofia” mirante a iniziative con “zero-rifiuti”, o ZERI. Per quanto sia impossibile, per elementari ragioni termodinamiche e chimico-fisiche, produrre e usare merci con “zero-rifiuti”, si tratta comunque di un possibile provocazione e stimolo verso innovazioni che ci facciano uscire almeno da alcune delle molte trappole in cui la miopia tecnologica del passato ci ha fatto cadere.

Risorse naturali rinnovabili

Le risorse naturali usate come fonti di energia e di materiali per i processi industriali non sono tutte uguali: alcune provengono da minerali e fonti fossili che, una volta utilizzati, non potranno più essere ricostituite, sono cioè non rinnovabili. Anche la dipendenza da risorse naturali esauribili e non rinnovabili può essere considerata un indicatore del “costo ambientale” dei processi e dei manufatti, di cui si parlava prima.

Ai fini dello sviluppo di tecnologie pulite un ruolo importante svolgeranno in futuro le risorse naturali rinnovabili, tutte, direttamente o indirettamente, legate all’energia che il Sole irraggia continuamente, in quantità grandissima, sulla superficie della Terra.

L’energia solare che raggiunge le terre emerse ammonta, ogni anno, all’equivalente di circa un milione di exajoules (25.000 miliardi di tonnellate equivalenti di petrolio), circa tremila volte l’energia consumata dagli esseri umani in un anno.

L’energia solare tiene in moto il ciclo dell’acqua che, con le sue evaporazioni e condensazioni, scorre sulle terre emerse, ogni anno, in ragione di 40.000 miliardi di tonnellate. Tale flusso di acqua, superando i dislivelli delle montagne e valli, ha, “dentro di se”, una energia potenziale equivalente a centomila miliardi di kilowattore, otto volte di più di tutta l’energia elettrica prodotta nel mondo in un anno, cinquanta volte di più di tutta l’energia idroelettrica utilizzata nel mondo ogni anno. Vi sono quindi ancora, soprattutto nelle zone equatoriali e in quelle artiche, grandi riserve potenziali di energia idroelettrica inutilizzata, che torna disponibile ogni anno.

L’energia solare crea, fra le varie zone della Terra, le differenze di temperatura che generano il vento, anch’esso utilizzabile come fonte di energia rinnovabile. Col calore solare è possibile scaldare edifici, azionare pompe per il sollevamento dell’acqua, frigoriferi e condizionatori d’aria, e distillare l’acqua di mare per ottenere acqua dolce in quantità di 1000 litri all’anno per ogni metro quadrato di distillatore solare.

E’ possibile trasformare la radiazione elettromagnetica solare direttamente in elettricità con impianti fotovoltaici, ormai prodotti industrialmente, capaci di generare ogni anno 100 kilowattore per ogni metro quadrato di superficie delle fotocelle solari.

Ma il principale contributo che l’energia solare può dare alla tecnologia e alla soluzione di problemi umani è legato alla fotosintesi con la quale la radiazione solare fa combinare, nelle parti verdi dei vegetali, l’anidride carbonica e l’acqua producendo zuccheri, amidi, grassi, cellulosa, lignina, proteine, cioè le materie della biomassa vegetale.

La produttività primaria netta, cioè la materia secca prodotta ogni anno dal Sole nei vegetali, ammonta a circa 100 miliardi di tonnellate, un peso molte volte superiore a quello di tutti i prodotti agricoli, minerari, forestali, e dei combustibili fossili utilizzati in un anno dagli esseri umani.

Le sostanze chimiche presenti nella biomassa vegetale e animale rappresentano una importante riserva e fonte di materie prime industriali, come del resto è avvenuto per secoli. Il declino dell’uso della biomassa come fonte di materie prime si è avuto con i perfezionamenti dei processi di raffinazione del petrolio e con la nascita dell’industria petrolchimica, a partire dagli anni cinquanta.

Per via sintetica è stato possibile ottenere un gran numero di nuove sostanze: le materie plastiche hanno sostituito i prodotti cellulosici e le pelli; la gomma sintetica ha portato via una parte del mercato alla gomma naturale; le fibre sintetiche hanno sostituito le fibre naturali.

Col passare del tempo si è visto che molti nuovi processi avevano effetti negativi sull’ambiente e che molti nuovi prodotti erano di difficile smaltimento dopo l’uso. Inoltre pochi grandi paesi industriali, con le loro produzioni sintetiche, hanno messo in crisi le produzioni di molti paesi in via di sviluppo, quelli che producevano cotone, lana, iuta, gomma naturale, legname, pellami.

