Il lungo lavoro di ricerca e divulgazione svolto nel campo dell’archeologia industriale, ancor prima che con gli anni ’90 cominciasse a prendere forma il progetto di un Museo ad essa dedicato, consente di dar conto di alcune costanti di fondo e di significativi mutamenti avvenuti nella posizione delle imprese nei confronti del patrimonio storico che direttamente le concerne, almeno per quel che riguarda l’area in cui abbiamo operato, vale a dire il bresciano con puntate nel resto della Lombardia e del Nord.
Nei limiti di un’esperienza locale, comunque significativa, il percorso compiuto è segnato da una marcata cesura; ci sono state due fasi nettamente distinte, quella dedicata prevalentemente o esclusivamente al patrimonio architettonico, agli edifici e alle infrastrutture ex industriali, e quella in cui il concetto di patrimonio e l’attività di studio sono stati estesi agli apparati produttivi, alle macchine, agli strumenti del lavoro industriale (sino alle soglie della rivoluzione informatica, talvolta varcandola).
Nella prima fase, che coincide cronologicamente con gli anni ’70 e ’80, l’interesse delle imprese per l’archeologia industriale si dimostrava pressoché nullo. Agli edifici dismessi, ruote idrauliche, ciminiere, e quant’altro non veniva attribuito un valore culturale né estetico.
D’altra parte l’atteggiamento dei cultori di archeologia industriale era prevalentemente conservazionista, fortemente influenzato dalle correnti che propugnavano la difesa dei “centri storici” e in generale delle testimonianze del passato. Di qui una certa incomunicabilità, se non ostilità, nei confronti di chi intendeva far prevalere la logica del mercato, e ragionava in base ai parametri della rendita fondiaria.
Ma anche all’interno di questa prima fase si registra un cambiamento con il diffondersi delle pratiche di riuso; non più spontaneo, come era sempre avvenuto a fini produttivi, bensì per effetto di una elaborazione culturale che potremmo sintetizzare come passaggio dalla modernità al post-moderno. Con qualche ritardo anche in Italia nuova sensibilità e mercato si incontrano e rendono possibile, in alcuni casi, un riutilizzo imprenditoriale e creativo del patrimonio storico industriale.
Contemporaneamente, partendo dal basso, in nome delle culture locali, la cerchia inizialmente ristretta degli appassionati di archeologia industriale acquista numerosi adepti specie nelle situazioni periferiche, nelle valli e luoghi originari della storia produttiva industriale e protoindustriale italiana. In questo caso è la “comunità” che, dopo la chiusura di vicende imprenditoriali da cui è stata profondamente segnata o forgiata, intende riappropriarsi di un passato che è sempre più totalmente altro e lontano, ma di cui si ha bisogno per un problema di radici e di senso.
In quest’ultimo caso la valorizzazione può spingersi sino ad istanze museali che concernono non solo il patrimonio architettonico, incluse le miniere, ma anche gli strumenti e le testimonianze del lavoro.
La tendenza di fondo inarrestabile e inevitabile resta però quella della cancellazione rapida e quasi integrale dei resti fisici del passato industriale, specie della grande industria novecentesca. In ogni caso quelle che sparivano erano le macchine, il fulcro del sistema produttivo, la chiave della sua intelligibilità. Considerata la rapidità dei processi di obsolescenza, alcuni passaggi cruciali della tecnica applicata entravano in un cono d’ombra che non sarebbe più stato possibile rischiarare, anche perché erano stati il prodotto di un determinato “capitale sociale” che altrettanto rapidamente si stava consumando. È su questo sfondo che è maturata la scelta di allargare l’indagine ai processi produttivi di interesse storico, ampliando il campo di studio, dedicandosi al salvataggio di reperti di particolare rilievo o comunque a rischio di cancellazione, in definitiva costruendo le collezioni di un Museo per cui da tempo era stato individuato il contenitore ideale (anche se al momento continuava a svolgere la sua attività di fabbrica metallurgica).
