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Adriano Olivetti non è solo. A proposito del libro di Giuliana Gemelli, ‘Il regno di Proteo’

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Nel luglio 1960 la rivista di Comunità pubblicò un fascicolo speciale dedicato alla memoria di Adriano Olivetti, pochi mesi dopo la sua morte che è del febbraio 1960. Il fascicolo conteneva tre brevi saggi commemorativi di Geno Pampaloni, Renzo Zorzi e Franco Ferrrarotti ed una serie di ricordi di testimonianza di personalità di tutto il mondo. Per la precisione erano 44 testimonianze che andavano da Martin Buber a Thomas S. Eliot a Le Corbusier a Fanfani, a Maritain a Mumford a Nenni a Zevi a Moro a Saragat. Quello che mi ha colpito è che neanche una di queste testimonianze proveniva dal mondo dell’impresa e che nessuna di esse parlava di Adriano come imprenditore, con l’unica eccezione di quella di Saragat che inizia con queste parole:

” Adriano Olivetti non si è formato da solo anche se con lui una tradizione nobilissima ha raggiunto altezze tali da dominare vasti orizzonti di concrete realizzazioni umane. Il padre suo, Camillo, era un uomo geniale che univa alla fantasia più audace ed alla perfetta tecnica del grande amministratore un cuore ancora più grande. Perché ad Ivrea e non altrove sia sorta una fabbrica che è oggi simbolo di civiltà industriale in tutti i continenti lo si deve non tanto a particolari condizioni ambientali quanto al genio di Camillo Olivetti. Le condizioni ambientali erano quelle del vecchio Piemonte che per primo in Italia ha visto sorgere proprio nelle zone ai piedi delle Alpi manifatture ed opifici. Camillo ha aggiunto di suo la genialità del grande capitano di industria e la generosità dell’uomo di cuore. In generale i figli dei grandi capitani di industria ereditano dai padri soltanto gli strumenti della potenza economica. Adriano Olivetti, figlio prediletto di Camillo, ereditò invece con lo strumento della potenza economica la genialità e l’animo del padre portando l’illustre tradizione familiare ad un’altezza tale da meritare l’affetto di tutti gli italiani e l’ammirazione degli uomini più insigni in ogni continente”.

Questa pubblicazione denota da un lato la profonda ammirazione che Adriano aveva conquistato in tutto il mondo, ma, dall’altro, rappresenta l’inizio dell’operazione che porta a parlare di Adriano come uomo di cultura, urbanista, realizzatore di opere sociali, politico ma poco di Adriano come grande imprenditore, come pensatore dell’impresa, del management, del lavoro, dello sviluppo.

Eppure sono proprio questi gli aspetti più attuali del suo pensiero, che la crisi economica e del management rendono sempre più attuali. Ho da tempo affermato che è stato un errore dei suoi seguaci ed eredi l’avere trascurato questo aspetto, concentrando l’attenzione su altri, pur importanti, aspetti della sua poliedrica personalità e attività. Eppure, come alcuni suoi scritti recentemente ripubblicati dimostrano, tutto nasce da lì, dall’Adriano imprenditore, anche se non tutto finisce lì. Anche l’idea di Comunità nasce dalla riflessione sul lavoro in fabbrica, come è bene illustrato nello scritto: “Prime esperienze in una fabbrica” (1948): ” Non c’era che una soluzione: rendere la fabbrica e l’ambiente circostante solidali. Nasceva allora l’idea di una Comunità”. E come è ulteriormente sviluppato nello scritto: “Dalla fabbrica alla Comunità” (1953). Certo la concezione della fabbrica di Adriano non è quella di un luogo dove si pensa solo, attraverso un conflitto continuo, a sfruttare l’uomo, nell’ambito della “tragica marcia per l’efficienza e il profitto” ma di un luogo dove il lavoro gode di una grande dignità e rispetto e dove, nell’ambito di regole severe ma umane, si lavora insieme per lo sviluppo comune. Quella di Adriano è una concezione dell’impresa e del lavoro che proviene dalla sua alta concezione della vita e della storia dell’uomo, dalle sue radici culturali, civili e religiose. Come aveva già capito lo scrittore imprenditore Benedetto Cotruglio nel 1458 (“Il libro dell’arte della mercatura”): “il buon cittadino non nasce dalla mercatura; è piuttosto il buon mercante che nasce dal buon cittadino.

