20-21-22 aprile 2015. Museo dell’Industria e del Lavoro (MUSIL) di Rodengo Saiano
Negli ultimi anni l’agricoltura è tornata in primo piano; è un fatto importante e sorprendente che smentisce l’idea diffusa ma non più dominante che prevedeva la sua soppressione, riducendola ad un reparto dell’industria, senza più un legame organico con la terra, divenuta un semplice sostegno spaziale. Per capire quel che è successo e gli scenari futuri bisogna allargare lo sguardo ad un paesaggio ricco e multiforme in cui coesistono una grande pluralità di forme di agricoltura e di sistemi agro-alimentari , senza dimenticare che la spinta verso un’agricoltura libera dai vincoli naturali si è tutt’altro che esaurita, anzi in termini di potenza e forza economica e finanziaria surclassa le agricolture tradizionali e le agricolture alternative, accomunate da una opzione che per brevità diciamo ecologica.
L’egemonia culturale dell’industrialismo si è incrinata anche se non si può certo sostenere che si sia affermato un paradigma alternativo univoco. Siamo piuttosto in una fase di incertezza e di conflittualità tra opzioni diverse, però una breccia si è aperta sia nei Paesi di più antico e consolidato sviluppo industriale come quelli europei e nordamericani sia in Paesi in cui l’agricoltura contadina è presente ancora in modo massiccio e combattivo, tanto in America Latina che in Asia e in Africa (seppure sotto la pressione pesantissima dell’agrobusiness). Le cause della rottura del percorso unilineare sono molteplici, sta di fatto che sia nelle città metropolitane che nelle campagne, trasversalmente ai ceti sociali, nei contesti caratterizzati dal consumo opulento come nelle regioni più povere, il modello di agricoltura industriale e i suoi prodotti alimentari hanno incontrato critiche e resistenze sempre più diffuse, che la stessa crisi economica di lunga durata in atto dal 2007 non è riuscita a spazzare via, segno inequivocabile del radicamento strutturale e della forza culturale delle varie forme di resistenza e di proposte alternative.
Il titolo del Convegno intende evocare una semplice e innegabile successione storica e, in definitiva, il rapporto istitutivo tra storia e agricoltura, la quale, in tale ottica, è alla base del corso storico, segnando una discontinuità con la storia naturale quasi immobile delle ere precedenti. Contrariamente a quanto ci restituiscono molte e potenti rappresentazioni letterarie, il mondo contadino non è mai stato eterno e immutabile, bensì profondamente implicato nella dinamica storica fungendone da supporto. Lo è tanto più oggi a decenni o secoli, a seconda dell’angolo visuale, della sua conclamata scomparsa: una fine che nell’immaginario corrente (ma non più dominante) segna l’avvio della modernizzazione, una traiettoria inarrestabile che tutto travolge a velocità crescente. Su questo scenario il ritorno dei contadini, esemplificato da fenomeni come “La via campesina” e molti altri, segna una pietra d’inciampo su cui riflettere e uno stimolo all’azione. L’agricoltura contadina non è allora solo l’incarnazione di un passato da archiviare o, all’opposto, da evocare sentimentalmente, ma una dimensione rilevante del tempo presente. Al di là dei giudizi tecnici o di valore, questo è un dato di fatto, e non si tratta di un fenomeno esotico o puramente marginale. Per motivi che meritano di essere indagati la “soluzione finale” non è giunta a compimento. L’agricoltura contadina appartiene al passato ma anche al presente e forse al futuro. Resiste e non solo, anche in Italia, un Paese che più di altri ha creduto e tuttora crede nel miracolo della modernizzazione indefinita, a cui affidarsi per superare i suoi guai e i pretesi ritardi.
Un Paese che ha creduto come pochi nell’industrializzazione, specie quando quest’ultima è riuscita a soddisfare i bisogni elementari delle masse lavoratrici, con la diffusione su grande scala dei beni di consumo durevoli, ma ancor più con la rivoluzione alimentare, resa possibile dall’industrializzazione dell’agricoltura, allevamento e pesca, nonché della trasformazione e distribuzione degli alimenti. Si è trattato di uno tsunami capace di travolgere e annichilire tutte le resistenze. Con prodromi che affondano nei decenni precedenti, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, l’industrializzazione dell’agricoltura, facente perno sulla meccanizzazione e la chimica, si è imposta in tutto il Bel Paese, con cambiamenti enormi e rapidi, alla cui conclusione il settore primario tradizionale è risultato marginalizzato da ogni punto di vista, economico, sociale, culturale, politico. L’agricoltura, nella visione corrente, è diventata un reparto dell’industria, adottandone la logica di standardizzazione, uniformazione, economie di scala, espulsione e precarizzazione della manodopera (in termini più radicali che nel settore manifatturiero).
