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La condizione palestinese. Sradicamento/radicamento

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La terra di Palestina è l’oggetto di un antico desiderio di radicamento divenuto occupazione coloniale. E’ quindi uno sradicamento. E di uno sradicamento – quello dei palestinesi, gli scacciati e i rimasti in ogni modo umiliati -, che diventa richiesta e, paradossalmente, marcia per un vero radicamento.

La storia sembra dialettica – dunque. Una dialettica tragica, però. Gli sradicati per eccellenza, gli ebrei, credono di essersi radicati nella loro Terra Promessa. Ma questo radicamento illusorio li rende più sradicati di prima. La dinamica storica ha fatto del moderno Stato d’Israele, perfettamente integrato nel capitalismo mondiale, un agente di sradicamento in quella stessa terra in cui i sionisti volevano finalmente radicarsi per sempre. La civiltà del capitale, infatti, è per eccellenza sradicatrice, essendo il suo orizzonte antropologico la merce e il denaro, il quale, come osserva Simmel, trasforma ogni fine in mezzo, ogni persona o cosa in una funzione di scambio.

Dopo l’esperienza del viaggio in Palestina, mi è ritornata con più forza la meditazione di Simone Weil su radicamento/sradicamento del 1942 ( L’enracinement, pubblicato per la prima volta da Camus nel 1949 presso Gallimard). La parte che a me più interessa è quella sullo sradicamento.

Simone considera lo sradicamento la

” malattia più dannosa delle società umane, perché si moltiplica da se stessa. Esseri veramente sradicati non hanno che due comportamenti possibili: o cadono in un’inerzia dell’anima quasi equivalente alla morte … o si gettano in un’attività tendente sempre a sradicare, con i metodi più violenti, coloro che non lo sono ancora o che non lo sono del tutto ” (ivi, p. 48 trad. mia).

Qui è prefigurato lucidamente proprio il comportamento dello stato d’Israele nei confronti dei palestinesi, di cui i coloni sono la punta di lancia nella progressiva consapevole erosione della presenza palestinese, appoggiata o tollerata internazionalmente. La loro invincibile brama di radicamento in una terra mitologica è pura espressione del proprio sradicamento e, quindi, della feroce volontà di sradicare chi in quella terra abitava. C’è stato Auschwitz, che sembra poter giustificare ogni comportamento da parte dello Stato dì Israele. Golda Meir diceva: dopo Auschwitz, gli ebrei possono fare ciò che vogliono.

Il capitalismo ‘globale’ usa lo sradicato desiderio ebraico di radicamento per devastare la Palestina. Non perché voglia devastare in particolare la Palestina – nemmeno ricca di materie prime, ma luogo geopolitico importante nell’importantissimo Medio Oriente -, bensì perché devasta tutto quello che tocca. E’ la sua storica mission (per usare un termine di moda). Trasformare la vita in merci e denaro.

E i palestinesi, proprio dentro la lotta contro lo Stato d’Israele e il sionismo, riaffermano il loro legame con una terra intesa come terra madre, come terra storica, come luogo delle radici. E’ questo, almeno, quello che ho creduto di ricevere dai palestinesi che ho incontrato. Mi sembra che in loro, pur islamici con tutto quel che consegue in termini di organizzazione familiare e sociale, prevalga, attraverso l’inesausta richiesta dei loro reali diritti storici, una esperienza del luogo come concreta fonte di vita. L’intensità dell’esperienza di una resistenza all’annullamento psichico se non fisico ha prodotto una nuova condizione umana che può scardinare dall’interno un’antica cultura. Questo cambiamento difficile da capire per un estraneo, per un occidentale, è ben raccontato in Ogni mattina a Jenin (Feltrinelli, 2011), romanzo a sfondo autobiografico di una donna palestinese prima rifugiata poi profuga negli Stati Uniti dopo la guerra dei sei giorni.

“[Gli occidentali] Vivono in sfere superficiali, e raramente spingono le emozioni umane nelle profondità in cui viviamo noi. … Pensa alla paura. Quella che per noi è semplice paura per gli altri è terrore, perché ormai siamo anestetizzati dai fucili che abbiamo continuamente puntati contro. E il terrore che abbiamo conosciuto è qualcosa che pochi occidentali proveranno mai. L’occupazione israeliana ci ha esposti fin da piccoli a emozioni estreme, e adesso non possiamo che sentire in maniera estrema.