E’ proprio questa concezione alta dell’impresa, del lavoro, della responsabilità imprenditoriale e manageriale, che fa di Adriano non solo un imprenditore di grande successo, ma un imprenditore che entra, di pieno diritto, nella storia del pensiero del management e che è, per questo, sempre contemporaneo. E’ la stessa concezione che lo rese estraneo, ostile, (“sovversivo”, come fu allora definito), a gran parte della barbarica classe imprenditoriale italiana del tempo, oggi ancora, nei vertici, forse più barbarica di allora.

E qui si radica il secondo errore dei suoi seguaci ed eredi. Di averne fatto una sorta di totem sacro, un santone isolato. Con ciò lo hanno isolato da tutti, anche da Camillo Olivetti, mentre gli scritti di Adriano dimostrano quanto il suo pensiero fosse radicato nei valori fondanti di Camillo, anche se proiettato a raccogliere le sfide nuove che poneva la grande impresa. Ma lo si isola anche da Roberto Olivetti che tentò, generosamente, di portare avanti la sfida dell’elettronica, con una continuità di pensiero e di valori, al di là dei pur documentati contrasti e incomprensioni. Basti pensare che solo nel 2003, diciotto anni dopo la sua prematura morte, la figlia è riuscita a pubblicare un libro testimonianza su Roberto. Ed è bene non dimenticare che nella relazione di bilancio della Fiat del 1964, entrata nel capitale della Olivetti come parte del gruppo di sostegno, il presidente Valletta disse: anche la nostra partecipata Olivetti darà presto buoni risultati anche se ha ancora un neo da estirpare: l’elettronica. E quando morì Roberto, Bombieri ex consigliere delegato della Comit, ormai a riposo, rilasciò un’intervista di commemorazione su Roberto nella quale dopo aver espresso la sua grande stima per lo stesso disse: “noi (inteso noi establishment) non avevamo capito niente”. Come niente dell’Olivetti e dell’elettronica aveva capito Visentini.

La personalità di Adriano ed il suo grande spessore culturale è irripetibile. Ma sul piano del pensiero imprenditoriale e manageriale è un grande errore isolare e sacralizzare la sua figura. Il suo pensiero e la sua opera, ripeto sul piano imprenditoriale, non è per niente isolata, ma si inserisce in antichi e moderni fertili filoni di pensiero, basati sulla concezione dell’impresa e del lavoro come fattore di sviluppo economico e civile. La domanda che Adriano pone nel bellissimo discorso di Pozzuoli (1955):” Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è, al di là del ritmo apparente qualche cosa di più affascinante una destinazione, una vocazione anche nella vita della fabbrica?”, non è una domanda destinata a restare senza risposta. Anzi le risposte positive sono molteplici.

Su questo tema molto si sono interrogati gli imprenditori (allora si chiamavano: mercanti) italiani del 1300 e 1400, i veri fondatori del capitalismo moderno, ed i loro cantori, come Coluccio Salutati (1313-1406): ” Cosa santa è la giustizia, più santa santissima è la mercatura, senza la quale il mondo non può vivere, che della sua Firenze diceva, con orgoglio, “Nos popularis civitatis, soli dedita mercatura”. Ma tra questi, ai fini più specifici del nostro discorso, trovo di particolare interesse la definizione che il già citato Cotruglio, grande imprenditore raguseo, da della funzione dell’impresa: ” mercatura è arte legiptima, giustamente ordinata, per conservazione dell’umana generazione, con isperanza niente di meno di guadagno”. Qui c’è chiarissimo il concetto della legittimazione dell’impresa e del profitto per la sua utilità sociale, per il contributo allo sviluppo (” per conservazione de l’humana generazione”). 