L’agricoltura industriale ha avuto il suo battesimo effettivo negli Usa già nel XIX secolo e da allora, pur tra contrasti e conflitti durissimi, si è imposta sulla scena mondiale, attraverso formule politiche diverse e configgenti: nei Paesi capitalisti e nelle loro colonie, così come nei Paesi socialisti o ex comunisti, sotto regimi politici di destra e di sinistra. Il progresso dell’agricoltura industriale è stato presentato e visto come l’unica via percorribile per risolvere i problemi di base dell’umanità, per debellare la fame e la povertà, alimentare una popolazione mondiale in continua espansione demografica, consentire a tutti di poter godere del benessere che la produzione industriale nel suo complesso era in grado di mettere a disposizione. Questa grande narrazione trovava poi la sua piena legittimazione nella saldatura tra industrializzazione dell’agricoltura (e di tutte le filiere del comparto alimentare) e sviluppi della tecnica e della scienza. L’agricoltura moderna, di oggi, non è più soltanto industriale ma tecnico-scientifica, non è più solo questione di meccanica e chimica ma di biotecnologia e genetica: uno scenario fantascientifico se rapportato alle esperienze e visioni dei contadini di ieri (e di oggi), con intrecci inestricabili tra centri di ricerca e aziende chimiche e farmaceutiche, Stati, organismi sovranazionali, capitali di rischio, speculazioni sulle derrate, privatizzazione e commercializzazione di ogni risorsa naturale (e umana).
L’agricoltura capitalistico-industriale si è strutturata secondo le esigenze tecniche e commerciali della distribuzione alimentare, a sua volta industrializzatasi attraverso l’affermarsi dilagante dei “supermercati” e la creazione di complesse catene logistiche su tutto il food system. Solo che questa macchina formidabile, circondata di manutentori e propagandisti, presenta delle crepe e vibrazioni pericolose, sembra procedere alla cieca, creando guasti eccessivi sul terreno su cui poggia e avanza, arrecando danni alle forme viventi che travolge e alle stesse persone che trasporta nella sua marcia apparentemente inarrestabile. In sintesi le promesse non mantenute e i problemi principali dell’agricoltura industriale nella sua versione più avanzata sembrano essere i seguenti: 1) è insostenibile per l’ambiente, a causa dello sperpero di risorse non rinnovabili e per i pesanti attacchi che porta alla varietà e vitalità degli ecosistemi terrestri (e marini), oltre che ai paesaggi storicamente costruiti ; 2) produce alimenti di bassa qualità, minando alle radici la varietà e ricchezza delle tradizioni alimentari locali e regionali ; 3) fomenta conflitti politici e vere e proprie guerre, 4) toglie posti di lavoro e moltiplica i lavori semischiavili; 5) diffonde la cultura dello spreco e del consumo senza qualità e consapevolezza. Le implicazioni dell’agricoltura industriale sulla salute dei consumatori sono, a loro volta, oggetto di forti controversie. In termini generali l’agricoltura e l’intero sistema del cibo per come sono oggi strutturati e funzionano concorrono a riprodurre la disuguaglianza, creando una divisione inaccettabile tra chi ha troppo e spreca alimenti e chi manca del cibo o deve accontentarsi di alimenti scadenti e insufficienti: una macchina formidabile e in continua espansione non sta nutrendo il pianeta ma una struttura di ingiustizia. Non meno importante, anzi a nostro avviso decisivo, è il secondo dato critico saliente, specifico della nostra epoca, ossia l’incompatibilità tra l’agricoltura industrializzata e l’ecosfera, la vita degli ecosistemi e la colonizzazione del globo da parte dell’agrobusiness. Se il primo aspetto, nonostante tutti i fallimenti, parrebbe risolvibile con un diverso assetto politico-sociale, a meno che non lo si ritenga giustificabile in quanto esito dell’economia di mercato, la seconda criticità comporta una discontinuità forse più impegnativa e per questo motivo risulta inaccettabile e regressiva per la visione prevalente, che riesce a pensare il tempo solo come processo di avanzamento meccanico, unilineare, guidato dalla tecno-scienza.