Le radici del nostro dolore affondano a tal punto nella perdita che la morte ha finito per vivere con noi, come se fosse un componente della famiglia che saremmo ben contenti di evitare, ma che comunque fa parte della famiglia. La nostra rabbia è un furore che gli occidentali non possono capire. la nostra tristezza fa piangere le pietre. E il nostro modo di amare non è diverso ” p. 233.

Alla luce dell’esperienza del mio primo viaggio in Palestina, torno, dunque, a rileggere alcuni passi de L’enracinement.

Un primo punto presso cui mi soffermo è il concetto di obbligo (obligation). Scrive Simone.

” L’oggetto dell’obbligo … è sempre l’essere umano come tale. C’è obbligo verso ogni essere umano per il solo fatto che è un essere umano, senz’altre condizioni “.

Questo concetto permette di superare l’ambigua nozione di diritti umani. Si connette per via analogica – metodo fondamentale in Weil – a quella di bisogno, di bisogno vitale “analogo alla fame“. Tutti gli obblighi incondizionati nei confronti dell’essere umano derivano senza eccezione dai suoi bisogni vitali e hanno “un ruolo analogo al nutrimento” (12-13, parafrasi): sono cioè costitutivi.

” «Tu non m’interessi». E’ una parola che un uomo non può indirizzare a un altro uomo senza commettere una crudeltà e ferire la giustizia ” (La personne et le sacré, Gallimard 1957, p. 11).

L’obbligo nei confronti di un essere umano implica la nozione di rispetto. Simone ne indica il significato in quest’altro testo, scritto nello stesso periodo londinese. Rispetto è accogliere

quella parte profonda, infantile del cuore” “che si aspetta invincibilmente che le si faccia del bene e non del male“. ” Tutte le volte che sorge nel fondo d’un cuore umano il lamento infantile … «perché mi si fa del male?», vi è certamente ingiustizia (ivi, 13).

Quest’accoglienza fondamentale implica “un’attenzione tenera e divinatrice” (ivi, 15).

Simone distingue fra “la persona” e “quest’uomo, molto semplicemente“. Nella mia lettura, ciò significa distinguere fra l’identità o le molteplici identità che un individuo può assumere nel corso della sua esistenza e la sua singolarità, che va oltre la ‘persona’ (etimologia: maschera) o le persone, in quanto unicità essenzialmente legata alla condizione temporale: il singolo è colui che esiste un’unica volta soltanto. E’ questo che lo rende unico e degno di assoluto rispetto. Ogni suo istante è unico. Chi gli fa del male offende l’unicità che è in lui e perciò offende la condizione umana caratterizzata appunto dall’unicità di ogni essere umano nella sua singolarità, il cui apporto all’insieme degli esseri umani è proprio in ragione di questa. Ogni essere umano è, o più esattamente, può essere, una novità assoluta nella storia del mondo e della terra.

L’obbligo esprime la qualità intrinsecamente relazionale della soggettività, in un senso analogo alle nozioni butleriane di vulnerabilità ed esposizione (elaborate peraltro in un ben diverso contesto culturale). L’analogia con la fame esprime molto bene il carattere intrinseco della relazionalità, e mostra anche il rapporto con l’ambiente entro cui prendono forma e vivono tutti i viventi, fra cui gli esseri umani.

” Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana. E’ uno dei più difficili a definire. Un essere umano ha una radice mediante la sua partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività che conserva vivi certi tesori del passato e certi presentimenti d’avvenire ” (L’enracinement, 45).

In Palestina tutto questo è stato ed è violato e radicalmente negato, ma insieme riaffermato con tenace volontà di vita degna di questo nome dai palestinesi. Ciò rimanda appunto alla profondità che ha per Simone il radicamento, che è sempre radicamento in un luogo, che vuol dire terra, casa, storia tramandata, corpo, lingua.

” La perdita del passato collettivo o individuale è la grande tragedia umana e noi abbiamo gettato il nostro come un bimbo lacera una rosa. E’ prima di tutto per evitare questa perdita che i popoli resistono disperatamente alla conquista” (ivi, 106).