Il riconoscimento delle trappole tecnologiche nascoste in molti processi e prodotti sintetici sta spingendo verso la “riscoperta” delle materie prime naturali: adesso la ricerca dispone di nuovi raffinati strumenti che mostrano che molte sostanze presenti nei vegetali e negli animali si prestano bene come materie prime industriali, in concorrenza, anche sul piano ecologico, con quelle sintetiche.

Non solo: si sta scoprendo che le conoscenze sulle materie presenti nella natura sono ancora molto scarse: a differenza dell’industria sintetica, che produce relativamente pochi materie prime e derivati, la natura svolge le sue funzioni vitali con una grandissima fantasia. Delle specie legnose conosciamo soltanto un piccolo numero, rispetto a quelle che si trovano in natura; innumerevoli piante nascondono preziose materie che possono, per esempio, sostituire utilmente e con minori danni i conservanti e i pesticidi sintetici.

Inoltre il possibile esaurimento delle riserve (o almeno delle riserve a più basso prezzo) di alcuni combustibili fossili sta spingendo molti paesi industriali verso lo sviluppo di una agro-industria per prodotti non alimentari.

Zuccheri, amido e cellulosa possono essere trasformati in alcol etilico usabile come carburante in miscela con la benzina: gli amidi, gli zuccheri, la cellulosa, la lignina, i grassi, possono essere trasformati in prodotti chimici alternativi a quelli petrolchimici e meno inquinanti di quelli attuali.

C’è una crescente attenzione, per esempio, per la produzione e l’uso di materie “plastiche” biodegradabili, adatte per imballaggi, ottenute da amidi, cellulosa e sostanze chimiche ricavate dalla biomassa vegetale.

La riutilizzazione dei rifiuti

Uno dei più importanti campi di innovazione e di lavoro verso tecnologie “pulite” riguarda la riutilizzazione dei rifiuti urbani e industriali. La quantità di tali rifiuti aumenta continuamente ed aumenta, perciò, la domanda di impianti di trattamento.

Attualmente i rifiuti vengono smaltiti in discariche o vengono bruciati in inceneritori, ma si tratta di soluzioni costose e inquinanti e che comportano la distruzione di materiali che potrebbero essere ricuperati. In definitiva i rifiuti sono delle merci usate che contengono ancora gli stessi materiali che erano presenti nelle merci originali, sia pure in forma diversa e talvolta miscelati con altre sostanze (additivi, vernici, coloranti).

Con adatte tecnologie è possibile produrre nuova carta dalla carta e dai cartoni usati, nuovo vetro dal vetro usato, nuovo alluminio e ferro dagli imballaggi metallici, oggetti di materia plastica dalla plastica usata, e così via.

Si tratta di considerare i rifiuti come nuove materie prime (o “materie seconde”) per altri processi industriali che, invece di partire dai minerali, o dal legno o dalla sabbia, partono dai metalli, dalla carta, dal vetro usati.

Il processo non è nuovo: anzi la necessità di ricuperare scarti o residui o rottami ha avuto un ruolo importante nello sviluppo della tecnologia. Solo per fare un esempio, nella metà del secolo scorso la grande quantità di rottami di ferro che si era andata accumulando ha spinto gli imprenditori a cercare un processo, quello Martin-Siemens, che consentiva di ottenere acciaio da una miscela di ghisa e di rottame, con grande vantaggio anche economico rispetto al precedente processo Bessemer.

Nella stessa siderurgia fin dal secolo scorso gli imprenditori hanno capito che era un errore buttare via il prezioso calore dei gas d’altoforno e hanno introdotto i recuperatori di calore Cowper sfruttando la proprietà dei mattoni di immagazzinare e poi restituire calore.

Il successo delle tecnologie di ricupero di nuove merci dai rifiuti dipende dalla possibilità di raccogliere separatamente le varie componenti presenti nei rifiuti stessi: per esempio vetro, carta, materia organica come residui di cibo, scarti vegetali dei mercati, residui dei macelli, imballaggi, metalli, materie plastiche, eccetera.

La parte di carta che non può essere trasformata in carta nuova potrebbe essere utilizzata come fonte di energia; la cellulosa può essere scomposta chimicamente in zuccheri che, a loro volta, possono essere trasformati in alcol etilico utilizzabile come carburante per autoveicoli (lo si fa già in Brasile). Oppure da questi zuccheri si possono ottenere per via microbiologica prodotti chimici o sostanze proteiche.

