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Breve storia ambientale della mucca

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Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato.”
Antoine de Saint-Exupéry

All’inizio degli anni Duemila David Rohl, un archeologo inglese noto per le sue teorie non convenzionali sulla cronologia storica del Vicino Oriente, sostenne di avere localizzato il paradiso terrestre.

L’Eden di cui parla la Bibbia, secondo il professor Rohl, sarebbe situato in una fertile valle chiamata Adji Chay, fra i monti Zagros del Kurdistan iraniano e il monte Sahand, a nord ovest di Teheran, in Iran. Nonostante le critiche di quanti fecero notare che l’Eden è soltanto un luogo della fede, l’area geografica tra i monti Zagros e le valli del Tigri e dell’Eufrate, la cosiddetta “Mezzaluna fertile”, durante quella fase cronologica dell’Età delle Pietra successiva all’ultima glaciazione chiamata Mesolitico (circa 12.000 anni fa), fu effettivamente per i nostri antenati cacciatori e raccoglitori un vero paradiso. Come scrive lo storico delle scienze agrarie Antonio Saltini, in quell’area, al termine dell’ultima glaciazione, “crescono naturalmente fichi, melograni, pistacchi, mandorle, uva e olive, nella steppa circostante branchi di pecore, capre, maiali, asini e bovini selvatici pascolano tra i cereali”1.

Come tutti sanno fin dai primi anni di scuola, fu proprio in questo contesto eccezionalmente favorevole che si svolse quel lento processo di domesticazione di vegetali e animali “utili” all’uomo che portò, dal Mesolitico al Neolitico, alla diffusione della coltivazione e dell’allevamento, fenomeno che rappresenta la prima rivoluzione agraria, detta anche Rivoluzione neolitica.

Con il racconto del conflitto tra Caino e Abele, i figli di Adamo ed Eva, il primo agricoltore stanziale e il secondo pastore nomade, il contrasto tra l’attività di coltivazione e quella dell’allevamento è indicato dalla Bibbia come atto primigenio della storia dell’uomo. Pecore e capre, gli ovini in generale, sono stati i primi ruminanti ad essere addomesticati, ed effettivamente il pascolo brado di pecore e capre, se non gestito in maniera corretta, mal si concilia con la coltivazione dei campi.

Molti secoli dopo l’addomesticamento delle pecore (avvenuto nel IX millennio a.C.) e delle capre selvatiche (avvenuto nel VIII millennio a.C.), nel VII millennio a.C. fu addomesticato l’”uro”, il Bos taurus primigenius, che diede origine al Bos taurus, conosciuto semplicemente come “toro” o “bue”, la cui femmina, “vacca”, è spesso chiamata in Italia con il termine dialettale toscano “mucca”.

Dalla rivoluzione neolitica al Medioevo: venerazione, trazione, letamazione

L’invenzione dell’aratro a traino bovino risolse il contrasto originario tra l’attività di allevamento e quella di coltivazione. Come è noto, lo sviluppo di questo nuovo tipo di agricoltura basata sull’unione simbiotica tra l’allevamento dei bovini e la coltivazione di cereali permise intorno al IV millennio a.C. la nascita delle prime popolose città mesopotamiche, come Babilonia.

L’addomesticamento dei bovini e il loro utilizzo come animali da tiro fu quindi all’origine delle civiltà urbane, tanto è vero che una delle figure più ricorrenti nei miti di fondazione delle più antiche città è il “bue fondatore”. Nelle religioni antiche, da quelle dei sumeri, degli antichi egizi, dei cretesi, dei fenici, dei greci, degli italici, degli etruschi, dei romani ritroviamo costantemente il toro e la vacca rappresentati, insieme al sole e alla luna, come veri e propri dei creatori e dee creatrici del cosmo e della vita. Il re degli dei e divinità protettrice dell’antica Babilonia, Marduk, in sumero era chiamato amar tur, che letteralmente si traduce come “vitello del sole” o “giovane toro solare”. Gli egizi credevano che il dio toro Api condividesse il regno celeste con la dea vacca Hator, famoso è il culto taurino della civiltà cretese, il dio fenicio Baal si trasforma in toro per accoppiarsi con la sua amante Anat che si era trasformata in vacca, Dioniso il dio greco della vita e della fertilità era a volte detto “toro” e Zeus si trasforma in toro per rapire la dea lunare Europa, gli antichi italici adoravano il dio toro Marte e alcuni avevano il vitello come animale totemico, il dio etrusco Tagete esce dalla terra per un colpo di vomero, la religione ufficiale tra i romani prima della cristianizzazione era il culto di Mitra, divinità della luce, amalgama di diversi culti bovini praticati in Medio Oriente, Africa, Asia.

La forza, la fertilità, l’abbondanza, la vita, la luce, il sole sono elementi ricorrenti delle religioni delle prime civiltà urbane basate sui bovini. Il legame tra questi animali e il cosmo era spesso rappresentato attraverso la forma delle corna che richiamavano ora la luna (nel caso della vacca) ora il sole (nel caso del toro). La tradizione antica dello zodiaco, individua la costellazione del Toro nella zona delle Pleiadi, l’ammasso stellare più luminoso della volta celeste, notissimo fin dalle epoche più antiche.