Oggi tutti i settori della società e dell’economia sono investiti dal dilemma causato dalla crisi ecologica globale, di cui il riscaldamento del pianeta è solo una delle manifestazioni. E’ possibile e necessario continuare sulla strada in cui ci troviamo, avente il suo epicentro e motore effettivo nell’industrializzazione, oppure è auspicabile e necessario cambiare rotta e iniziare concretamente la transizione ecologica, collocandosi culturalmente e materialmente al di là del ciclo storico dominato dall’industrializzazione del mondo ? Nel primo caso il modello che si intende realizzare comporta il controllo totale della natura o, almeno, dei rapporti tra la specie umana e l’ambiente. Attraverso una serie di passaggi che, per altro, si stanno realizzando rapidamente, la meta consiste nell’artificializzazione del mondo, superando lo scarto tra ambiente (natura) e mondo (società). A questo punto l’agricoltura non avrà più ragion d’essere, tutti i prodotti alimentari saranno completamente artificiali, realizzati senza passare attraverso il rapporto con la terra e i cicli naturali. Nel secondo caso, l’agricoltura, da settore marginale del sistema economico tardo industriale, acquisterà una imprevista importanza e addirittura centralità, nel senso che le partite decisive del futuro si giocheranno attorno al cibo, la terra, l’acqua. Si delineano due scenari: generalizzazione ad ogni ambito della vita dell’economia industriale, nella sua attuale forma a dominanza capitalistico-finanziaria, oppure conversione ecologica dell’economia e della società, partendo dall’agricoltura e alimentazione in quanto ambiti in cui la conversione è immediatamente fattibile, esperibile, tangibile. Una economia contadina rinnovata, ecologica, può far leva su alcuni indubbi punti di forza: è in grado di fornire un reddito dignitoso, un lavoro soddisfacente, la sperimentazione di nuove forme di convivenza sociale e con l’ambiente di vita. La sua affermazione, passando da situazioni di nicchia a fenomeno socialmente rilevante, le consentirà di svolgere un ruolo prezioso di rigenerazione sul piano sociale, ecologico, culturale (e/o spirituale).
E’ in atto un passaggio d’epoca di cui è difficile avere l’esatta percezione, ma per tutti coloro, pochi o tanti che siano, che non intendono sottomettersi all’autonomizzazione della Tecnica, la forma contemporanea di servitù volontaria, la riconsiderazione radicale del rapporto dell’uomo con la natura, l’attenzione per i modi di produzione-trasformazione-distribuzione delle risorse alimentari, del cibo in primo luogo, si impongono come altrettanti imperativi culturali e politici. Come sottolinea un recente documento di Slow Food (“Seminare il futuro”), il ritorno alla Terra racchiude in sé un valore immenso, troppo spesso banalizzato e confuso con un ingenuo auspicio di un impossibile ritorno a un passato irreplicabile. Il ritorno alla terra è invece un riavvicinamento ai ritmi naturali dai quali la cultura meccanicistica dell’accumulazione ci ha allontanati. E’ una rivoluzione copernicana che ci invita essenzialmente a tre rivoluzioni culturali: – rimettere al centro dell’operare umano il valore aggiunto del saper fare e della manualità; riconsiderare il valore del tempo, dei tempi dell’attesa, come parte significativa dello svolgersi temporale, del susseguirsi dei pieni e dei vuoti come ciclicità che rigenera; rivalutare il silenzio e l’otium come opportunità di conoscenza, come capacità di godere senza consumare.
Quel che sta avvenendo negli ultimi tempi un po’ in tutti i Paesi, anche se in forme molto diverse e con diverse sensibilità e visibilità sembra confermare che l’agricoltura, la lavorazione della terra, la produzione, la distribuzione e il consumo degli alimenti, costituiscono settori in cui le due opzioni sommariamente richiamate si fronteggiano in una partita che pare aperta, nonostante la vistosa disparità delle forze. Al punto che, addirittura in termini strettamente economici, l’agricoltura cosiddetta “biologica”, sta conseguendo performance, in certi casi, superiori alle produzioni industrializzate, geneticamente modificate, ad alta intensità chimico-farmaceutica. Una situazione che spiega le forti campagne mediatiche sostenute da portatori di interessi particolarmente robusti, ma anche da chi si batte semplicemente in nome del progresso scientifico contro derive considerate oscurantiste e reazionarie. Si pone però anche il problema di una possibile convergenza tra agricoltura biologica e industria, così come di tante forme intermedie che mettono in discussione le contrapposizioni più rigide e astratte.