Le operazioni di riciclo dei rifiuti – ma sarebbe meglio dire delle “merci usate” – possono avere successo se vengono messi a punti dei processi produttivi completamente nuovi, spesso molto diversi da quelli tradizionali, pur tenendo presente che alcuni degli stessi processi di riciclo possono essere fonti di altri inquinamenti.

La produzione di carta riciclata dalla carta e dal cartone usati richiede processi e accorgimenti diversi da quelli finora adottati quando la carta è prodotta dalla pasta di cellulosa; lo stesso vale per la produzione di nuovo vetro dai rottami di vetro.

Nel caso del riciclo delle materia plastiche usate si devono affrontare problemi ancora più grandi e che in parte sono ancora irrisolti anche nei paesi industrialmente più avanzati. I manufatti di materia plastica – bottiglie, imballaggi, film, eccetera – non solo sono fatti con miscele molto diverse di polimeri, ma ciascun polimero è addizionato con sostanze coloranti, additivi, plastificanti, differenti per ciascun oggetto finale.

Mentre, in via di principio, dalla fusione del ferro usato o dell’alluminio usato si ottengono ancora ferro o alluminio, il riciclo delle grandi quantità di miscele di differenti materie plastiche, presenti nei rifiuti domestici e industriali, è possibile soltanto se si riesce a separare le diverse componenti.

In generale per ulteriore trattamento e fusione delle materie plastiche usate si ottengono manufatti di plastica di basso valore commerciale. Alcuni di questi materiali potrebbero comunque essere utilizzati per pavimentazione stradale, per pavimenti di edifici, per pali di sostegno, per tubi da irrigazione.

Il successo delle operazioni di riciclo dei materiali usati comporta gravi problemi non solo produttivi, ma anche analitici e di controllo della qualità. Innanzitutto si tratta di analizzare le materie da riciclare. Per esempio se si deve procedere alla rifusione dei rottami metallici va tenuto presente che in molti casi i rottami di ferro, alluminio, rame, piombo sono costituiti da leghe e miscele di elementi che spesso sono inaccettabili nei materiali riciclati. Il ferro, ad esempio, non deve essere contaminato da rame in quantità superiore ad una certa concentrazione, ma è possibile che nel rottame di ferro siano presenti piccole quantità di rame provenienti dagli impianti elettrici delle macchine smantellate ed occorre saperlo prima del trattamento di riciclo.

Non solo: occorre mettere a punto dei metodi analitici per controllare che nelle merci riciclate – carta, vetro, metalli, plastica – non siano presenti sostanze che possono aumentarne la fragilità, comprometterne la durata o che possono essere tossici per le persone che maneggiano i rispettivi prodotti.

In altri casi per certe applicazioni è richiesto che la carta, il vetro, e così via, non contengano materie provenienti dal riciclo dei rifiuti. Poiché, peraltro, si sa ben poco sulle sostanze che erano presenti nelle materie sottoposte a riciclo, ci si trova di fronte a problemi analitici spesso complicati che possono anche richiedere, a loro volta, altre innovazioni nel campo delle apparecchiature analitiche.

La domanda di metodi analitici e di controllo di qualità si fa sempre più grande per cui un numero crescente di organizzazioni di ricerca si dedicano quasi esclusivamente all’analisi e al controllo dei materiali legati alle operazioni di riciclo e riutilizzazione dei rifiuti: una vera nuova “scienza dei rifiuti”!

La progettazione degli oggetti

In molti paesi, e in particolare nell’Unione europea, sono adottate delle norme per assegnare ad alcuni prodotti o manufatti industriali delle eco-etichette o “ecolabels”. Possono ricevere tali ecolabels i prodotti che, in seguito ad un esame da parte di commissioni governative, sono risultati ecologicamente meno dannosi, perché richiedono meno materie prime, meno energia e meno acqua e generano minore inquinamento nei processi di produzione e durante il funzionamento, perché sono più facilmente eliminabili dopo l’uso, perché sono stati fabbricati con materie prime di ricupero.

Le procedure di assegnazione delle ecolabels sono complicate, e talvolta ambigue: le norme richiedono che vengano studiati gli effetti ambientali di tutto intero il “ciclo vitale” di ciascun manufatto – dalla culla alla tomba – cioè dalle materie prime impiegate, dalle fonti di energia usate, fino ai rifiuti e al loro destino nell’ambiente. Purtroppo le informazioni disponibili per molti pezzi della “vita” di molti manufatti sono ancora molto limitate.

