Ambiente Tecnica Società. Rivista digitale fondata da Giorgio Nebbia

Alessandro Bellan (1966-2014)

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Alessandro Bellan è stato insegnante liceale e ricercatore presso il Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Studioso di Hegel e della Scuola di Francoforte, si è occupato di teoria critica, teoria del riconoscimento e delle trasformazioni del pensiero filosofico-sociale contemporaneo. Ha pubblicato i volumi: La logica e il ‘suo’ altro. Il problema dell’alterità nella Scienza della logica di Hegel (2002); Trasformazioni della dialettica. Studi su Th. W. Adorno e la teoria critica (2006); Teorie della reificazione. Storia e attualità di un fenomeno sociale (a cura di).

Altri materiali disponibili online:

– il profilo scritto da Lucio Cortella, molto utile anche per ricostruire l’insieme del percorso intellettuale di Alessandro:

http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2014/10/06/in-memoriam-alessandro-bellan-1966-2014/

– la bibliografia completa è disponibile sul sito Teoria Critica, curato da Alessandro stesso:

http://www.teoriacritica.it/bios/bio_ab.html

– su Prismi, blog di filosofia curato da Alessandro, si trovano anche materiali non pubblicati a stampa:

Ricordi di Alessandro Bellan

“Alessandro l’ho visto per l’ultima volta a Padova, in un bar vicino all’università, l’anno scorso. Sarà stato luglio, lui era lì in una pausa di un convegno, io con la famiglia in gita. Grandi saluti, risate, abbiamo parlato di politica (che è spesso l’equivalente del calcio o del tempo, e sempre più l’equivalente meno ricco del calcio e meno vero del tempo), di questo PD che è ormai invotabile (il PD è un po’ come le mezze stagioni), ah ma è stata l’ultima volta, ah tu non lo voti da un po’? Beh non è che non votarlo… eh in effetti, siamo sempre là… ma sai si spera ogni volta che, ma stavolta… Invece sai che là, davanti al Pedrocchi c’era un tizio che usava una piccola pedana per fare discorsi e far parlare la gente che si fermava, lui diceva cose furbe ma fasce, tipo “questa Italia fatta dai partigiani, si dice… eh ma quanti erano i partigiani? Pochi, pochissimi, in realtà l’Italia non è mai stata fatta, siamo noi adesso che dobbiamo farla…”, il tizio portava la maschera Occupy Wall Street, gli ho detto che doveva mettersi la maschera di Pulcinella, comunque qua ormai può succedere di tutto, ah beh ormai sì…

In verità, sarebbe da un po’ che non succede niente.

Diciamo a partire dalla mancata rivoluzione in Occidente dopo la Rivoluzione Russa? D’accordo, qualche partigiano qua, qualche partigiano là, il Terzo Mondo si decolonizza ma per diventare colonizzatore o Quarto Mondo, a seconda, da noi fino agli Ottanta c’è un grande partito comunista che organizza masse di operai e intellettuali che d’estate si dividono, i primi direzione Capalbio i secondi Rimini (io 9 anni di Rimini). In quegli anni quasi rivoluzionari crescono degli studenti quasi quasi rivoluzionari, bravi eh, che leggono Gramsci nonostante Napolitano. Quelli della generazione prima sono spariti, morti giovani o assorbiti da cooperative e poste. Quelli della generazione ancora prima ci aspettano all’Università. Da Gramsci si passerà ad Adorno, da Adorno a Habermas, da Habermas a un po’ tutti, in certi casi ad Adorno – inverno, primavera, estate, autunno, inverno.

L’articolo scritto da Alessandro su Adorno per il libro sul comunismo eretico1Cfr. “La possibilità dell’altrimenti. Adorno e la teoria critica della società”, in L’Altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico, vol. 2: Il sistema e i movimenti, a cura di P.P. Poggio, Jaca Book, 2011, pp. 471-489. è davvero bello, anche se non fa primavera.

Non succede niente e se qualcosa succederà sarà a prescindere da noi, questo almeno ci è stato chiaro da quasi subito.

Di questo piccolo noi, alcuni aspettano all’università, altri si arrangiano in varianti delle cooperative, dove si trovano a combattere contro compagni CGIL o chierici ciellini, non a caso abbonati congiunti pluridecennali a Rimini – lato spiaggia, lato festival.

Nel frattempo, nella solitudine senza epica dei lavoratori intellettuali umili, alcuni muoiono.

Pagheremo caro, pagheremo tutto.