Insomma si deve prendere atto che l’agricoltura, le forme e i modi di lavorare la terra e di rapportarsi ad essa da parte della società che ne utilizza i prodotti per riprodursi sono diventati inopinatamente banchi di prova di nuovi e antichi conflitti ideologici, espliciti o mascherati. Un’evoluzione sorprendente rispetto agli scenari dominanti nel Novecento, nonché alla tendenza in atto su scala globale verso la concentrazione di masse crescenti di popolazione in agglomerati urbani, talvolta mostruosi, in cui si raccoglie ormai la maggioranza della popolazione mondiale. Ma paradossalmente i contadini dimostrano un maggior protagonismo da minoranza piuttosto che quando raccoglievano grandi maggioranze prive di peso politico, culturalmente emarginate. La nostra tesi è che ciò accade perché l’agricoltura è il comparto in cui si manifesta con maggiore incidenza il conflitto centrale della nostra epoca, quello tra economia industrializzata e ambiente, tra tecnica e natura. Non ci si deve far ingannare dalla scarsa attenzione che vi prestano i media, le forze politiche, gli opinion makers, oltre, ovviamente, tutte le correnti di pensiero tecnofilo, sia apologetiche che critiche nei confronti del capitalismo. La partita è sicuramente rilevante se non decisiva e gli attori in gioco sono molteplici e tra loro spesso dissonanti, anche nel campo delle agricolture alternative rispetto a quella mainstream, a sua volta contaminata da pratiche tradizionali e da aperture reali o solo pubblicitarie verso i temi della sostenibilità e dell’impatto ambientale (tema cavalcato dalla pubblicità nel rapporto coi clienti finali).
Un esame analitico delle principali opzioni alternative all’agricoltura industriale è uno degli obiettivi del Convegno ma bisogna ricordare che la crisi ecologica ha riattivato posizioni di critica dell’agricoltura di segno diverso, che hanno una lunga storia e che possono trovare oggi nuove formulazioni in termini tanto ecologici che scientifici. Detto in breve, si argomenta che la contrapposizione tra agricoltura e industria è fasulla, dato che proprio l’agricoltura è stata alla base della frattura originaria tra la specie umana e la natura, quindi proprio l’agricoltura ha forgiato i quadri mentali, le pratiche e i saperi che poi l’industria ha ereditato e enormemente potenziato. Inutile dire che in tal modo vengono evocati temi che hanno a che fare con la nascita delle civiltà e delle religioni (o della storia). Tornando però a orizzonti più limitati, ci limitiamo a sostenere, polemicamente, che il fondamentalismo ecologico, antiumanistico, si salda perfettamente con l’assolutismo tecnologico: in entrambi i casi, in nome della Natura o della Tecnica, non c’è posto per la specie umana, che deve essere reintegrata nell’ambiente o trascesa verso una qualche postumanità.
Il rapporto tra le 3 agricolture è di carattere storico ma anche dialettico. La posizione di chi organizza il Convegno, il che non vuol dire di chi vi prenderà parte, è che l’agricoltura ecologica, rispondente ai bisogni e alle necessità dell’oggi, debba raccogliere e superare sia l’eredità dell’agricoltura contadina che di quella industriale, cosa che sarebbe impossibile se il progetto della modernità, imperniato sulla distruzione del mondo contadino, si fosse realizzato secondo i tempi e i modi previsti dalle ideologie politiche otto-novecentesche. E’ necessario sicuramente aprirsi al futuro e fare i conti con gli esiti migliori della ricerca scientifica, quando ispirata alla salvaguardia della salute e dignità dei viventi, ma è altrettanto necessario riconoscere l’importanza del mondo contadino di ieri e di oggi per il ruolo che ha svolto nel passato e tutt’oggi nel nutrire e salvare il pianeta. L’agricoltura ecologica nasce dalla convergenza consapevole di passato e futuro e ha ottime carte da giocare per la qualità della vita degli individui (e del pianeta), a fronte della depressione e del nichilismo che rimbalzano dall’economia alla politica, minando le società e le culture. La sua affermazione e generalizzazione sono in grado di offrire sia lavoro che soddisfazione nel lavoro, realizzando un miglior equilibrio mente-corpo; di porre progressivamente al riparo le generazioni future dai guasti ambientali dell’attuale modello di vita; di restituire o rendere possibile la sovranità alimentare alle comunità umane, contribuendo a renderle capaci di costruirsi il proprio destino.
(Il presente testo è servito come base di discussione nell’organizzazione del Convegno, i cui atti saranno pubblicati in autunno 15).