Anche, per ipotesi, la più radicale delle rivoluzioni non può prescindere dal nutrimento del passato. Non esiste la novità storica assoluta. Trovo una conferma narrativa alle riflessioni di Simone Weil in Ogni mattina a Jenin.

” Fu così che, otto secoli dopo la sua fondazione, ad opera di un generale dell’esercito del saladino, nel 1189 d. C., a ‘Ain Hod non si videro più bambini palestinesi. Yehya cercò di calcolare il numero di generazioni ch erano vissute e morte nel villaggio e arrivò a quaranta. […]

Yehya calcolò quaranta generazioni di vite, ora spezzate. Quaranta generazioni di nascite e funerali, di matrimoni e di danze, di preghiere e ginocchia sbucciate. Quaranta generazioni di peccati e carità, di cucina, duro lavoro, ozio, di amicizie, ostilità e accordi, di pioggia e corteggiamenti. Quaranta generazioni con i loro indelebili ricordi, segreti e scandali. Tutto spazzato via dal concetto di diritto acquisito di un altro popolo, che si sarebbe stabilito in quello spazio rimasto vuoto e l’avrebbe proclamato – con il suo patrimonio di architettura, frutteti, pozzi, fiori e fascino – retaggio di forestieri ebrei arrivati da Europa, Russia, Stati Uniti e altri angoli del mondo.

Nel dolore di una storia sepolta viva, in Palestina l’anno 1948 andò in esilio dal calendario, smise di tenere il conto di giorni, mesi e anni per diventare solo una foschia infinita di un preciso momento storico. I dodici mesi di quell’anno si riorganizzarono e turbinarono senza meta nel cuore della Palestina”. (Susan Abulhawa, Ogni mattina a Jenin, Feltrinelli 2011, pp. 50-51).

Il tempo individuale si nutre del tempo storico collettivo di una cultura. Ma è necessaria una precisazione. Il tempo storico è molteplice, non è lineare, come retrospettivamente sembra nella narrazione dominante che influenza anche le memorie individuali. Questa linearità è frutto di cancellazioni volute e rimozione violente. Il tempo si apre sempre come un molteplice di possibilità, di cui poi una si realizza e questa è sempre (o quasi) quella del potere. Le altre vengono spesso represse brutalmente, soppresse o rimosse. La linearità del tempo storico è la linearità del potere. La storia è piena di possibilità che non sono riuscite o non hanno potuto realizzarsi. Il rapporto con il passato è per me soprattutto rapporto con le possibilità diverse scartate dalla dominante storica, con gli immaginari rimossi, perduti o dimenticati che possono nutrire un rapporto con il futuro diverso da quello imposto dal dominio. Vediamo in Palestina come il tempo storico israeliano – che anzi tende sempre più a connettersi a un tempo mitologico, addirittura all’eterno -, vuole negare il tempo storico palestinese, legato ai luoghi. La conquista dei luoghi, che vengono trasformati – case e colture abbattute, strade nuove, insediamenti massicci, muri – è conquista del tempo. Del resto spazio e tempo sono inseparabili. Il tempo si coglie nello spazio, la memoria è legata a figure.

Chi ha visto il bellissimo documentario This is my land … Hebron di Giulia Amati e Sven Natanson avrà colto nel volto dei coloni, delle donne, dei ragazzini, una rabbia che ne deforma i lineamenti, un odio che cancella i volti. Weil ritiene che il nazismo sia un tipico fenomeno reattivo di sradicamento. Lo stesso si può dire per il sionismo attuale – è questo l’elemento comune fra i due – la cui forma più violenta riguarda solo una minoranza della popolazione ebraica, ma che ne coinvolge la maggioranza. I circa 600 coloni di Hebron vi sono illegalmente insediati, secondo le stesse leggi dello Stato israeliano. Tiranneggiano, tuttavia, e umiliano quotidianamente, appoggiati dall’esercito che formalmente è lì per impedire scontri, una popolazione di circa 160.000 palestinesi. Il comandante della brigata che consente ai coloni di spadroneggiare e li aiuta non si opporrà mai, se vuol continuare la sua carriera.

