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Bresciani. Dal rottame al tondino. Mezzo secolo di siderurgia

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Giorgio Pedrocco, “Bresciani. Dal rottame al tondino. Mezzo secolo di siderurgia (1945-2000), Milano, Jaca Book, 2000, 368 pp. 

 Il ferro è certamente uno dei materiali da costruzione più importanti e rivoluzionari, tanto che una delle “età” iniziali della storia dell’umanità prende il nome proprio da questo metallo. Sfortunatamente il ferro è un metallo facilmente attaccabile dai gas dell’atmosfera e dall’acqua tanto che in natura non si trova come metallo elementare ma sotto forma di un gran numero di ossidi, idrati, carbonati, solfuri. 

Dovevano avere una bella fantasia i nostri progenitori, per capire che tali ossidi e sali di ferro potevano essere trasformati in ferro metallico – così duro e utile per scavare le rocce e uccidere i nemici – scaldandoli ad alta temperatura in presenza di un combustibile come legna o carbone di legna. Ancora più fantasia occorreva per capire i segreti di uno strano metallo che possiede diversissime proprietà tecniche ed economiche a seconda della presenza di maggiori o minori quantità di carbonio: oggi parliamo con sicurezza di ghisa, acciaio, ferro dolce, ma ci sono voluti secoli per svelare i relativi misteri. 

Quella che chiamiamo rivoluzione industriale è cominciata, si può ben dire, quando è stata inventata una catena di operazioni chimiche: la trasformazione del carbone fossile in un combustibile duro e resistente che è il coke; il trattamento del minerale di ferro con il coke in un forno verticale, l’altoforno; la trasformazione della lega ferro-carbonio che si ottiene dall’altoforno (la ghisa) in acciaio con un processo di combustione del carbonio. 

Nella metà dell’ottocento il ciclo integrale della siderurgia, come lo chiamiamo oggi, era completo e il ferro e l’acciaio potevano aprire trionfalmente le strade del progresso permettendo la costruzione di ponti, rotaie, macchine, navi, eccetera, oggetti e strutture talvolta destinati a rapido invecchiamento e alla sostituzione dopo pochi anni di esercizio. Il residuo era rappresentato da rottame di ferro, costituito praticamente da ferro quasi puro. Quanto maggiore era la produzione di ferro, tanto maggiore era, inevitabilmente, la massa di ferro usato, di rottame, che si formava. 

Chi fosse stato capace di trasformare il rottame di nuovo in ferro, mediante semplice fusione, avrebbe evitato di comprare il minerale, avrebbe speso meno soldi per il carbone, avrebbe potuto operare con impianti più semplici e ne avrebbe tratto un elevato profitto. E così non solo sono stati inventati processi per fondere il rottame insieme alla ghisa e ottenere così più acciaio, ma addirittura sono stati messi a punto processi per la semplice fusione del rottame, per lo più con i forni elettrici resi possibile dalla crescente produzione di elettricità, già alla fine del secolo scorso. 

Il rottame diventava una  nuova richiesta materia prima, il “rottamat” era un nuovo imprenditore che andava a cercare il rottame di ferro nei depositi di rotaie e macchinari abbandonati, e riforniva la materia prima alle industrie siderurgiche; per fondere il rottame non occorrevano i grandi impianti vicino ai porti di sbarco del minerale e del carbone; anche piccole imprese potevano produrre acciaio dal rottame con processi che rappresentavano un’evoluzione e la continuità con un artigianato che già esisteva in molte zone italiane. Le valli alpine avevano una antica tradizione di fabbricazione del ferro; le prime centrali idroelettriche mettevano a disposizione elettricità per la fusione del rottame; la politica autarchica fascista – quella che aveva inventato la requisizione delle cancellate per fare metalli per i cannoni e che aveva dato retta agli inventori che assicuravano di poter ricuperare con la calamita il ferro dalle sabbie di Ostia – incoraggiava i progressi tecnici nelle operazioni che, con linguaggio ecologico, oggi chiamiamo riciclo dei rottami. 

In questa atmosfera culturale e imprenditoriale è esploso il fenomeno dei “bresciani”, piccoli e poi grandi imprenditori che raccattavano rottami dove li trovavano, soprattutto nel dopoguerra, e producevano acciaio adatto, finalmente, non per i cannoni, ma per la merce più importante per la ricostruzione, il tondino per il cemento armato degli edifici e dei ponti. 