Alla rilevanza religiosa e simbolica del toro e della vacca, corrispondeva il legame pratico ed economico che si era andato creando, grazie all’invenzione dell’aratro, tra i bovini, i cereali e l’uomo. L’aratro trainato dai buoi accoppiati in doppio giogo fu il primo strumento per la lavorazione della terra indipendente dall’energia umana, innovazione che permise l’aumento delle produzioni cerealicole e della popolazione umana e la nascita delle città antiche. Oltre all’aratro i bovini tiravano anche i carri e, in aggiunta alla forza motrice, fornivano una gamma ampia di cose utili:

La femmina potrà anche produrre un po’ di latte, e quando sarà troppo vecchia per lavorare e figliare, verrà macellata e mangiata. Ogni parte della carcassa trova un pronto impiego: la carne e il midollo si mangiano; le corna, le ossa e la pelle servono per produrre manufatti, armi e indumenti; dal grasso si ricava sego per l’illuminazione, gli zoccoli si usano per produrre gelatina e colla; senza contare che quando l’animale è ancora vivo, il suo sterco costituisce una parte fondamentale del ciclo agricolo.2

Relativamente al latte, passarono tre millenni dalla domesticazione della vacca (VII millennio a.C.) al consumo di latticini (IV millennio a.C.). Il problema, almeno per le popolazioni delle prime antiche civiltà dell’Egitto e della Mesopotamia, era la difficoltà nella digestione del lattosio, dovuta alla mancanza negli adulti dell’enzima della lattasi. Queste popolazioni dovettero quindi attendere diversi secoli prima di imparare le tecniche di fermentazione e di coagulazione del latte, grazie alle quali il lattosio viene trasformato in acido lattico, ed iniziare quindi a consumare latti fermentati, cagliate, burro e formaggi.

È importante sottolineare che l’origine della fabbricazione del formaggio e del burro è più legata alla domesticazione dei bovini piuttosto che a quella degli ovini e dei caprini, allevati nelle prime civiltà urbane principalmente per la loro carne, in sostituzione di quella di gazzella.

La più antica rappresentazione conosciuta della lavorazione del latte, il “fregio della latteria”, è un bassorilievo sumerico databile all’inizio del III millennio a.C. in cui è rappresentata da una parte la mungitura di due vacche legate ai rispettivi vitelli, e dall’altra parte dei sacerdoti-casari impegnanti nelle varie fasi di lavorazione del latte. La mungitura in presenza del vitello è ancora in uso per le varietà più antiche di bovine, che non danno latte in assenza del vitello.

A partire dai Sumeri, il consumo di latticini ottenuti da latte vaccino e poi anche da latte caprino e ovino, si diffuse in tutte le altre civiltà antiche.

Nella Repubblica, Platone prescrive ai membri della sua città ideale, affinché vivano nella moderazione, una dieta basata sul formaggio, olive, legumi come fonti di grassi e proteine: “Produrranno cereali e vino, e si nutriranno ricavando farine dall’orzo e dal frumento, impastandone eccellenti focacce e cuocendone pani. Come companatico avranno sale, olive e formaggio, e faranno bollire cipolle e ortaggi. Avranno fichi secchi, ceci e fave, e abbrustoliranno al fuoco bacche di mirto e di faggio, che accompagneranno con una moderata assunzione di vino…”

Mentre il consumo di formaggi e di burro ottenuti dal latte vaccino divenne presto una consuetudine, il consumo di carne bovina in generale fu riservato esclusivamente ai riti religiosi. Nell’antica Grecia nemmeno i sacerdoti potevano sacrificare e mangiare il bue aratore.

In epoca antica, il livello più alto del modello di agricoltura basata sui bovini venne raggiunto nell’Impero romano. Nel suo trattato De re rustica, Lucio Columella (4-70), forse il primo agronomo della storia vissuto all’inizio nel I secolo d.C., racconta di un’epoca di grandi avanzamenti per l’agricoltura e l’allevamento. Per Columella il caposaldo dell’attività agricola è la ricostituzione della fertilità del suolo “con letamazioni frequenti e misurate, che dobbiamo somministrare al tempo opportuno”. Mentre in tutte le agricolture antiche, e nella stessa agricoltura romana, il problema della perdita di fertilità dei suoli coltivati a cereali veniva risolto con la pratica del maggese, ovvero con l’aratura del terreno lasciato a riposo per uno o due anni, con Columella, il cui sistema agronomico rappresenterà per quasi i due millenni successivi il punto di riferimento teorico obbligato della pratica agricola, divenne chiara ed evidente, oltre all’utilità della rotazione tra cereali e leguminose, l’importanza fondamentale della concimazione con il letame decomposto proveniente dall’unione tra le deiezioni bovine e il materiale usato come lettiera, normalmente paglia ottenuta dai fusti dei cereali.

Secondo Columella, le razze bovine per eccellenza rimangono quelle da lavoro: quelle dell’antico ceppo italico che dai bovini (grigi) Podolici (o meglio Pugliesi, Lucani, Calabresi, Abruzzesi) porta fino ai a quelli Romagnoli, Chianini, Marchigiani, animali forti e possenti ma lenti nello sviluppo e scarsi nella produzione di latte, sufficiente a mala pena per i vitelli. A Roma, era soprattutto il latte ovino, in particolare di pecora, ad essere trasformato in formaggio.

Nelle aziende romane l’unione simbiotica tra coltivazione e allevamento fu sancita dalla pratica delle colture foraggere, ovvero coltivazioni di specifici vegetali destinati all’alimentazione animale. Columella nel suo De re rustica elencherà la medica, la veccia, la farragine d’orzo, l’avena, il fieno greco tra “le sementi per gli animali”. Con l’introduzione della medica, una leguminosa perenne da sfalcio proveniente dalla Media, una regione del Medio Oriente, che sopporta da 3 fino a 5 tagli all’anno, ma non il pascolo, inizia quel lento processo che porterà progressivamente dall’allevamento estensivo all’allevamento stabulato, vera rivoluzione nella vita degli uomini e dei bovini, e che troverà il suo compimento con la Rivoluzione agricola del XVII secolo.

La nostra Penisola per secoli rappresentò il modello più avanzato dell’agricoltura a traino bovino, dove la vacca e il toro erano quasi esclusivamente dedicati alla riproduzione dei vitelli da destinare al lavoro come buoi. Già gli autori antichi avevano connesso il nome Italia con l’appellativo etrusco italòs , che significa toro, e con quello latino vitulus, che significa vitello, e ne avevano spiegato il significato come “terra dei vitelli”.