Ma se vogliamo arrivare ai tempi nostri, tutta l’opera di Drucker (che giudico il più importante studioso di management degli ultimi 70 anni) è una risposta positiva alla domanda di Adriano: ” Le imprese sono organi della società. Non sono fine a se stesse. Ma esistono per svolgere una determinata funzione sociale… esse sono strumenti per assolvere fini che le trascendono. Sono organi di sviluppo”. E un’altra risposta positiva alla domanda di Adriano possiamo trovare in Schumpeter, l’economista del ‘900 che più di ogni altro ha capito il ruolo dell’impresa nel processo di sviluppo: chiamiamo impresa il luogo dove si producono innovazioni; chiamiamo imprenditori i soggetti che realizzano innovazioni.

Una risposta positiva alla domanda di Adriano possiamo trovare anche nel grande filone del pensiero d’impresa e dei creatori di imprese del ‘900 lombardo e milanese: da Carlo Cattaneo a Mylius, Brioschi, Giuseppe Colombo, Ferdinando Bocconi. E’ un grande filone di pensiero e di opere che, attraverso Romagnosi, si ricollega direttamente all’illuminismo lombardo, pensiero nel quale la crescita economica e lo sviluppo si fondevano direttamente nel grande concetto di “incivilimento”. La crescita economica è buona cosa se si traduce in un processo di incivilimento. Non c’è qui una quasi perfetta identità con il pensiero di Adriano che dalla fabbrica portava alla Comunità e che vedeva il lavoro anche come processo di crescita personale? Si veda il discorso “Alle Spille d’Oro” 1954 ( “La Spilla d’Oro sa che il lavoro che egli ha dato per anni alla fabbrica è qualcosa di intimamente e profondamente suo, per cui a poco a poco questo suo lavoro è diventato parte della sua anima. Perciò in esso splende una luce interiore, perché essa appartiene allo spirito. Il lavoro è perciò spirituale e il lavoratore si sente anch’egli nel lavoro e sul lavoro vicino a Dio, come suo collaboratore e servitore”.

Questa concezione alta del lavoro, che è poi anche la radice vera dell’articolo 1 della nostra Costituzione, io la ritrovo in tanti scritti e documenti, antichi e moderni. Ad esempio la ritrovo in una tavola di legno, affissa ad una baita dell’Alta Valfurva, accanto a un umile crocefisso, sulla quale sono scolpite queste parole: “Gesù, Salvatore nostro, sii la guida del nostro cammino, benedici i nostri lavori, confortaci nelle afflizioni, fa che abbiamo ad avere l’eterno guiderdone nel cielo e nel cuore dei leggitori, fa che fruttifichi la salute di eterna vita”. I vicini di Plagera di Mezzo posero in segno della sua divozione. Bertolina Angelo fece l’anno 1901 “. In questa umile scritta, che Bertolina Angelo fece nell’anno 1901, io trovo tante cose, forse tutte le cose di cui abbiamo bisogno per ritornare a essere un paese civile. Il senso della solidarietà (i vicini posero). Il senso del ruolo centrale del lavoro. Il senso che il lavoro dell’uomo non è un vano agitarsi o un semplice stato di necessità, ma un cammino, cioè l’andare verso una meta. Il senso del mistero che accompagna il cammino dell’uomo, che cerca conforto nello spirito religioso, ma che al contempo vuole il suo giusto premio da coloro che reggono le istituzioni. Non è stupenda ed attuale questa dignitosa richiesta che il lavoro dell’uomo trovi rispetto nel cuore dei leggitori?

La ritrovo nell’Economico di Senofonte, il primo libro di management della cultura occidentale. Ma forse il testo antico che più mi ha colpito, è un testo egizio (1150 circa a.C.) che lessi e fotografai in una mostra al museo egizio di Berlino tanti anni fa. Si tratta di un testo di esercizi per futuri funzionari statali ed il suo obiettivo è chiaramente quello di educare i funzionari (potere) al rispetto del lavoro del contadino (produttore):

La giornata di lavoro del contadino

Ed ora vieni, che io ti mostri cosa ne è

del contadino, di questo così duro lavoro.

