Il 21 settembre scorso se n’è andato anche Alberto Magnaghi. Un compagno con il quale abbiamo fatto pezzi di cammino assieme, ci siamo conosciuti nel ’68 o nei primi mesi del ’69, in quel periodo di massima intensità, che ha significato, credo, per ambedue l’ingresso in quella “via di non ritorno” che è stata una certa militanza politica. Lui con un passaggio importante nel PCI ed io con una provenienza tutta esterna alle organizzazioni del movimento operaio, i “Quaderni Rossi” delle origini (1961-62). Abbiamo partecipato alla fondazione di “Potere Operaio”, un’esperienza che, per quanto abbia lasciato la bocca amara ad ambedue, non ha impedito che restassimo fedeli a un modo di pensare, di leggere la realtà, di unire pensiero e azione, che ci ha accompagnati tutta la vita, perché l’operaismo è qualcosa che viene prima e che va oltre “Potere Operaio”.
Ambedue diventiamo nel 1970 assistenti di ruolo, lui a Milano io a Padova, e inizia la nostra carriera universitaria, di cui lui percorrerà tutte le tappe fino a diventare professore emerito, mentre la mia finirà miseramente con la sospensione dall’insegnamento. Nascono i “Quaderni del territorio”, la rivista che comincerà a strutturare la sua proposta teorica dentro un collettivo di ricerca. Il punto di riferimento, il maestro, è Romano Alquati, dunque l’impronta è ancora operaista, risente dei discorsi su la “città-fabbrica”, presenti già nelle lotte studentesche. Le analisi sono minuziose e vertono essenzialmente sulle modificazioni della composizione della forza lavoro dopo l’esplosione dell’insubordinazione operaia del 1967-73, il primo ciclo di lotte che vede protagonista l’operaio massa. Ma l’esplorazione dei “Quaderni del territorio” non si ferma al processo produttivo, alla giornata lavorativa, allarga l’orizzonte alla vita operaia “dal tramonto all’alba”, per dirla con il titolo di un libro-chiave della sinistra radicale americana. In quegli anni, gli anni dei “consigli di fabbrica”, si era parlato tanto di “consigli di zona”, istituzione che avrebbe dovuto rappresentare l’ambizione del sindacato di governare processi sociali a tutto campo, invadendo un terreno tradizionalmente riservato ai partiti. I “Quaderni del territorio” non seguono questo percorso un po’ meccanicistico, mantengono il rigore necessario alla costruzione di un sistema di pensiero. Capiscono che prima di poter parlare di nuove istituzioni, di nuove rappresentanze, occorre capire dove va a finire la scomposizione di classe. Perché di questo si tratta. Con la crisi petrolifera del 1973 il capitale globale sembra aver ripreso in mano le redini della storia, la fase offensiva del ciclo di lotte ha raggiunto il suo apice e la strategia di disgregazione della classe operaia è cominciata. I “Quaderni del territorio” colgono subito che la controffensiva del capitale non è quella della repressione ma della frammentazione della forza-lavoro, della precarizzazione. Ma qui si fermano, la fase delle proposte progettuali resta allo stato embrionale. Per Alberto la svolta, il salto in avanti, avviene dopo l’esperienza del carcere. San Vittore, Rebibbia lo richiamano al desiderio di libertà, all’utopia, raffigurate nelle macchine del volo, gli alianti, che lui evoca spesso nelle sue corrispondenze dal carcere e che hanno costituito un hobby trasformatosi dietro le sbarre in una simbologia. Ci eravamo persi di vista non solo perché lui era “dentro” ma perché io avevo lasciato l’Italia e quando, al ritorno, ci siamo ritrovati, ambedue eravamo diversi ma carichi di una voglia di rivincita inconfessata ma non per questo meno bruciante. L’abbiamo fatto lungo percorsi del tutto diversi. Rivincita significava dimostrare la forza e la validità delle nostre idee, della nostra capacità di lettura ed interpretazione della realtà, dei nostri modi di essere e di