Allattati dalle madri fino al compimento del primo anno, castrati entro il termine del secondo, i giovani buoi raggiungeranno la maturità per il lavoro tra il terzo e il quarto anno. Perché acquisiscano la robustezza necessaria, possono essere alimentati alla stalla, più frequentemente tuttavia vengono mantenuti in branchi alla stato brado. Per iniziare la vita di lavoro , i giovenchi dovranno essere domati. L’operazione sarà tanto più violenta per quelli cresciuti in libertà: autentici animali selvaggi, saranno costretti ad accettare il giogo in un duro confronto con la forza dell’uomo. Per imporre il suo dominio agli animali il domatore dovrà sapere mescolare durezza e premure.3

La predilezione dei nostri antenati per il traino bovino attraversò tutta l’epoca medioevale fino ad arrivare al Rinascimento.

Dal Rinascimento alla rivoluzione agraria del XVIII secolo: latte, carne, foraggere

Nella seconda metà del ‘500, l’agronomo lombardo Agostino Gallo (1499-1570) nelle sue Giornate della vera agricoltura e piaceri della villa (1564) riconfermò la predilezione degli italici per i bovini, in un’epoca in cui il cavallo, grazie alla sua maggiore celerità, si stava rapidamente diffondendo nei paesi dell’Europa settentrionale come nuova forza motrice.

Con il passare dei secoli, la selezione naturale e quella artificiale non avevano comunque lasciato immutata la genetica dei bovini. In alcune regioni alpine e prealpine, a nord della pianura padana, aree marginali dal punto di vista della coltivazione dei campi, i prati permanenti erano abbondanti e si erano via via sviluppate e diffuse varietà a maggiori attitudini lattifere, come il bovino bruno alpino. Agostino Gallo, che vive nella provincia bresciana, descrive per primo questo nuovo sistema agricolo, la filiera lattiero-casearia padana, che unisce, con la transumanza dei malghesi e delle loro mandrie di bovine lattifere, gli alpeggi di montagna e le cascine di pianura. Il massimo della produzione di formaggio corrisponde al periodo di alpeggio. Per questi allevatori nomadi provenienti principalmente dalle Prealpi lombarde (Orobie) intorno a Bergamo, per questo fino ad epoche recenti chiamati anche bergamini, la pianura ha un ruolo secondario anche se necessario. Essi sono costretti ad andare in pianura nell’attesa di tornare nelle malghe alpine per produrre il formaggio a pasta cotta e pressata che permette lunghe stagionature, tipo Bitto e Bagoss.

Formaggi di origine antichissima che rimonta alle popolazioni celtiche degli Orobi che abitavano le valli bergamasche, lecchesi e comasche in epoca preistorica, questi prodotti sono caratterizzati da una tecnica casearia del tutto simile a quella usata fin dal Medioevo anche nelle abbazie cistercensi della Pianura padana per produrre le grandi forme panciute di formaggi a lunga stagionatura e quindi a lunga conservazione che durante il medioevo i monaci chiamavano caseus vetus e caseus parmensins e che durante il Rinascimento erano denominati Piacentini e Lodesani.

Unica alternativa alla carne e al pesce salati, questi formaggi padani prodotti con una tecnica casearia esclusiva in Europa, quella della pasta cotta, nel periodo in cui scrive Gallo sono richiesti non solo a Roma, a Venezia, a Genova, ma anche in Germania.

Nella undicesima giornata del suo manuale di agricoltura, Gallo, in forma di dialogo tra due nobili proprietari terrieri e un malghese, chiamato “lo Scaltrito”, descrive in modo dettagliato l’economia di questi allevatori nomadi, che producono il formaggio a lunga stagionatura di migliore reputazione.

Alla fine della stagione dell’alpeggio, i malgari scendono dagli alpeggi e vendono i loro formaggi nelle città (Como, Lecco, Milano, Bergamo, Brescia). Privi di abitazioni proprie ma dotati di denaro contante, le famiglie di allevatori nomadi, raggiungono la pianura all’inizio dell’autunno e si distribuiscono nelle varie cascine. Qui i proprietari delle cascine offrono ai malgari i servizi di alloggiamento e della stalla e vendono loro i fieni di prati permanenti, i fieni di trifoglio, i fieni di erba medica prodotti in estate e destinate alle mandrie di brune alpine in arrivo in autunno.

La redistribuzione del valore aggiunto tra agricoltori di pianura e malgari si gioca sul prezzo del foraggio che aumenta a tal punto da rendere poco conveniente per i malgari il mantenimento del bestiame giovane non ancora in produzione. È per questo che i malgari vendono le vitelle prima di ripartire per l’alpeggio e vanno a comprare vacche di oltre i tre anni, e quindi già produttive, cresciute nei pascoli dei Grigioni e della Valtellina. Un vero sistema agro-alimentare, la filiera lattiero casearia documentata da Gallo, che lega le alpi svizzere, le malghe prealpine e le cascine lombarde.

A testimonianza della centralità dei prodotti lattiero-caseari per il sistema agricolo padano, nelle Giornate Agostino Gallo ripropone un’ideale di fisionomia bovina del tutto simile a quella di Columella; ma ai tratti tipici dell’animale da lavoro aggiunge un elemento nuovo: la conformazione della mammella.

Durante il Rinascimento, non solo in Lombardia, la produzione di latte diventa quindi una risorsa fondamentale per l’allevamento bovino, paragonabile per importanza a quella della forza motrice.