Lo spostamento del centro di attenzione, l’ampliamento del concetto di patrimonio archeologico-industriale, la “costruzione” di questo stesso patrimonio attraverso operazioni di recupero, inventariazione, manutenzione, classificazione ed ordinamento in vista di una fruizione espositiva, o didattica, o di ricerca, ci hanno consentito di entrare in contatto con una realtà tanto importante quanto poco conosciuta, quella delle imprese manifatturiere, e con una quantità di soggetti che ruotano attorno a tale mondo: fornitori specializzati, tecnici, manutentori, addetti alla sicurezza, ecc.
Contemporaneamente diventava più difficile il rapporto con la rete originaria dei collaboratori, si toccava con mano il gap tra le “due culture”, risaltava il vuoto che caratterizza la situazione italiana in materia di storia della tecnica, specie di età contemporanea, la mancanza di conoscenze di base da parte di chi aveva una formazione storica, e il disinteresse per la riflessione culturale da parte di chi si muoveva in una dimensione ingegneristica.
D’altro canto questa è precisamente la frontiera su cui intende collocarsi il Museo dell’industria e del lavoro, di qui uno stimolo ulteriore a proseguire un progetto difficile e stimolante.
Il lavoro sulle macchine ci ha però consentito di trovare nuovi importanti interlocutori, precisamente nel mondo imprenditoriale, costituito in misura rilevante da industriali di origine artigiana o addirittura operaia, con una componente di tecnici altamente qualificati, spesso di formazione universitaria. Si tenga però conto di un secondo forte gap, questa volta di tipo generazionale, per cui gli imprenditori più giovani spesso possono essere maggiormente sensibili al significato culturale del patrimonio storico-industriale ma non ne hanno alcuna conoscenza diretta.
In sintesi possiamo dire di aver registrato nel corso di due decenni un cambiamento profondo e inaspettato nell’atteggiamento degli imprenditori in materia di archeologia industriale, intesa nella sua accezione più ampia. In una prima fase, risalente agli anni ’70, prevale una diffusa chiusura e diffidenza; in linea di massima non c’è interesse per le testimonianze del passato (inclusi gli archivi aziendali) e si nega il valore storico e culturale dei reperti fisici ex industriali: gli edifici vanno abbattuti, le macchine spedite in fonderia.
In una seconda fase il recupero e riuso di particolari edifici segnala un cambiamento di sensibilità nel mondo imprenditoriale che contemporaneamente coglie l’importanza della memoria e della storia, se si vuole dell’identità, a fini anche squisitamente aziendali. Di qui una serie di ricadute in campo archivistico, storiografico, di costruzione dell’immagine, ecc…
Questa fase, almeno in Italia, è contrassegnata dall’imporsi, non solo a livello economico, della centralità dell’impresa. Gli imprenditori si sentono investiti di un ruolo e di una responsabilità che in passato le diverse culture politiche novecentesche, sia di sinistra che di destra, non avevano loro attribuito anche quando non ne combattevano la semplice esistenza.
Il contesto particolare in cui abbiamo operato, contrassegnato da una forte e diversificata tradizione manifatturiera, conferma il quadro generale, con la particolare sottolineatura di cui sopra per gli aspetti tecnici, l’esistenza di una cultura produttiva che vede nella salvaguardia e valorizzazione del patrimonio storico industriale un mezzo per mantenere un qualche collegamento tra il passato e un presente in continua rapida trasformazione.
Nell’accezione fortemente tecnologica, di cui s’è detto, esiste quindi una posizione di apertura e interesse del mondo imprenditoriale per la valorizzazione del patrimonio storico-industriale. È una posizione ancora minoritaria ma non più totalmente isolata; nel difficile processo di realizzazione del Museo, a partire dalla costruzione del necessario consenso attorno ad esso, l’atteggiamento favorevole di una parte del mondo imprenditoriale ha costituito la nostra principale risorsa. Un tale risultato non deve in alcun modo essere considerato ovvio, scontato, anche perché il Museo non è mai stato presentato, in un’ottica aziendalistica, come uno strumento per celebrare la storia dell’impresa, ma piuttosto come un centro di ricerca e divulgazione che privilegia la storia sociale della tecnica.