vivere professionalmente nello spirito, nel committment, dell’antica militanza, senza chiedersi se valeva la pena o meno utilizzare anche apparati teorici simili a quelli che avevamo usato per stare dentro un flusso di ribellioni che erano state sconfitte. Riconoscere una sconfitta non significa pentirsi di essere stati, come dice Brecht, “dalla parte del torto”. Ma è anche vero che Alberto in quella fase sembra voler accentuare il distacco dall’operaismo, ha persino atteggiamenti di rigetto, accusando quella visione politica di non aver mai immaginato un modello diverso di sviluppo. L’orizzonte nel quale si muove il suo pensiero sembra che abbia bisogno di una rigenerazione, ma è solo un momento di transizione, perché da qui – trasferitosi tra l’altro dal Politecnico di Milano all’Università di Firenze – inizia il periodo più importante e fecondo della sua produzione di pensiero, quella che è interamente posseduta dal bisogno di progettazione, di cambiamento, di azione concreta. La premessa è un modo nuovo di leggere il territorio, di definirlo, un modo nuovo di analizzare e descrivere il paesaggio con “le comunità di luogo”, cellule di una convivenza solidale che resiste alla omologazione delle metropoli. Alberto coglie immediatamente la trappola in cui può precipitare l’ambientalismo, quella di rifiutare in toto la civilizzazione, sognando una rinaturalizzazione del territorio che è la rinuncia stessa a un progetto, a un’azione. Le “comunità di luogo” sono patrimoni culturali innanzitutto, che conservano gelosamente cellule di socialità in grado di rigenerarsi, che tutelano la propria specificità, sono presidi di civiltà e motori d’innovazione. Il trasferimento di Università lo porta a vivere in campagna, in uno splendido borgo toscano. Con Anna, la sua nuova compagna, stabilisce un sodalizio professionale che si tradurrà in piani paesaggistici regionali, in progettazione di territori sottratti alla disumanizzazione. La protezione dell’ambiente diventa oggetto di un nuovo patto sociale (i “patti territoriali”, i “contratti di fiume”). Il ritorno alla terra è anche ritorno ai suoi vecchi hobby, agli alianti, agli strumenti a fiato, coltiva la vite e produce in quantità minime un vino eccezionale, la sua è famiglia di geografi, di agronomi di fama internazionale. Ricompare in lui il morbo maledetto, già manifestatosi, ma non diagnosticato, in carcere, e qui inizia una guerriglia con la morte che Alberto riuscirà a reggere per anni, sotto gli occhi stupefatti dei medici, continuando a perfezionare la sua visione teorica, fedele al valore costituente di quel “principio territoriale” che è ormai il riferimento di una schiera di studiosi e docenti delle Facoltà di architettura. Nasce la “Società dei territorialisti” come iniziativa che garantisce una continuità di scelte intellettuali, di coerenza di pensiero. E lui ritorna ai luoghi della sua infanzia, a quell’angolo della Valle Uzzone dove comincia a ricostruire cascine in rovina, a riaprire sentieri ormai irriconoscibili, a consolidare muri di sostegno, a introdurre coltivazioni biologiche, accolto da quella comunità di luogo in cui sembra aver ritrovato il seno materno, affiancato, sorretto, protetto, da Anna.
Il percorso terreno di Alberto Magnaghi è stato caratterizzato da una grande coerenza e da una straordinaria integrazione tra presenza pubblica e stile di vita, tra quello che è riuscito a produrre in termini di pensiero e di azione pubblica e il modo in cui è rimasto profondamente attaccato alle sue radici, ai suoi luoghi, in un continuo scambio di sollecitazioni tra il pubblico e il privato. Chi lo ha frequentato ha potuto godere della sua convivialità e della sua autoironia, consapevole di far parte sempre di una crescita collettiva, in una dinamica permanente di donare e di ricevere. Un compagno, insomma.