Il nuovo orientamento è testimoniato anche da Olivier de Serres (1539-1619), gentiluomo provenzale autore di un altro capolavoro dell’agronomia rinascimentale, Le Théâtre d’agricolture et mesnage des champs (1600), nel quale asserisce che le vacche devono essere dotate innanzitutto di “grandi mammelle, come l’organo in cui consiste tutto il loro reddito”. De Serres prende a esempio di eccellenza la varietà di vacche lattifere selezionate in Olanda, la frisona, che sarà destinata a diventare la più efficiente produttrice di latte al mondo. In Olanda come in altri paesi dell’Europa Settentrionale, i cavalli stavano progressivamente sostituendo i buoi nei lavori agricoli e i bovini iniziarono ad essere allevati esclusivamente per la produzione di latte e di carne, il cui consumo era storicamente radicato in tutte le popolazioni nordiche.

Nel 1650 Richard Weston (1591-1652), nobile proprietario terriero inglese, che per primo si prese il compito di indagare sui metodi di agricoltura delle nazioni vicine, pubblicò un libro sulle innovative tecniche di coltivazione e di allevamento diffuse nelle Fiandre, Discourse of Husbandry used in Brabant and Flaunders. Scrive Weston:

In Olanda fanno così: tengono il proprio bestiame nelle stalle in Inverno e in Estate; per il foraggiamento d’Inverno distribuiscono non solo fieno, ma anche cereali…e ancora pannelli di semi di rape, e seminano i turnips…con i quali, affettati, e con il loro fogliame, panelli, e grani &c, fanno pastoni…D’Estate falciano il Trifoglio gigante, e glie lo gettano nelle mangiatoie…Così i loro animali non sono mai disturbati dai geli…dalla pioggia, dal Sole…né dalla mosca…sono sempre grassi come i propri Padroni, o come maiali da Pancetta.4

Fu proprio in Inghilterra tra il Seicento e il Settecento secolo che il rapporto uomo-bovino, che nell’Europa rinascimentale si era già modificato nel senso dell’interesse economico ed era stato privato con la filosofia cartesiana di qualsiasi connotato religioso e spirituale, assunse la forma utilitaristica e produttivistica moderna.

La nascita dell’allevamento moderno: mercato, selezione, vulnerabilità

Il cambiamento radicale del rapporto con l’agricoltura in generale e con i bovini in particolare fu il motore della Rivoluzione Agraria del XVIII secolo, che anticipò e permise la più nota Rivoluzione Industriale. Richard Weston, a cui si riconosce il merito di avere introdotto in Inghilterra la coltura foraggera del trifoglio, Jethro Tull (1674-1741), autore de La nuova Agricoltura con la Zappatrice a Cavallo (1731), sono considerati i precursori di questa rivoluzione che raggiunse la sua espressione più compiuta negli scritti di Arthur Young (1741-1820), considerato il primo agronomo moderno europeo.

Contemporaneo di Adam Smith, irriducibile difensore della proprietà individuale e della gestione economicistica della terra, Arthur Young (coniugando sistematicamente analisi comparata, sperimentazione agronomica e tornaconto economico) esplicitò le basi di una nuova agricoltura completamente rivolta al mercato.

Le recinzioni delle terre con le siepi furono il simbolo della nuova azienda agraria in quanto esse permisero di delimitare la proprietà e contenere il bestiame senza necessità di sorveglianza. I risultati a cui Arthur Young arrivò furono eccezionali. Per la prima volta si ebbe evidenza scientifica sperimentale che la concimazione abbondante con letame bovino aumenta le rese dei cereali in maniera considerevole. Si fece inoltre chiarezza sui vantaggi della rotazione dei cereali con le colture foraggere come il trifoglio che, grazie alla fissazione dell’azoto, permettono di preparare nel migliore dei modi i terreni destinati alla coltivazione cerealicole, e nello stesso tempo rappresentano nutrimento di grande valore per le mandrie di bovini sempre più numerose e tenute a stabulazione fissa, produttrici di letame, di latte e di carne.

L’aumento della disponibilità di carne bovina nei mercati dell’Inghilterra del Settecento rappresentò una vera e propria rivoluzione alimentare che coinvolse anche i nuovi ceti popolari. La crescita della domanda di carne spinse gli imprenditori agricoli inglesi a migliorare la produzione adeguando le caratteristiche dei bovini alla merce più richiesta dal mercato. Come ci riporta lo stesso Arthur Young nei sui Annali, per il più noto allevatore e selezionatore inglese, Robert Bakewell, “la migliore razza di bestiame è quella che rende il maggiore profitto, posto un livello determinato di consumo…

Fu proprio Robert Bakewell a sviluppare una metodologia di selezione rivoluzionaria. Il metodo definito dal più noto allevatore inglese parte con l’isolamento all’interno di una data popolazione di bestiame dei capi migliori secondo certe caratteristiche utili. Esso prosegue con l’incrocio di questi individui selezionati e termina con il loro ripetuto “inincrocio”, ovvero con l’incrocio tra individui consanguinei, con la finalità di stabilizzare i caratteri selezionati. Il lavoro di Bakewell, che fu ricordato anche da Darwin come esempio dell’efficacia e della rapidità della selezione artificiale, contribuì a rompere l’antico tabù biblico dell’accoppiamento tra consanguinei e a diffondere l’idea che gli animali possono essere migliorati.

Nacquero in questo periodo in Inghilterra le società della razza, i concorsi a premi, le vendite dei capi all’asta e le corse tra “purosangue” con le relative scommesse. “Popolazioni animali nelle quali si sono perpetuati per secoli caratteri diversi e mutevoli vengono trasformate, attraverso la scelta dei riproduttori, in ceppi omogenei, ciascuno dei cui esemplari deve uniformarsi al modello che si è imposto alle aste del bestiame pronto per la macellazione”5.

Con la Rivoluzione Agraria del XVIII secolo, la seconda rivoluzione agraria della storia dell’umanità dopo la Rivoluzione neolitica, l’allevamento dei bovini in stalla venne così finalizzato, da un lato, alla produzione di letame da destinare alle coltivazioni cerealicole e foraggere, dall’altro, alla produzione di latte e carne per il mercato. I principi selettivi degli animali furono rivolti alla massimizzazione della resa del prodotto, con particolare attenzione al volume dei “tagli” di carne più redditizi e alla qualità intesa, a riconoscimento dell’opulenza britannica, come contenuto di grasso.