Gli imprenditori di più antica tradizione, già organizzati nella Confindustria, chiamavano questi nuovi arrivati, con un tono ironico, i “tondinari”. C’erano fra loro persone che parlavano ancora il dialetto, che trattavano gli operai col pugno di ferro, era gente con  officine nelle quali era facile morire colpiti dai sottili fili di ferro fuso; gente che non badava ai fumi e che era capace di girare il mondo a cercare, – sono gli anni subito dopo la Liberazione – rottami dai campi Arar, i giganteschi depositi di materiali abbandonati dagli americani e contenenti di tutto, o addirittura che mandavano i sommozzatori a tagliare le lamiere delle navi affondate vicino alla costa. 

Piccole fabbriche nelle strette valli della Valcamonica, della Valsabbia, della Valtrompia, ma ben presto estese nella pianura a sud di Brescia, padroni duri, se si vuole, ma che creavano e portavano lavoro, e anche cultura operaia, nelle famiglie spesso di poverissimi contadini. Alcuni degli operai, accumulati un po’ di soldi, si mettevano “in proprio” aprendo altre fabbriche di tondino, con alterne vicende e fortune. 

E chi ironizzava sui tondinari se ne sarebbe pentito perché alcuni colossi se li sarebbe trovati nei consigli di amministrazione delle banche e delle loro stesse società,. Se li sarebbe trovati, come Lucchini, alla presidenza della Confindustria. 

Una bella e interessante pagina del capitalismo italiano, poco studiata – rispetto alle ben più corpose ricerche sulla storia della “grande” siderurgia (Falck, Ansaldo, Terni, Iri, eccetera) che occupa numerosi volumi – divenuta ora disponibile per merito di Giorgio Pedrocco, professore di Storia della tecnica nell’Università di Bologna. Il volume: “Bresciani, dal rottame al tondino”, (il primo capitolo era stato già anticipato nel numero uno, novembre 1999, di ”altronovecento”), contiene non solo la storia dell’acciaieria nel bresciano, ma molta parte della storia della siderurgia e dell’industria italiana nell’ultimo mezzo secolo. 

Come chimico e come merceologo mi rammarico che così poco spazio gli storici dedichino alle uniche cose che contano, le merci, i processi produttivi, le innovazioni tecniche, il lavoro, ed apprezzo perciò molto un libro come questo, scritto da uno studioso che, del resto, si è occupato della storia anche di altri problemi merceologici, come i processi di conservazione degli alimenti, lo zolfo, il sale, il metano. 

Tutta la storia dei “tondinari” è raccontata utilizzando le dirette fonti locali, quotidiane, molti documenti aziendali e molte interviste dirette, con padroni e operai. Padroni talvolta tipo Inghilterra vittoriana, calati nell’Italia del secondo Novecento, gente senza riguardo per la salute dei dipendenti, per l’ambiente, per gli inquinamenti, orgogliosi di guadagnare, ma anche di lavorare loro e di far lavorare. 

È tutta una galleria di personaggi che appaiono prepotentemente sulla scena e talvolta scompaiono, magari, travolti da previsioni sbagliate, da speculazioni, da fallimenti. Basta un aumento del prezzo del rottame negli Stati Uniti, o del prezzo del petrolio, o una diminuzione del presso del minerale di ferro venezuelano, per far svanire i profitti, per costringere un forno alla chiusura, per gettare sul lastrico un intero paesino. 

Il libro del prof. Pedrocco è apparso per iniziativa della Fondazione Micheletti di Brescia (Via Cairoli 9, 25122 Brescia) la quale, come è ben noto ai lettori di questa rivista, da anni svolge una meritoria opera di divulgazione della storia della tecnica e dell’industria nell’età contemporanea. La Fondazione ha un archivio, una biblioteca, un museo e cura la pubblicazione degli Annali e della rivista” Studi bresciani”, altre importanti fonti di storia della tecnica, dell’agricoltura, dell’industria, del lavoro, i cui indici sono pubblicati in questo stesso numero di “altronovecento”. 

Circola, nel mondo contemporaneo, la favola della nuova economia, un qualcosa che dovrebbe far diventare ricco tutto l’universo con procedure immateriali e virtuali basate sulla pressione di un tasto e sulle suggestioni di uno schermo. Per attrarre i soldi dei clienti, i fautori della nuova economia si sforzano di oscurare il volto del lavoro, della fatica, dei pericoli, dei materiali, dei macchinari, delle miniere e delle cave, delle fabbriche, ma anche della sfida con cui gli umani trasformano le risorse naturali in oggetti, in merci – di oscurare il volto delle azioni che stanno alla base della vera e unica economia. Io penso che, per sopravvivere, questo mondo abbia invece bisogno di una cultura della produzione e della fabbricazione delle “cose”, che essa dovrebbe entrare nella scuola, per far capire che cosa è il lavoro, quali successi può assicurare, ma anche quali costi e dolori comporta. Il libro del prof. Pedrocco contribuisce utilmente a rimettere in luce un pezzo di tale cultura. 

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