Questa apertura discende sia da cause generali che dalle caratteristiche specifiche dell’imprenditoria locale, ma, prima di soffermarmi su questo secondo aspetto, segnalo un risvolto tutt’altro che positivo dell’interesse del mondo imprenditoriale per alcuni aspetti dell’archeologia industriale. Contraddittoriamente con la posizione centrale ed egemonica che viene correntemente attribuita alle imprese, e al fatto che la dimensione industriale costituisce anche in tempi di new economy il loro dato strutturale, abbiamo potuto constatare dal nostro peculiare osservatorio che l’impresa industriale rappresenta un mondo a sé, oggi ancor più di ieri.
È vero che nel mondo imprenditoriale si è affermata, o è cresciuta, la sensibilità per la memoria e la storia dell’industrializzazione, vale a dire per le basi su cui poggia il nostro modo di vivere, una quotidianità ad alta intensità tecnologica, ma nel nostro Paese sembra che ciò riguardi solo le imprese, mentre la società, la politica, la cultura, le scuole, restano massicciamente indifferenti se non cieche nei confronti del farsi storico della Tecnica.
Un esito che non può essere nobilitato in termini filosofici – se non parodistici – e che segnala problematiche impegnative e facilmente intuibili. Assumono così tanto maggior valore i molti segnali di controtendenza, localizzati in alcune aree, attorno a specifiche esperienze e tradizioni, e che dovrebbe essere interesse comune portare ad una adeguata soglia di visibilità, evitando la dispersione e sostanziale implosione che hanno caratterizzato gli sforzi di studio e valorizzazione in ambito museale della cultura materiale contadina.
Un segnale preciso dell’interesse delle industrie locali per l’archeologia industriale dei processi produttivi lo avemmo agli inizi degli anni ’90, quando una circolare dell’allora presidente dell’Associazione Industriali Bresciani, Gianfranco Nocivelli, titolare di un’azienda di rilievo europeo come l’Ocean, ebbe diversi riscontri positivi: gli imprenditori dimostravano interesse e disponibilità per l’operazione di censimento e, ove possibile, salvataggio dei reperti ex industriali (macchine, utensili, ecc…) che stavamo avviando. Ma il polso di una situazione per certi versi sorprendente lo avemmo andando direttamente sul campo, visitando aziende, talvolta solo di dimensioni artigianali, ancora pienamente in attività ovvero dismesse. Conoscevamo l’esperienza atipica condotta da Giulio Guizzi, che accanto alla sua attività imprenditoriale, aveva realizzato una raccolta storica di rilievo mondiale sulle macchine pulitrici, non sospettavamo però che un numero significativo di anziani imprenditori ovvero di loro figli avesse conservato religiosamente, e in forma del tutto privata, le macchine che narravano la storia della loro azienda; macchine a loro volta cariche di interessanti vicissitudini.
Per brevità cito il caso del sig. Guerrino Galesi che, dopo la chiusura, agli inizi degli anni ’80, del suo stabilimento di fucili da caccia nel pieno centro di Brescia, ha continuato a conservarlo integralmente in perfetta efficienza, occupandosi giornalmente della manutenzione dei macchinari.
D’altro canto proprio la garanzia del recupero integrale ci ha consentito di acquisire il Cinestabilimento Donato di Milano, un tassello importante della storia del nostro cinema, dalle macchine alle pellicole, dagli uffici ai manifesti. Però in questo caso, per una forma dolorosa di elaborazione del lutto, i titolari ed eredi hanno chiuso il rapporto con la cessione. Al contrario, sempre nel settore cinema-televisione, l’analogo salvataggio a fini culturali e museali della Gamma Film di Roberto Gavioli, ha coinciso con l’avvio di un intenso rapporto con il titolare (e i suoi collaboratori), divenuto il principale consulente per la realizzazione della sezione cinema e comunicazione, una delle più importanti del Museo.