Si originarono in tal modo la nuova agricoltura e la nuova zootecnia europea: non più buoi al lavoro nei campi e mucche e vitelli nei pascoli di erbe spontanee, ma bestiame selezionato in stalla nutrito con foraggi scelti per la loro utilità agronomica e zootecnica. Pur nel cambiamento radicale dei rapporti antichissimi tra uomini e bovini, le nuove pratiche “intensive”, ma pur sempre “organiche”, permisero il sostentamento di una popolazione bovina accresciuta a fronte di un aumento delle produzioni cerealicole, rappresentarono nel contempo un approfondimento della relazione simbiotica tra coltivazione della terra e allevamento degli animali che era iniziata all’alba delle civiltà con l’agricoltura a traino bovino. È per questa ragione che lo storico dell’agricoltura Piero Bevilacqua parla della Rivoluzione agraria del XVIII secolo come di una “rivoluzione ecocompatibile”6.

Con la prima rivoluzione agraria, quella del Neolitico, la popolazione umana era passata da un numero imprecisato tra 20 e 60 milioni a 250 milioni nel corso di un periodo lunghissimo durato 10.000 anni, tra il 1750 e il 1850 la popolazione del pianeta aumentò da 750 milioni a 1 miliardo e 150 milioni. Questa crescita straordinaria della popolazione umana nel corso di un secolo fu almeno in parte il frutto delle pratiche congegnate dai primi agronomi inglesi.

L’eccezionale sviluppo dell’allevamento bovino inglese subì una pesante battuta d’arresto negli anni Sessanta dell’Ottocento, quando una gravissima epidemia di peste bovina colpì l’isola.

Un cargo di bovini giunto dal Mar Baltico nell’estate del 1865 fu con ogni probabilità il focolaio della più grave epidemia di peste bovina della storia dell’Inghilterra. Gli animali infetti provenienti dall’Estonia arrivarono a Islington, il quartiere di Londra dove appena tre anni prima era stata costruita la Royal Agricoltural Hall, la più grande struttura al mondo adibita alle fiere di bestiame. Da qui l’epidemia si diffuse in ogni parte del paese, colpendo in modo molto disomogeneo le varie regioni. Le autorità veterinarie reagirono con lentezza e nelle aziende agricola i bovini iniziarono ad ammalarsi e morire in numero sempre maggiore. La situazione divenne così grave che la regina Vittoria approvò una speciale preghiera da usare in tutte le chiese e nel gennaio del 1866 l’Arcivescovo di Canterbury chiese al Segretario di Stato di indire un giorno di “national humiliation” volto ad implorare la clemenza di Dio. Il Governo inglese rifiutò la proposta dell’Arcivescovo e dopo pochi giorni emise il Cattle Disease Prevention Act con il quale si diede ordine alle autorità locali di bloccare tutti i trasporti di bestiame, uccidere tutti gli animali infetti e quelli a loro vicini.

Alla fine del 1866 si contarono circa 300.000 bovini uccisi su una popolazione intorno ai 5.000.000 di capi, ovvero il 5% a livello nazionale, percentuale che però in alcune contee come il Cheshire, famosa anche per il suo formaggio, arrivò al 68%. L’alta densità degli animali nelle stalle e la maggiore uniformità genetica favorirono il rapido diffondersi dell’epidemia, che non colpì alcune aree dell’isola come la Scozia, dove varietà più rustiche di bovini (Highlander Cow) erano allevate al pascolo.

Il prezzo della carne aumentò vertiginosamente e i banchieri e i finanzieri inglesi iniziarono a guardare con interesse alle Americhe per le sue opportunità di sviluppo del mercato della carne.

Dai “cow boys” all’allevamento industriale: colonizzazione, mais, petrolio

Mentre l’Europa si era già avviata verso un modello di allevamento in stalla, il Nuovo Mondo offriva pascoli sterminati ideali per l’allevamento estensivo. I primi bovini arrivarono dall’Europa nelle Americhe nel XV secolo insieme ai conquistadores che li imbarcavano sulle navi per poi allevarli allo stato brado nei nuovi immensi territori conquistati. Nel 1870 in Argentina più di 13 milioni di bovini di razza iberica (Toro de lidia) pascolavano liberi nelle pampas. Gli allevatori si arricchirono inizialmente vendendo pelli e carne salata agli europei; in Europa, però, le classi più abbienti desideravano acquistare della carne fresca.

La soluzione al problema venne nel 1878, quando la prima nave a vapore refrigerata, la Frigorifique, salpò dall’Argentina per il suo storico viaggio verso Le Havre, carica di carne fresca. A bordo della nave, la carne veniva tenuta alla temperatura costante di dieci gradi sotto zero da un motore che comprimeva ammoniaca. La nave attraccò a le Havre, con 5500 carcasse, rivoluzionando la storia alimentare: da quel giorno, gli ospiti del Grand Hotel di Parigi potevano gustare carne fresca di manzo argentino, e le pampas del Sudamerica divennero i nuovi pascoli d’Europa7.

Nella prima metà dell’Ottocento i confini dei pascoli spagnoli erano giunti fin oltre il Messico, nell’attuale Texas. I frati francescani spagnoli erano stati i primi ad esplorare la regione, stabilendo oltre cinquanta missioni e sviluppando l’allevamento dei bovini iberici. Con l’indipendenza del Messico dalla corona spagnola e la successiva indipendenza del Texas dal Messico, i missionari e allevatori spagnoli furono obbligati a lasciare la regione, abbandonando gli animali che si inselvatichirono e si moltiplicarono. Quando il Texas dichiarò di demanio pubblico queste mandrie bovine, giovani cowboy iniziarono a radunare gli animali, rinchiuderli in recinti, marchiarli e condurli verso i mattatoi di New Orleans e del Kansas. I mercati più interessanti erano però quelli delle città del nord est ed il viaggio con le mandrie di bovini dalle lunghe corna (Texas longhorn) attraverso il paese era troppo lungo e pericoloso. La soluzione a questo problema venne trovata da Joseph “Cowboy” McCoy (1837-1915), un imprenditore che per primo iniziò ad utilizzare il sistema ferroviario allora in rapido sviluppo per trasportare i bovini verso i mattatoi di St.Louis e soprattutto di Chicago.