Quando l’acqua sale per l’annuale

inondazione del Nilo, egli viene tutto bagnato.

Se ne sta là ritto con i suoi attrezzi, tutto il giorno

affila come si deve gli arnesi per arare, la notte

arrotola corde. Persino l’ora del mezzogiorno 

la trascorre lavorando e fa i suoi 

preparativi, per andare nel campo.

Quando il campo si stende asciutto davanti a lui, egli se ne va,

per andare a prendere un tiro di buoi.

Per molti giorni va dietro il mandriano…

Viene al suo campo e trascorre un periodo 

di otto ore e ara, mentre il verme

lo incalza.

E anche quando ha finito di seminare, passerà molto tempo

prima che veda nascere verdi germogli.

(da un testo di esercizi per futuri funzionari statali, del 1150 circa a.C.)

Come saremmo più civili se anche i nostri funzionari statali fossero educati a rispettare l’impresa e il lavoro del produttore nello stesso modo!

Ma alla domanda di Adriano potrebbero rispondere, in modo positivo, anche gli importanti pensatori tedeschi del filone di pensiero dell’economia sociale di mercato, ed in primo luogo, Röpke ed i loro omologhi italiani come Einaudi e Sturzo.

Molti sono anche gli imprenditori che mi è capitato di conoscere ed apprezzare in grado di dare una positiva risposta alla domanda di Adriano. Penso, ad esempio, alla bellissima lezione che Lino Zanussi tenne all’Università Popolare di Udine in occasione della Laurea Honoris causa l’8 maggio 1968, pochi giorni prima di morire in un disastro aereo.

Dunque sono molteplici e di molte epoche e culture gli affluenti che confluiscono nel grande filone di pensiero che vede l’impresa e il lavoro come fattore di sviluppo e incivilimento, il grande filone nel quale va collocato il pensiero e l’opera di Adriano Olivetti. E molti sono gli imprenditori che, magari non conoscendo i valori olivettiani, li praticano nella loro impresa.

E’ però vero che questo grande filone di pensiero, pur con radici così forti e profonde, è stato battuto, alla grande, negli ultimi 30-40 anni, quelli della finanziarizzazione dell’economia e dell’impresa che, come una poderosa erba gramigna, ha soffocato ogni buona messe, quella di quel capitalismo di rapina che Adriano, come del resto ed ancor più Camillo, temeva e respingeva, quella che ha umiliato ed umilia il lavoro.

Ma forse la sconfitta non è definitiva. Negli ultimi tempi, grazie alla gravissima e prolungata crisi alla quale ci ha portato il capitalismo finanziario e di rapina, il filone di pensiero che ho cercato di schizzare, quello dell’impresa responsabile (ma non paternalistica! come sottolineava Adriano), quello dello sviluppo come incivilimento, (nel quale va inquadrato il filone olivettiano rappresentato da Camillo, Adriano, Roberto Olivetti e dai tanti dirigenti che, con i loro insegnamenti, sono andati in giro a fecondare il mondo dell’impresa) sta riprendendo voce.

La battaglia è durissima perché i grandi centri di potere e di pensiero sono ancora tutti in mano al capitalismo finanziario e di rapina ed ai loro cantori.