Anche se il tutto è niente, anzi il falso.

Il PD non lo voto io per te”.

Questo era il mio ricordo di alcuni mesi fa. I giudizi degli amici-lettori sono stati alterni, per cui, per quanto consideri il mio testo parziale ma anche per questo vero, vado avanti coi ricordi.

Sto partendo da Vienna in treno, ieri sera ho visto un “Café Ulrich” e ho conosciuto una Agatha (pur polacca), oggi rileggo la conclusione dell’introduzione di Alessandro a «Teoria della reificazione»2Cfr. A Bellan (a cura di), Teorie della reificazione. Storia e attualità di un fenomeno sociale, Mimesis, 2013., gli atti di un seminario veneziano durato vari anni, dove viene citato un passo di L’uomo senza qualità ritenuto da lui più profetico oggi di quanto fosse stato a inizio secolo scorso: «S’è creato un mondo di qualità senza uomo, di esperienze senza colui che le vive, e paradossalmente sembra quasi che l’uomo non possa più avere alcuna esperienza privata e il gradevole peso della responsabilità personale debba stemperarsi in un repertorio di possibili significati. Probabilmente la dissoluzione di quel sistema antropocentrico che per tanto tempo ha tenuto l’uomo al centro dell’universo, ma che già da secoli va declinando, ha finalmente toccato anche l’Io, giacché credere che in un esperienza l’importante sia il viverla, e in un’azione il compierla, incomincia a sembrare un’ingenuità alla maggior parte degli uomini». Ero a Vienna (ormai sono a Bratislava) per una cosa di Europeana, una piattaforma digitale che aggrega contenuti di biblioteche, archivi e musei europei – una delle molte centrali di moltiplicazione se non esternalizzazione delle esperienze, ieri hanno presentato VanGoYourself, un’iniziativa tramite cui i visitatori del Rijk Museum possono diventare attori di quadri famosi (a proposito di esperienze mie tue o di chissà, mi chiedevo cosa direbbe van Gogh, taglierebbe un orecchio a tutti forse).

Più che ingenuo credere al valore della singola esperienza vissuta, mi è faticoso unificare tutte le esperienze che si succedono, non parliamo poi dello sforzo necessario per dividerle in buone o cattive. Mangiare una sacher all’Hotel Sacher aveva tutto per essere un’esperienza per me qualificante, ma alla fine… che differenza fa? Con quei prezzi poi. Fare il blasé da povero viene facile.

Invece quell’incontro nel bar di Padova ha fatto differenza. Alla fine, avere una anche solo discreta riserva di esperienze di questo tipo, preferibilmente non solo di ultime luci, mi pare sufficiente per una persona. Quando toccherà a me, cosa me ne farei di milioni di esperienze vissute ortogonalmente? Già un paio saranno forse troppe, che poi anche averne un paio non è ovvio.

Comunque il punto dell’introduzione sta nel titolo: «Teorie della reificazione o reificazione della teoria?». In parole molto povere: qua ragioniamo di teorie che criticano il trasformarsi delle relazioni umane in relazioni tra cose (a causa del capitalismo, degli occhi degli altri, dipende dagli autori), ma facciamo questo in un contesto dove anche il fare teoria si è reificato – invece di criticare stando dalla parte degli uomini, è diventato a sua volta cosa: «La teoria, in tal modo, fa di necessità virtù: si reifica – o almeno si formalizza – per tenere o rendere conto della frammentazione o disarticolazione dell’esperienza sopra ricordata; sterilizza la critica, proclamandola superflua o ineffettuale, per non dover sottoporsi alle obiezioni che ogni critica solleva, in primis quella del dover essere; infine si mondanizza, per non dar fastidio al mondo e per esservi meglio accolta. Il tutto può essere lasciato comodamente allo spirito del tempo, senza che questo muti in modo significativo comportamenti e coscienze e, soprattutto, il tempo stesso».

Non reificare la teoria, cioè continuare a fare teoria critica, significava per Alessandro anzitutto continuare a studiare i classici della teoria critica. L’ho sentito anche parlare di cinema e addirittura di orgoglio coatto, ma l’atteggiamento di fondo era quello della ricerca di una misura critica da ottenersi attraverso un previo ritorno alle fonti. Questa fedeltà ai classici si riflette nella scrittura, piuttosto scultorea e attraversata da un gusto per la sintesi potente e, talora, per la frase ultra-concentrata (veri e propri motti: ricordo un «blocco critico» per descrivere l’incapacità di assumere atteggiamento critico, dove «blocco» mi rimanda allo stato delle caldaie quando non vanno più, o in questa introduzione il ben più sillabato «oggettivazione inertizzante»). Forte l’influenza anche stilistica di Cortella, che però parte da una base più briosa, o più nervosa, Alessandro era più baritonale e solenne.