Ben presto la domanda di carne bovina da parte delle grandi città industriali superò l’offerta dei pascoli texani. Fu allora che le grandi pianure occidentali vennero trasformate in enormi pascoli. Come è noto, ne fecero le spese i bisonti e le popolazioni native. Negli anni Settanta dell’Ottocento, la caccia sfrenata ai bisonti divenne una moda per i ricchi della costa orientale e per la nobiltà europea. Un cacciatore, Buffalo Bill Cody, e un militare, George Custer, divennero famosi anche tra i ceti popolari europei.

Uccisi a centinaia sparando anche dai treni in corsa, i bisonti venivano lasciati marcire al sole e il commercio delle loro ossa bianchissime (alla cui raccolta parteciparono anche le popolazioni native sconvolte dalla distruzione del loro riferimento alimentare, culturale e religioso) si sviluppò anche in funzione dell’utilizzo del loro contenuto di fosforo nella neonata industria chimica dei fertilizzanti.

All’inizio degli anni ’80 dell’Ottocento, la strategia dell’uomo bianco di “tagliare i rifornimenti” alle tribù indiane aveva avuto un enorme successo che andava oltre le più rosee aspettative: del bestiame delle praterie erano stati eliminati persino gli scheletri, cancellando ogni testimonianza materiale della loro presenza. Ora, a pascolare nella prateria si potevano vedere solo longhorns spagnoli e shorthorns inglesi controllati da cowboy a cavallo8.

Nel periodo successivo alla grave epidemia di peste bovina del 1865-66, i banchieri inglesi furono tra i principali finanziatori della ferrovia transcontinentale americana che stava seguendo le mandrie di bovini verso Ovest. Negli anni Ottanta dell’Ottocento, dopo essersi garantiti la concessione su milioni di ettari di pascoli, questi finanzieri riversarono i loro capitali sulle aziende di allevamento. Il loro obiettivo era quello di rifornire di carne fresca il ricco mercato domestico. Nonostante la disponibilità delle nuove tecnologie di refrigerazione della carne, esisteva però un problema di natura merceologica: la predilezione dei britannici, i più grandi consumatori di carne europei, per le carni “marezzate” grasse e morbide, considerate più pregiate di quelle molto più magre e di diversa consistenza degli animali allevati allo stato brado.

Fu proprio per questa ragione che, prima di essere inviati nei macelli della parte orientale della nazione, i bovini cresciuti nelle Grandi Pianure, prima di raggiungere i mattatoi di Chicago, iniziarono ad essere fermati nel Midwest e messi all’ingrasso con le eccedenze di mais prodotti in quella area geografica che poi diventerà nota come la corn belt, la fascia del mais.

Si diffuse così una pratica, quella dell’alimentazione dei bovini con il mais, che come ci ricorda Antonio Saltini,

destina agli animali il prodotto di una pianta che per millenni l’uomo ha coltivato per saziare la propria fame: nella storia dei rapporti tra l’uomo e le risorse naturali l’impiego di un cereale quale base dell’alimentazione del bestiame costituisce autentica rivoluzione, una rivoluzione che trasforma dalle radici i rapporti tra entità viventi che hanno condiviso, dalle origini mesopotamiche, il ruolo di comprimarie dell’agricoltura occidentale; l’uomo, i cereali e i ruminanti9.

Inizialmente coltivata per ottenere della granella secca da destinare ai bovini da carne nella fase di finissaggio, il mais divenne il cardine dell’allevamento bovino moderno con l’utilizzo dell’intera pianta come foraggio conservato in forma di insilato.

Adottando la stessa tecnica usata nelle produzioni dei crauti (il contorno tipico della cucina mitteleuropea ottenuto dal cavolo cappuccio, tagliato in sottili listelli, pressato e sottoposto a fermentazione acetica ed acida), i contadini tedeschi fin dall’Ottocento avevano iniziato a conservare sotto forma di insilato l’erba fresca appena tagliata. Il primo agronomo ad interessarsi dell’uso di insilato di mais nell’alimentazione bovina fu il francese August Goffart che nel 1877 pubblicò un lavoro dal titolo Manuel de la culture et de l’ensilage des mais et autre fourrages verts. Tradotto nel 1879 in inglese, il manuale di Goffart venne recepito con grande interesse negli Stati Uniti, e l’uso dell’insilato di mais in sostituzione del fieno come base foraggera della razione giornaliera si diffuse negli allevamenti di bovine da latte.

Nei decenni successivi, l’area coltivata a mais si allargò fino ad occupare i territori dove prima si estendevano i più grandi pascoli del mondo. A cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, negli Stati Uniti, l’insilato di mais sostituì progressivamente il fieno e il pascolo come fondamento dell’alimentazione dei bovini sia da carne che da latte.

Fu in questo periodo che Elrbridge Amos Stuart (1856-1944), un uomo d’affari stabilitosi in California, proprietario di una delle prima aziende di latte evaporato, la Carnation Cream, selezionò, in funzione dell’alimentazione a base di mais e dell’adattabilità della mammella alla mungitrice meccanica, l’American Friesian ovvero della Frisona Americana. Con una produzione di latte giornaliera che può superare i 40 litri di latte, contro i 25-28 litri delle varietà tradizione di lattifere alimentate a erba e fieno, questa razza sarà destinata a diffondersi più di ogni altra. Anche l’altra famosa razza lattifera europea, la Bruna alpina, all’inizio del Novecento, fu oggetto su suolo americano della stessa selezione. Nacque così la Brown Swiss, che acquisì in gran parte le stesse caratteristiche della Frisona Americana.