Una colona ebrea di Hebron, che compare nel documentario, fa un’affermazione esemplare. Dice con la calma di chi conosce per esperienza il carattere performativo di certe dichiarazioni: “a Hebron non troviamo domande, ma solo risposte”. Frase chiarissima a indicare un immaginario e un pensiero mitologico-religioso che si fa politica. Si tratta di un modo d’essere, che qui è espresso in termini radicali, diffusissimo, con molteplici gradazioni d’intensità, anche in forme ‘laiche’ (nei movimenti politici, ad esempio), spinto all’estremo nei cosiddetti fondamentalismi, che, a mio parere, risentono della distruzione di forme identitarie vecchie e meno vecchie, operata dal capitalismo, dalla religione del denaro. Questo atteggiamento rimanda al buco nero del luogo di un’identità collettiva e quindi individuale originaria, data una volta per tutte. Ma, allora, il luogo non è terra, acqua, ulivi, case, ricordi, è un mero rimando a questa potenza assoluta, eterna, trascendente, che lo ha in tal modo eletto come portatore dei suoi segni. Essendo il segno visibile di una matrice identitaria assoluta, il luogo diventa esclusivo non può essere ‘profanato’ dall’altro. Il muro che spezza la terra di Palestina ne è la manifestazione insieme simbolica e fisica. E’ come se il superstite muro del pianto generasse queste truci muraglie di cemento per tenere lontani gli ‘altri’. Il luogo così diventa illusorio, mero supporto fisico di una simbolica immaginaria per cui, quanto più è fragile questo rapporto, tanto più genera violenza. Il radicamento illusorio genera sempre dominio e violenza.

L’affermazione della colona ebrea mi ha fatto subito venire in mente un pensiero, non opposto ma alternativo, di Carla Lonzi: bisogna essere all’altezza di un universo senza risposte. Qui abbiamo una grande apertura mentale, un atteggiamento d’ascolto e d’accoglienza, un’uscita dagli schemi identitari; abbiamo una esperienza del tempo che apre il passato al futuro, come è proprio del pensiero femminista che trova nella storia delle donne i possibili per immaginare un futuro in cui il rapporto uomo/donna venga radicalmente trasformato e con ciò la sessualità, gli affetti, le relazioni, in generale, oltre ogni fissazione; abbiamo l’accettazione del rischio dell’imprevedibile, della propria vulnerabilità che si trasforma in forza. Là, invece, abbiamo il rimando a un passato remoto in cui tutto è già stato deciso, la chiusura in un’identità mitologica comunitaria in cui il singolo è assorbito, una concezione del tempo imprigionata in un passato come stigma dell’eterno.

Il dato di fondo è l’accettazione del rischio mortale connesso all’esistenza come fascio di possibili, all’apertura al futuro sempre imprevedibile o la chiusura in un passato che non deve mai passare e che si arma per questo.

In questi pensieri simmetrici che si escludono a vicenda, come la luce e il buio, compaiono due diverse concezioni del luogo. Viviamo sempre in un luogo che può anche essere un non luogo, una mancanza invece che una presenza. Il luogo è una sintesi singolare di tempo e spazio, caratterizzato dalla presenza, dalla possibilità per gli umani (e non solo) di presentarsi e riconoscersi. Il luogo deve essere l’ambiente della relazione, del riconoscimento, come l’esser-insieme dei corpi, che stanno sulla terra, bevono l’acqua, si nutrono ciò che la terra curata offre, guardano il cielo, il luogo come matria dell’immaginario perché da esso riceve le sue metafore esistenziali che poi diventano concetti.

Oppure può essere e spesso è un non luogo come mero supporto d’una fantasia di fissità, cioè di morte, di ritorno nel grembo alla ricerca di una condizione d’immobilità, di sicurezza. Ma soprattutto oggi è il non luogo di una mera occasione di profitto, per l’estrazione di materie prime o comunque merci.

Il viaggio in Palestina mi ha fatto pensare che i palestinesi, malgrado la loro cultura a dominante islamica, malgrado il loro nazionalismo di rimessa, siano attori e portatori del luogo nel suo pieno significato.

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