Va comunque tenuto presente che le norme relative all’ecolabel non sono rivolte alla difesa della natura o dei consumatori, ma alla protezione delle imprese che investono denaro per processi meno inquinanti e perciò producono oggetti e manufatti più costosi, e che vogliono perciò battere la concorrenza delle imprese che pongono minore cura nella fabbricazione.

Qualunque sia la motivazione delle norme europee, è evidente che anche le imprese straniere dovranno fare i conti con esse se vogliono esportare nei paesi del mercato comune europeo. Inevitabilmente ci saranno sforzi, in tutti i paesi industriali, per migliorare i processi produttivi e soprattutto la progettazione delle merci in modo da poter meritare l’assegnazione di una “ecolabel” quando cercano di venderle in Europa.

Si sta verificando, così, una svolta in tutto il mondo verso una nuova maniera di progettare gli oggetti e i macchinari: rispetto ai caratteri più vistosi, più originali, agli oggetti personalizzati, si andrà verso una maggiore standardizzazione e verso un miglioramento effettivo della qualità degli oggetti a cui sarà chiesta maggiore durata, più facile manutenzione e possibilità di riciclo dopo l’uso.

Va anche tenuto presente che molti macchinari sono costituiti da miscele complesse di diversi materiali, difficilmente separabili fra loro. Uno dei casi più interessanti è rappresentato dagli autoveicoli che sono fabbricati con decine di differenti materiali – metalli, materie plastiche, gomma – incompatibili fra loro ai fini della riutilizzazione.

C’è quindi una crescente domanda da parte dell’industria del riciclo perché i fabbricanti di autoveicoli prevedano, nella progettazione, che le varie parti siano facilmente separabili fra loro, in modo, come si ricordava prima, che il ferro non venga miscelato col rame, che le materie plastiche non siano contaminate dalla gomma o dall’amianto, e così via.

Problemi ancora più complicati si pongono quando si tratta di smantellare macchine ancora più complesse come i televisori e i calcolatori elettronici. Eppure i circuiti stampati di queste apparecchiature contengono grandi quantità di saldature e contatti dai quali sarebbe possibile ricuperare oro e altri metalli preziosi, a condizione che alcune parti siano facilmente staccabili dalle altre componenti.

E ancora: i video dei televisori e dei calcolatori contengono sali che impediscono la riutilizzazione del vetro e lo stesso accade per i tubi fluorescenti.

Attività produttive e territorio

Una più approfondita conoscenza dei cicli produttivi è di grande importanza anche ai fini della scelta della localizzazione degli impianti industriali.

L’effetto sull’ambiente dei processi produttivi dipende non solo dal processo, dalle materie trattate e dai rifiuti che si formano, ma anche del luogo in cui l’impianto viene installato.

In una zona battuta dai venti, in cui sono presenti grandi quantità di acqua, è possibile smaltire i gas e i rifiuti liquidi abbastanza facilmente. Nelle vicinanze delle città o in valli strette o in zone ecologicamente delicate occorre introdurre accorgimenti e tecniche più costose e raffinati.

Sempre più spesso le autorità locali chiedono, prima di rilasciare le autorizzazioni all’insediamento di una fabbrica, degli studi di “impatto ambientale”: l’imprenditore deve dimostrare che, nelle particolari condizioni geografiche ed ecologiche considerate, gli effetti negativi sull’aria, sulle acque, sul mare, sulla vegetazione non supereranno certi limiti, in genere fissati dalle autorità governative.

Anche gli studi di impatto ambientale richiedono accurate conoscenze di tutto il ciclo produttivo e di tutti i materiali coinvolti nel processo, compresi i rifiuti. Anche in questo caso vi sono ormai dei centri di ricerca specializzati che effettuano, per conto delle imprese o dei governi, le analisi di impatto ambientale con la collaborazione di specialisti di cicli produttivi, di geografia, di ecologia, di urbanistica.