A partire dai primi decenni del Novecento, negli Stati Uniti, al miglioramento genetico degli animali si aggiunse quello del mais. L’invenzione delle sementi ibride di mais rappresenta nella storia delle scienze agrarie il trionfo della genetica mendeliana.

I progressi della genetica animale e vegetale, uniti alla diffusione dei sistemi di irrigazione, dei trattori, dell’uso degli erbicidi, dei fertilizzanti, degli insetticidi e dei fungicidi furono fattori che confluirono in un nuovo modello agricolo, quello industriale statunitense, basato, per quanto riguarda l’allevamento, sul mais, e più in generale, per quanto riguarda le risorse energetiche, sul petrolio.

La rivoluzione “verde”: produttività, crudeltà, umanità

Forgiatosi nel Midwest statunitense, questo nuovo modello, grazie al sostegno della fondazione Rockefeller e del governo statunitense10, venne sperimentato prima in alcuni paesi dell’America latina (Messico, Venezuela) e, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, promosso in Europa.

L’Italia del Nord, dove il mais rappresentava da secoli la principale risorsa alimentare per la popolazione contadina, e vi era una tradizione millenaria di allevamento bovino per la produzione di formaggi divenne uno dei centri di promozione del modello agroalimentare statunitense in Europa.

Con la rapida diffusione delle trattrici agricole e dei fertilizzanti di sintesi, le aziende agricole della Pianura padana, dismisero le stalle e si specializzarono adottando un modello cerealicolo senza animali. Gli allevamenti adottarono il modello intensivo statunitense basato sul mais, che divenne la coltura di gran lunga dominante delle zone di pianure più ricche di acqua .

La Bruna Alpina, che nel 1950 con 1.900.000 capi era la razza bovina da latte più diffusa in Italia, nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta fu progressivamente sostituita con la Brown Swiss e soprattutto con la Frisona americana. La conseguente sostituzione del pascolo e del fieno con l’insilato di mais, spinse la produzione di latte verso le zone di pianura a vocazione maidicola, che sostituirono la zona prealpina come centro dell’industria casearia italiana.

Le tradizionali varietà di bovini da tiro scomparvero. A partire da alcune di queste varietà furono sviluppate delle razze da carne come la Piemontese, selezionata per la presenza nei suoi progenitori di una iperplasia muscolare della coscia (detta fassone o doppia coscia), che rappresenta tuttora un elemento caratterizzante della razza.

In Italia come in molte altre parte del mondo, con la modernizzazione dell’agricoltura secondo i modelli statunitensi, la cosiddetta Rivoluzione Verde, la terza rivoluzione agricola della storia dell’umanità, in un tempo brevissimo furono così recisi i rapporti “simbiotici” tra agricoltura e allevamento, tra uomini, cereali e bovini. L’allevamento divenne nella sostanza un’industria di trasformazione del mais. La disgiunzione tra cerealicoltura e allevamento comportò anche la sparizione della paglia, usata un tempo come lettiera per gli animali nelle stalle. Insieme alla paglia sparì il letame e le deiezioni animali vennero ridotte a liquami stoccati in vasche di cemento sempre più grandi (manure lagoon).

Animali un tempo rispettati se non proprio venerati, i bovini iniziarono ad essere considerati solo in termini della loro produzione di latte e carne. I metodi di allevamento, di selezione e di alimentazione si concertarono esclusivamente sugli “indici di conversione” e sul “risparmio di costi”. Le necessità fisiologiche ed etologiche dei bovini, come quelle degli altri animali da allevamento, non furono minimamente considerate se non in funzione della produttività degli animali.

L’attivista inglese Ruth Harrison (1920-2000), in Animal Machines (1964), per prima denunciò la crudeltà dei metodi moderni di allevamento, come quello dei vitelli basato sull’ingrasso forzato con alimenti incompleti in gabbie di legno completamente buie per aumentare la resa di carne chiara e anemica richiesta dal mercato.

Il libro-denuncia della Harrison, che venne pubblicato con la prefazione dall’amica Rachel Carson (1907-1964), stimolò la redazione di uno dei primi rapporti pubblici sul benessere animale, il Brambell Report (1965). Questo rapporto elaborò la lista delle cinque libertà (Five freedoms) che devono essere garantite agli animali da allevamento: libertà dalla sete, dalla fame e dalla cattiva nutrizione; libertà di avere un ambiente fisico adeguato; libertà dal dolore, dalle ferite, dalle malattie; libertà di manifestare le caratteristiche etologiche della propria specie; libertà dalla paura e dallo stress.

In Europa, il libro della Harrison e il Rapporto Brambell avviarono un processo legislativo relativo al benessere animale che, nel 2007, portò questo concetto ad essere inserito tra i principi del Trattato di Lisbona, che ha modificato il Trattato sull’Unione Europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea. L’articolo 13 del Trattato di Lisbona dispone, infatti, che:

Nella formulazione e nell’attuazione delle politiche dell’Unione nei settori dell’agricoltura, della pesca, dei trasporti, del mercato interno, della ricerca e sviluppo tecnologico e dello spazio, l’Unione e gli Stati membri tengono pienamente conto delle esigenze in materia di benessere degli animali in quanto esseri senzienti, rispettando nel contempo le disposizioni legislative o amministrative e le consuetudini degli Stati membri per quanto riguarda, in particolare, i riti religiosi, le tradizioni culturali e il patrimonio regionale.