Un prezioso rapporto di collaborazione è stato possibile instaurare con tecnici e operai specializzati, e solo attraverso di esso sono state impostate operazioni che riteniamo fondamentali per alimentare e arricchire di contenuti l’archeologia industriale: citerò soltanto il “censimento macchine” e il “glossario del lavoro industriale” (con una sezione sui dialetti bresciani). Ma la possibilità stessa di recuperare e raccogliere collezioni ingombranti, dopo un iniziale modesto apporto comunale, è dipesa dai grandi spazi messi a disposizione gratuitamente da imprenditori quali i fratelli Lonati (acciaio e meccanotessile) e Marco Bonometti, titolare della OMR (tra i principali fornitori Fiat).
Essendo di là da venire o impossibile un ritorno di immagine, credo che la spiegazione di questo rapporto di collaborazione e sostegno, ovvero di salvaguardia privata del patrimonio, al di fuori dai circuiti del collezionismo – che richiederebbe una trattazione a parte –, dipenda dal significato e dalla funzione che hanno avuto le “macchine” per questo tipo di imprenditori. In altri casi e contesti il simbolo del successo imprenditoriale (ma per molti aspetti anche tecnico e operaio) è rappresentato dal prodotto finito; si pensi all’automobile ma in genere ai prodotti di consumo su cui si riversano enormi investimenti pubblicitari e che sono alla base del recente diffondersi (almeno da noi) dei musei aziendali.
Ma in un territorio di antica e persistente tradizione manifatturiera, fortemente segnato dalla produzione di semilavorati, beni strumentali, prodotti intermedi, macchine utensili e così via, l’attenzione è tutta concentrata sugli strumenti di produzione, sulle macchine in quanto tali, spesso modificate, reinventate, adattate, attraverso una vicenda di innovazioni incrementali tradottesi spesso in successo economico. Proprio perché di per sé cariche di storia, in qualche misura personalizzate, esse possono essere considerate dagli stessi imprenditori dei “beni culturali”, o, almeno c’è una predisposizione ad accettarne una tale valutazione per quei pochi esemplari che casualmente è stato possibile conservare.
Su questa vicenda incide una discontinuità che pone ardui problemi agli archeologi industriali del tempo presente: con l’arrivo e il diffondersi del microprocessore finisce un’era nella storia delle macchine. Si ha contemporaneamente un’intensificazione concentrata di conoscenze formalizzate e la drastica abbreviazione dei tempi di vita produttiva: un destino di cancellazione sembra inevitabile. Per altro, proprio grazie alla virtualizzazione, potremo trasmettere e far rivivere processi produttivi a scopo culturale, ludico, turistico…
In definitiva, in un lasso di tempo piuttosto nel giro di un paio di decenni l’atteggiamento delle imprese verso l’archeologia industriale, visto nell’ottica della peculiare vicenda che ho evocato, è cambiato in modo significativo. Lo esemplifica l’evoluzione avvenuta a proposito degli edifici industriali che verso la metà degli anni ’80 avevamo cominciato ad indicare come sede ideale per un museo dell’industrializzazione. In un primo momento la tesi ufficiale era che dovevano restare luoghi produttivi. Poi ci fu il tentativo di proporne la demolizione integrale (compreso un attiguo quartiere operaio) per creare una nuova città. Tra l’assoluta continuità e discontinuità, accomunate dalla stessa logica ipermodernista, ha finito col prevalere un atteggiamento riflessivo, attento ad istanze storiche e ambientali; alla fine è passata anche l’idea del museo, rispetto a cui ha avuto una decisiva incidenza un tipo di cultura tecnico-industriale che continua a segnare, in mezzo a molti conflitti ed aspirazioni di segno diverso, l’identità profonda del territorio bresciano.