Sono nel frattempo arrivato a Charleroi, dopo aver attraversato Bratislava senza scambiare una parola con nessuno a parte un gruppo di tifosi del Glentoran, una delle 4 squadre di Belfast, impegnata ieri proprio a Bratislava (three-nul, mi dice la vicina; for you? Dice sconsolatamente di no). Se non ci fossero i tifosi, viaggiare sarebbe quasi sempre un’attività del tutta muta – quando si dice “reificazione”.

Tra un po’ parte l’autobus per Lille, e sarà Francia. In realtà sono già in Francia perché in aereo ho riletto dei paragrafi dell’articolo di Alessandro e Cortella su Sartre. Mi ha fatto davvero pensare: Sartre, francesissimo, ha centrato tutta la sua opera giovanile sul tema dello sguardo dell’altro, considerato inaggirabile fonte di perdita di sé – perché io posso accedere a me solo attraverso gli occhi dell’altro, ma gli occhi dell’altro mi distanziano dal mio vero essere (che c’è, ma resta inaccessibile, essendo qualcosa di non oggettivabile). Ma allora, mi ripeto mangiando le patatine fritte belghe, il velo, proibitissimo in Francia, è un istituto sartriano, più che islamico: ha senso anche se non imposto da norme o padri-padroni, perché sottrae per quanto possibile dagli occhi degli altri, occhi divenuti oggi, nelle smart cities, ben più invadenti e angoscianti perché non si parla solo di occhi biologici, ma anche di quelli di telecamere, smartphone etc. Io mi conosco attraverso il modo in cui gli altri mi vedono; ma il loro sguardo costituisce una degradazione del mio vero io, perché loro fissano qualcosa che non è fissabile e oggettivabile – appunto, mi reificano; ma allora, perché continuare a espormi agli occhi altrui? “Vestirsi”, dice sempre Sartre in citazione, “significa dissimulare la propria oggettità, reclamare il diritto di vedere senza esser visto, cioè di essere puro soggetto. Per questo il simbolo biblico della caduta, dopo il peccato originale, è il fatto che Adamo ed Eva ‘capiscono di essere nudi'”. Dopo milionate di sguardi inevitabilmente degradanti, è anche logico che una (ma in principio, anche uno) dica basta e si consegni al buio, credendo o sperando che là dentro, tra sé e sé, o Lui, le cose cambino. Probabilmente sovrainterpreto.

Sia come sia, ormai sono a Lille, mi resta da prendere il treno per Douai.

In treno da Milano parlammo una volta del cinema di Pasolini, presente Cortella. In realtà, non ci fu gran dialogo: io avevo un punto di vista diciamo pre-teorico, mentre Alessandro discuteva di “Teorema” in quanto teorema, appunto, sulla civiltà del consumo. Proprio non ero preparato. Alessandro era fondamentalmente uno studioso serio: studiava cose serie in modo serio, ne scriveva e parlava in modo serio. Quello che mi colpiva è che questi temi e questo atteggiamento si radicavano in una personalità direi gioviale, senza che si potesse parlare di “scissione”. Era sempre lui, da una parte e dall’altra, e l’una parte portava almeno il ricordo dell’altra.

Eccomi sul treno per Douai, non faccio a tempo a scrivere del saggio di Alessandro su Lukács, dove si cita Tertulian (che ha scritto il saggio su Lukács nel Comunismo eretico). Alessandro mi aveva detto che quell’articolo non gli era piaciuto granché, credo perché finiva con il difendere pure il Lukács del periodo stalinista, dovrei rileggere.

Non c’è tempo, arriva Aurelia con il bambino, in quel bar a Padova c’era anche lei e si era stupita del fatto che io trovo gente che conosco un po’ dappertutto (una volta sempre con lei avevo trovato Italo Testa alle Cinque Terre). A Douai non troviamo nessuno e andiamo in macchina a casa, la casa “semi-borghese” (nell’annuncio c’era scritto proprio così) che abbiamo pagato, ovviamente caro.

Comunque a casa Capovin un posto per te e le tue cose c’è e ci sarà.

.

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