Il riconoscimento dello status giuridico degli animali come esseri senzienti avviene in Europa a 370 anni dalla pubblicazione del Discorso sul Metodo di Cartesio nel quale il filosofo francese espose la sua teoria dell’animale macchina (bête-machine). Nonostante questi orientamenti nella legislazione comunitaria, il benessere degli animali non è attualmente riconosciuto dalla World Trade Organisation (WTO) come motivo valido per limitare le importazioni. Negli Stati Uniti, malgrado l’attivismo di molte associazioni e organizzazioni, ha finito con il prevalere un approccio basato sull’autoregolamentazione del settore. Questo approccio ha escluso in modo esplicito l’inserimento di norme sul benessere animale nella legge federale e nelle leggi dei vari stati, sulla base della considerazione della mancanza di interesse degli allevatori nel tenere comportamenti nocivi per gli animali dal cui benessere dipende il loro profitto.

La diversità di visioni tra Europa e Stati Uniti sul tema del benessere animale emerse in tutta la sua chiarezza nei primi anni Novanta, dopo che nel 1993 la Food and Drug Administration (FDA) autorizzò la commercializzazione del primo prodotto biotecnologico di interesse agrario, la somatotropina bovina ricombinante, un ormone derivato da OGM ideato allo scopo di aumentare la resa delle vacche da latte

Il lancio del Prosilac, il nome commerciale di questo ormone brevettato da Monsanto, fu preceduto da accese polemiche dovute principalmente agli effetti negativi della somatotropina sulla salute delle bovine. Proprio tenendo in considerazione la preoccupazione per il benessere animale che l’Unione Europea nel 1994 vietò l’utilizzo del farmaco ed altri paesi extracomunitari ne seguirono l’esempio.

La metà degli anni Novanta ha rappresentato un momento molto importante per la storia dell’allevamento industriale. È questo infatti il periodo dello scandalo di “mucca pazza” e dell’inizio della commercializzazione delle prime sementi OGM, mais e soia modificati per resistere al glifosato (oggi l’erbicida più utilizzato al mondo) e per produrre un particolare tipo di insetticida.

Lo scandalo della “mucca pazza” rese di dominio pubblico alcune pratiche del settore mangimistico quale quella di integrare la razione giornaliera dei bovini con farine di carne e di ossa ottenute a partire dagli scarti di macellazione e dalle carcasse di animali anche malati.

Nonostante la forte avversione dei consumatori, le forti limitazioni alla coltivazione e l’obbligo di etichettatura, anche in Europa le granella di mais e di soia transgeniche andarono a costituire gli ingredienti di base della parte più concentrata, il “nucleo”, della razione alimentare dei bovini. Con il divieto di utilizzo di farine animali nell’alimentazione bovina, la soia transgenica, in particolare, sostituì queste farine come principale integrazione proteica della razione.

Negli ultimi venti anni, insieme alle preoccupazioni per il benessere animali e per la salute umana, sono aumentare le preoccupazioni ambientali legate alla diffusione degli allevamenti industriali: inquinamento dell’acqua e dell’aria, deforestazione e perdita della biodiversità, insostenibilità nell’utilizzo di risorse non rinnovabili, riscaldamento climatico, ecc…

Nonostante queste preoccupazioni, nello stesso periodo, il consumo di proteine animali non ha fatto altro che aumentare a livello mondiale. I bovini allevati oggi sulla Terra sono circa 1 miliardo e 300 milioni, e quasi un quarto della superficie terrestre è occupata direttamente o indirettamente dall’allevamento bovino.

Come risposta alle preoccupazioni etiche, ambientali e sociali e al crescente aumento della popolazione domanda e del consumo di proteine animali, tra le istituzioni nazionali ed internazionali negli ultimi due decenni ha predominato l’idea che solo una “intensificazione sostenibile” delle attività di coltivazione e di allevamento, da raggiunge tramite le innovazioni tecnologiche quali quelle legate alla manipolazione genetica di piante e animali e al loro trasferimento a tutti i paesi, a partire da quelli più poveri, possa permettere ad un numero sempre maggiore di persone di godere di quella che lo storico Antonio Saltini chiama la “dieta delle 3b”: butter, beef and beer.

In fondo, però, anche la dieta vegetariana descritta da Platone, con il suo invito alla moderazione, può essere altrettanto gustosa e certamente è più salutare ed economica. Non dobbiamo dimenticare inoltre che il rispetto per i bovini, come del resto per le altre specie animali addomesticate e non, è sempre stato un segno di civiltà e di umanità.

Come scrisse Giorgio Nebbia: “Alla mucca almeno un grazie”.

1 A. Saltini, Storia delle scienze agrarie, Volume primo, Firenze, Nuova Terra Antica, 2010, p. 5.

2 J. Clutton-Brock J., Storia naturale della domesticazione dei mammiferi, Torino, Bollati Boringhieri, 2017, pp. 119-120.

3 A. Saltini, Storia delle scienze agrarie, Volume primo, Firenze, Nuova Terra Antica, 2010, p. 147.

4 Citato in A. Saltini, Storia delle scienze agrarie, Volume secondo, Firenze, Nuova Terra Antica, 2010, p. 24.

5 A. Saltini, Storia delle scienze agrarie, Volume terzo, Firenze, Nuova Terra Antica, 2010, p. 34.

6 P. Bevilacqua, La mucca è savia. Ragioni storiche della crisi alimentare europea, Roma, Donzelli, 2002.

7 J. Rifkin J. Ecocidio. Ascesa e caduta della cultura della carne. Milano, Mondadori, 2001, p. 63.

8 Ivi, p. 95.

9 A. Saltini, Storia delle scienze agrarie, Volume settimo, Firenze, Nuova Terra Antica, 2010, p. 391.

10 Henry A. Wallace (1888-1965), fondatore nel 1926 della Pioneer Hi-Bred, il principale produttore di semi ibridi di mais, fu Segretario dell’Agricoltura degli Stati Uniti d’America dal 1933 al 1940, per poi diventare vicepresidente degli Stati Uniti dal 1941 al 1945.

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