E nell’organizzazione del lavoro, nell’impresa e nella società, è avvenuta una grande trasformazione della quale non abbiamo ancora piena consapevolezza. Un’analisi approfondita del fenomeno l’ha fatta recentemente lo studioso francese Pierre – Yves Gomez che, nel suo importante libro: Le Travail Invisible. Enquête sur une disparition (Ed. Bourin, Parigi 2013)., analizza la trasformazione che lui chiama: la finanziarizzazione del lavoro umano, che come realtà concreta è sparito, sostituito da astrazioni contabili – finanziarie. La guida delle imprese e soprattutto delle grandi imprese è tutta impostata in termini contabili-finanziari. Il potere di direzione è passato dagli “ingegneri”, dagli innovatori, ai contabili-finanziari, quelli che una volta si chiamavano contafagioli. Persino imprese pubbliche, create per facilitare il lavoro delle altre imprese, come ad esempio la Sace, imprese che dovrebbero essere in equilibrio economico ma non fare profitti, si misurano in termini di parametri finanziari, come una qualsiasi banca, invece che in base all’utilità realizzata a favore delle imprese che devono sostenere. Il lavoro non è più quello concreto della vita reale, ma un’astrazione che deriva da degli obiettivi-parametri finanziari prefissati. Abbiamo una generazione di dirigenti quarantenni che non hanno mai ragionato altro che in termini finanziari.

I coefficienti finanziari poi devono essere identici per tutte le imprese affinché l’oligarchia finanziaria e, più in generale, i mercati possano leggerli, compararli e allocare le loro risorse.

Le organizzazioni e il lavoro sono stati normalizzati contabilmente e finanziariamente: le grandi imprese utilizzano gli stessi strumenti universali per farsi capire dai finanzieri di tutto il mondo. È un linguaggio finanziario condiviso, in sostanza un gergo anglosassone chiaro solo al mondo della finanza: pay-offfree cash-flow, ROE e EBITDA che aprono ai decisori orizzonti ignoti al semplice mortale che li crede, sbagliando, complicati. Esiste oggi una lingua della oligarchia finanziaria incomprensibile alla maggior parte dei contemporanei. Quando, nel 1945, l’imperatore Hiro-Hito annunciò per radio al popolo la capitolazione, si dovette tradurlo in giapponese corrente, perché i sudditi non capivano il suo giapponese aristocratico. La storia sembra ripetersi; dai documenti delle imprese, si ha l’impressione che l’oligarchia finanziaria parli a se stessa in una lingua oscura .Bisogna tradurne il significato nella vita reale.

Questa grande trasformazione spiega perché dal 1980 al 2007 in 51 paesi sui 73 per i quali abbiamo i dati i redditi di lavoro sul PIL sono scesi, in media di 9 punti nelle economie avanzate, di 10 punti in Asia, di 13 in America Latina. Sono valori giganteschi. I punti persi sono andati alle rendite finanziarie. Come gigantesca è la concentrazione di ricchezza avvenuta, nello stesso periodo. Negli USA, epicentro e guida del processo, la concentrazione di ricchezza ha raggiunto nel 2007 esattamente lo stello livello del 1928. In Europa i paesi che più da vicino hanno seguito gli USA in questo processo sono stati Inghilterra, Spagna, Italia. In Germania l’indice di concentrazione della ricchezza è inferiore alla media europea ed è diminuito dal 2008, mentre in Italia è aumentato. Ma questo spiega anche perché, al di là delle dichiarazioni retoriche, il tema del lavoro e dell’occupazione non è per nulla in evidenza. Quando ho incominciato a studiare economia il tema della piena occupazione era al centro del pensiero di tutte le scuole economiche. Era questo il parametro base sul quale si commisurava la bontà o meno delle politiche economiche. Oggi non è più così e il tema è stato sospinto nel retrobottega. Perché per affrontarlo seriamente bisogna fare dei grandi programmi pubblici e privati di nuovi investimenti in nuovi settori e attività. E questo è velleitario in un’economia dove gli investimenti li decidono i finanzieri e le banche, in base ai parametri finanziari di cui parlavo sopra. Dopo la grande depressione degli anni 30 del ‘900 si intervenne sull’economia reale e la maggioranza della popolazione vide ricrescere il proprio reddito. Dopo la grande recessione del nostro tempo si è pensato a tenere in piedi la finanza ed a beneficiarne è stato l’1% della popolazione.