Il ruolo della ricerca scientifica

Le poche precedenti considerazioni mostrano che il successo dell’innovazione verso tecnologie pulite – l’avvio della indispensabile rivoluzione tecnico scientifica che, clon salde radici nel Novecento, stenda i suoi rami e frutti nel XXI secolo – dipende da un rilancio della ricerca scientifica applicata. In via di principio qualsiasi problema può essere risolto, se viene formulato correttamente. Se, per esempio, si riconosce che un processo produce dei sottoprodotti inquinanti o di difficile smaltimento, l’effetto ambientale negativo può essere ridotto analizzando esattamente la composizione di tali sottoprodotti e sviluppando dei processi per eliminare le componenti inquinanti e possibilmente per ricuperare le componenti ancora utili.

A questo punto non bisogna dimenticare che tutta la tecnologia industriale, molto prima dell'”età ecologica”, ha incontrato e superato gli stessi problemi che stiamo incontrando anche adesso.

Molti dei problemi ambientali attuali dipendono dalla mancanza di fantasia e di conoscenze – anche storiche – degli imprenditori e dei ricercatori e anche dal crescente divario esistente fra la ricerca, specialmente universitaria, e il mondo della produzione.

Una modesta proposta

Le poche precedenti considerazioni suggeriscono il ruolo che l’innovazione tecnico-scientifica può avere per risolvere i problemi umani: soddisfare i bisogni della popolazione in aumento, attenuare le differenze fra coloro che hanno beni abbondanti e quelli che mancano dell’essenziale, rispondere alla necessità di evitare il rapido consumo e impoverimento delle riserve di risorse naturali e la contaminazione dell’aria, delle acque, del suolo, dei mari.

Credo che un significativo passo avanti potrebbe essere fatto con la creazione di un centro di informazione e di documentazione, accessibile a tutti i paesi (anche grazie ai recenti progressi delle telecomunicazioni) sulla “domanda” di innovazione.

Il centro potrebbe raccogliere le indicazioni su problemi di contaminazione ambientale, ma anche su risorse naturali finora poco o male utilizzate, sui cicli produttivi e sui relativi bilanci di materia e di energia; potrebbe incoraggiare ricerche verso una nuova “economia” capace di riconoscere che le risorse naturali e i beni materiali valgono altrettanto quanto, se non più delle, carambole del capitale finanziario globale, capace di riconoscere i confini fra sviluppo umano e crescita delle merci fine a se stesse, capace di identificare nuove scale di valori in unità diverse dai dollari o dagli euro .

Il centro potrebbe svolgere compiti di “scrutinio” delle attuali tecnologie e delle nuove proposte e potrebbe trasferire le informazioni così raccolte sia all’opinione pubblica sia ai responsabili di scelte politiche e amministrative, spesso fatte con scarsità di informazioni sia statistiche sia tecnico-scientifiche.

Una utile sezione del centro potrebbe dedicarsi alla storia delle tecniche del passato per vedere quante innovazioni, poi abbandonate, potrebbero essere resuscitate oggi alla luce di nuovi vincoli ecologici ed economici.

Ma soprattutto il centro potrebbe svolgere la funzione di ascolto dei bisogni degli almeno tremila milioni di persone che si stanno avviando oggi verso una forma meno arretrata di vita e i cui progressi – umani, prima che merceologici – potrebbero essere garantiti con soluzioni tecniche del tutto diverse da quelle adottate dai mille milioni di abitanti dei paesi cosiddetti ”avanzati”.

Penso ai bisogni di energia che potrebbe essere fornita dal sole e dal vento; ai bisogni di acqua che potrebbero essere soddisfatti depurando le acque usate o contaminate o dissalando l’acqua di mare; ai bisogni di salute che potrebbero essere soddisfatti sconfiggendo le malattie portate dalla mancanza di igiene, di acqua pulita e di fognature; ai bisogni di mobilità che possono essere soddisfatti con mezzi di trasporto del tutto differenti dalle lucide e rombanti automobili pubblicizzate in America e in Europa; ai bisogni di alimenti, che possono essere soddisfatti utilizzando prodotti locali, rispettando le tradizioni alimentari culturali e religiose di ciascun paese, offrendo tecniche di conservazione del tutto diverse da quelle delle nostre attuali industrie.

Come crocevia fra la domanda di bisogni e l’offerta di soluzioni e di innovazioni tecnico-scientifiche un simile centro potrebbe arricchire anche ciascuno di noi, aiutandoci ad uscire dalle singole nicchie e dai singoli egoismi per affrontare, ormai nel ventunesimo secolo, un cammino che, o si percorre tutti insieme, o ci porta tutti a conflitti continui fra popoli e a fare i conti con la ribellione della natura.

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