La partita, dunque, è difficilissima, quasi disperata. Ma da qualche tempo sprazzi di lucidità appaiono a macchia di leopardo. In molti ambienti siamo almeno ritornati a batterci contro il dominio di quelli che in Olivetti venivano chiamati i “contafagioli”. E questo spiega anche i tanti segnali di rinnovata attenzione ad Adriano Olivetti, ai suoi valori, alla sua concezione d’impresa, al suo rispetto per il lavoro concreto di uomini e donne, al suo amore per la fabbrica e per la comunità, alla sua opera. Ma dobbiamo stare attenti a non indulgere alla nostalgia e ricercare, nel passato, soluzioni a sfide nuove. Dal passato prendiamo i valori, gli insegnamenti, gli esempi, le esperienze che ancora valgono, ma le soluzioni le dobbiamo trovare noi attraverso il coraggio, l’innovazione, e lo spirito di verità (“la parresia” dei greci).Dalla stessa fase della finanziarizzazione, ripulita dalle esasperazioni e strumentalizzazioni, vi sono utili lezioni e utili strumenti da trarre, che forse potevano essere utili anche ad Adriano ed ai suoi.

E qui, ancora, ci aiuta Adriano, quando ammonisce: “I tempi corrono, le cose si muovono, non possiamo fermarci a rimescolare le formule e le istituzioni del passato se non per quella parte di bene che in esse è contenuta e per cui ancora valgono… La luce della verità soleva dirmi mio padre, risplende soltanto negli atti, non nelle parole”.

Ripartiamo da qui, da queste memorie, con la nostalgia certamente, ma anche e soprattutto con speranza, guardando avanti per cercare di insegnare ai giovani a impegnarsi per costruire un futuro economico e imprenditoriale più vicino alla concezione d’impresa di Adriano Olivetti che a quella dei signori Riva dell’Ilva, o delle grandi banche “too big to fail” che, ancora, dominano il governo americano e, per questa via, parte importante del mondo.

In questo impegno ci è di grande aiuto questo prezioso libro di Giuliana Gemelli. Esso ci conforta nella convinzione che Adriano non è solo e che Adriano non piove dal cielo come un profeta od un totem da adorare.

Il primo saggio, importantissimo, ci documenta che la visione umanistica dell’impresa e della necessità di fondere scienze umane e ingegneristiche, tipica di Adriano (e di Camillo), ha radici profonde nei grandi istituti scientifici come il MIT degli anni ’50 e, sia pure in modi diversi, è ben presente nei grandi politecnici europei, compresi Torino e Milano, tutti ambienti con i quali Adriano aveva rapporti profondi ed interattivi.

Il secondo saggio ci accompagna in una tappa fondamentale della formazione di Adriano: il suo primo e più lungo viaggio in America a 25 anni, nell’estate del 1925, circa un anno dopo aver terminato gli studi al Politecnico di Torino. Anche il padre Camillo aveva messo a fuoco le sue idee fondamentali e il suo desiderio di diventare imprenditore nel corso del suo primo viaggio in America. L’America che vede e studia Adriano è un’America molto diversa da quella attuale. E’ l’America di Henry Ford, l’americano anglosassone che Adriano tanto ammirava per le sue innovazioni organizzative; quella delle grandi imprese manifatturiere dirette da ingegneri e innovatori e non da finanzieri e amministrativi; quella delle grandi scuole tecnologiche che lavoravano per sviluppare il “social engineering”; quella pervasa dal pragmatismo sperimentale come essenza del management; quella che inculca nel giovane Adriano l’idea della grande impresa e di che cosa bisogna fare per diventare grande impresa. E’ un’America nell’interno della quale io ho vissuto negli anni ’60 e ’70 e che ho visto, lentamente ma irreversibilmente, diventare una cosa diversa, molto diversa da quello che aveva entusiasmato Adriano. Adriano vive il suo grande viaggio non solo con entusiasmo ma anche con un intenso desiderio di apprendere, ma non gli manca certo una acuta capacità critica. Egli coglie in pieno due delle grandi debolezze americane che stanno alla base del loro declino come paese leader, nel campo economico imprenditoriale nel corso degli ultimi decenni. In America, scrive Adriano, “vi è uno strapotere finanziario”, strapotere che è andato sempre più aumentando sino a dominare ogni e qualsiasi cosa ed a portarci diritti alla crisi del 2007. Ma ancora più acuta è un’altra osservazione critica di Adriano: ” In quasi tutte le grandi aziende i migliori elementi tecnici sono ingegneri svedesi, tedeschi, francesi, russi o italiani. L’educazione americana tecnica è troppo specializzata ed è ottima per i ranghi inferiori e pessima per i direttivi”. Circa 10 anni dopo Maritain, nelle sue lettere dall’America, formulerà giudizi simili.

Ma, per ora, questa America va studiata e approfondita, soprattutto negli aspetti organizzativi ma anche nelle realizzazioni sociali che le migliori “officine americane” realizzano per i loro dipendenti (condizioni igieniche sul lavoro, abitazioni, provvedimenti di carattere complementare a favore degli operai). E in questa direzione il giovane Adriano stimola il suo accompagnatore Burzio, braccio destro di Camillo. E’ nel corso di questo viaggio che Adriano incomincia a riflette sull’assenza della capacità direttiva, che non può rimanere una funzione tecnico-organizzativa ma deve diventare ” una combinazione di qualità soprattutto psicologiche e morali, per mezzo delle quali il dirigente diventa capace di promuovere l’attività e l’azione dei dipendenti, principalmente perché mediamente la sua influenza su di essi sorge la volontà di compiere tali azioni”.

I rapporti interattivi tra Adriano e il mondo olivettiano e l’America rimarranno molto vivi anche negli sviluppo successivi, con la grande esperienza del New Deal che gli olivettiani tenteranno di introdurre nella politica italiana post-bellica, con la collaborazione con le grandi fondazioni americane, soprattutto Ford e Rockfeller che, a lungo, sostennero Adriano e la sua opera, con la tormentata ma esaltante avventura dell’IPSOA di Torino (1952-1965), la prima scuola di management europeo, per la quale Adriano spese tanto impegno e tante speranze e che, come emerge dalla profonda analisi della Gemelli, ci racconta una storia piena di insegnamenti sia nella fase creativa che in quella del declino. Di grande interesse sono anche altri saggi che illustrano che se Adriano interiorizzò profondamente gli impulsi e insegnamenti del management americano, ben presto il rapporto diventò interattivo e bidirezionale. Dall’America non solo si prende, ma anche si dà. I valori olivettiani, infatti, conservano e sviluppano l’approccio del “general management” sul modello delineato da Elton Mayo di un pensiero transdisciplinare e interscientifico, largamente ispirato ai metodi delle scienze biologiche e sociali, e conservano ed esaltano la prospettiva della complessità e ciò proprio mentre la ” formazione del management è andata “taylorizzandosi”, fissandosi cioè su astratti criteri di competenza, efficienza e specializzazione (G. Gemelli). E’ questa resistenza, questa capacità di alimentare “una concezione dell’agire imprenditoriale come vettore di conoscenza e non solo di efficienza” (Gemelli),che collocano Adriano Olivetti tra i grandi pionieri del pensiero manageriale. Un pensiero che diventa oggi, sia sul piano teorico che su quello pratico, ogni giorno più attuale, dopo lo scoppio della crisi del 2007, che non è solo economica ma di vuoto di pensiero manageriale.

Gli ultimi saggi ci accompagnano in un terreno molto complesso che potremmo anche sintetizzare in una domanda che la Gemelli non formula ma che è sottintesa alla sua analisi. cosa sarebbe successo se Adriano non fosse morto così improvvisamente e così giovane? Cosa sarebbe successo della Olivetti e dell’Italia? Sono domande che non ammettono risposte certe, perché nessuno può fornire la controprova. Sono domande simili a quella che mi sono posto tante volte: cosa sarebbe successo in Italia se Cavour non fosse morto a soli 51 anni il 6 giugno 1861, nella fase più delicata del processo di unificazione italiana, lui l’unico capace di tenere testa ai generalacci piemontesi ed al loro grossolano re? Nessuno può dare una risposta certa. ma gli storici ci possono aiutare a capire che, forse, le cose potevano andare diversamente. Forse l’Olivetti poteva sopravvivere e continuare a svilupparsi. Forse la sua elettronica non era, nonostante la drammatica morte anche di Mario Tchow, un “neo” da estirpare come disse Valletta, ma una punta avanzata della nuova Italia industriale che in quegli anni si volle normalizzare, come scrive Gallino. Forse la crisi finanziaria della Olivetti nel febbraio 1960 era una piccola crisi come mi illustrò, varie volte, in modo convincente Ottorino Beltrami. Forse aveva ragione Roberto Olivetti nei lucidissimi documenti rivolti a Visentini che, molto opportunamente, la Gemelli fa emergere dall’oblio. Forse aveva ragione Aurelio Peccei nella drammatica lettera di dimissioni da vice presidente del marzo 1970, inviata al presidente Visentini, con parole che sono pietre: ” Non posso esimermi dal ripetermi ancora come alcune tue impostazioni mi sembrano troppo distanti da quella che oggi deve essere l’organizzazione di un processo decisionale efficiente di un’azienda complessa. In molte imprese italiane purtroppo l’informazione è strumento di potere e non di gestione”. Forse aveva ragione Bombieri, in quegli anni consigliere delegato di Comit, che, quando morì Roberto, lui ormai ritirato in pensione in Svizzera, in una intervista sulla Stampa, disse: ” Noi (noi estabilshment) non avevamo capito niente”. Forse Adriano avrebbe avuto la forza di resistere e reagire alle concomitanti forze della instabilità familiare, della opposizione interna alla Olivetti da parte dei meccanici, delle ostilità esterne del capitalismo italiano. Forse aveva ragione Perotto, con il quale ebbi il piacere di intrattenermi tante volte, ad affermare che se i grandi calcolatori erano fuori dalla portata dell’Olivetti, nell’informatica distribuita l’Olivetti aveva ancora tante carte da giocare. Forse aveva ragione il De Benedetti della prima fase della nuova primavera olivettiana (1978-81), alla quale ebbi occasione di partecipare direttamente ed intensamente, a credere alla possibilità del rilancio della Olivetti, insabbiatasi poi nuovamente sia per errori strategici del vertice che per il perdurare di un ” contesto culturale, istituzionale e politico lontano anni luce” da quello necessario per sviluppare un’industria tecnologicamente avanzata. Forse ha ragione la Gemelli quando conclude: ” La profondità della crisi va dunque analizzata non solo dal punto di vista della congiuntura economica produttiva e finanziaria ma come un collasso comunicativo derivato dall’irruzione di configurazioni mentali totalmente sorde o addirittura contrastanti nei confronti della matrice olivettiana e al tempo stesso perfettamente consone col modello del capitalismo italiano”.

Forse ho ragione anche io quando dico, come ho sempre detto, che gli assassini dell’Olivetti sono tanti, ma il suo principale affossatore ha un nome e cognome: Bruno Visentini. La Gemelli, con il suo prezioso lavoro, lancia fasci di luce sulla parte finale della storia della Olivetti, quella successiva alla morte di Adriano. Altri hanno dato, sullo stesso periodo, contributi utili. Ma attendiamo, con ansia, una storia approfondita, completa e veritiera di quei decenni, perché si tratta di una storia che non solo ci illustrerà perché l’Olivetti è finita ma anche perché l’Italia è finita così male e perché l’unità di misura di un possibile ricupero non solo economico ma civile dell’Italia è ormai il secolo.

Intervento effettuato alla presentazione tenutasi a Forlì, Libreria Feltrinelli Piazza Aurelio Saffi 38, Mercoledì 18 giugno 2014

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