Il 5 novembre 1966 l’Arno straripò e invase molti quartieri di Firenze e allagò molti edifici, fra cui la Biblioteca Nazionale che è proprio in riva al fiume. Tutto il mondo assistette sbalordito, attraverso la televisione, all’estrazione, da parte di centinaia di volontari, di centinaia di migliaia di libri preziosissimi, alcuni rarissimi o unici, dalla massa di fango, nafta e fogna che li aveva impregnati e ricoperti.
Voi direte che l’alluvione di Firenze non c’entra con la luce e invece c’entra, come vedrete se avrete la pazienza di andare avanti. Liberare dal fango e pulire i libri e ricomporli e proteggere la carta, era un lavoro da chimico e, con i miei colleghi dell’Istituto di Merceologia dell’Università di Bari, decidemmo di dare anche noi una mano al salvataggio di un patrimonio irripetibile. Qualche giorno dopo l’alluvione andai a Firenze per chiedere l’invio nell’Istituto di Bari di una camionata di libri che lavammo e restaurammo nell’inverno e nella primavera del 1967. Nel corso della visita a Firenze vidi emergere, fra le pagine che venivano a mano a mano estratte dal fango, delle figure che mi erano familiari: era un poco come se venisse fuori, ancora vivo, sia pure sporchissimo, un amato figlio: si trattava dell'”Ottica” di “Alhazen arabo” tradotta da Vitellione e pubblicata a Basilea nel 1572. Ai tempi dell’alluvione avevo appena completato un articoletto sulla storia e le opere di Alhazen — il nome arabo è Ibn al-Haytham — scritto in occasione del millenario della nascita di questo personaggio straordinario, scienziato e teologo, inventore e filosofo.
Nelle pagine del libro che tornava alla luce dal buio del fango, erano contenute le conoscenze che stanno alla base di tutte le applicazioni moderne della luce; scusate il gioco di parole. Non avreste i vetri delle finestre o delle automobili, così come sono, non illuminereste le stanze e le case con i più raffinati accorgimenti della “bioarchitettura”, non riuscireste a pettinarvi (voi gentili lettrici) o a farvi la barba (voi lettori) davanti allo specchio, le automobili e le gallerie non avrebbero i catarifrangenti — se mille anni fa questo Alhazen non avesse dedicato la vita a studiare proprio il comportamento della luce quando attraversa l’atmosfera, l’acqua, i vetri, quando viene riflessa dagli specchi.
Alhazen era nato a Bassora nel 965, aveva proseguito gli studi a Baghdad (si, proprio quella Bassora e quella Baghdad che abbiamo sentito citare tante volte, quando venivano bombardate durante la guerra Iran-Iraq del 1981-89, durante la guerra del Golfo del 1991, durante la seconda guerra del Golfo del 2003 e nel disastro che ne è seguito), poi era vissuto al Cairo, poi in Spagna, poi ancora al Cairo, dove morì nel 1039.
A Bassora aveva sentito parlare delle inondazioni del Nilo e aveva progettato un sistema di dighe per evitarle. Il califfo al-Hakin lo invitò in Egitto a attuare il suo progetto, che però dovette essere abbandonato e Alhazen, per sfuggire all’ira del califfo, dovette stare chiuso in una casa del Cairo per molti anni. Tanto per occupare il tempo, si mise a tradurre in arabo le opere scientifiche greche, soprattutto di Euclide e Tolomeo, perfezionandole, correggendone gli errori, e aggiungendo le sue osservazioni, come diremmo oggi, “sperimentali”. Alhazen scrisse un centinaio di opere, fra traduzioni dal greco e opere originali, fra cui la gigantesca “Ottica”, sopravvissute in migliaia di manoscritti e tradotte e commentate in Occidente, in latino ed ebraico, già nell’undicesimo, dodicesimo e tredicesimo secolo.
Il suo contributo principale riguarda la rifrazione della luce, un fenomeno studiato da Tolomeo, il cui “Almagesto”, l’opera grande, fu tradotta, commentata e approfondita da Alhazen; quando la luce raggiunge una superficie trasparente in modo non perpendicolare non prosegue in linea retta, ma subisce una deviazione, fenomeno detto rifrazione. Alhazen osservò correttamente il rapporto, costante, fra l’angolo, di incidenza, con cui il raggio di luce raggiunge la superficie trasparente, e quello di rifrazione, con cui il raggio di luce prosegue il suo cammino. Misurò tale rapporto per molti corpi trasparenti, fra cui il vetro, l’acqua e l’atmosfera, e oggi, a mille anni di distanza, la misura dell’indice di rifrazione permette di svelare molte frodi alimentari e di progettare e migliorare i vetri commerciali.
Alhazen fu il primo a riconoscere che, quando l’ultimo bordo del cerchio del Sole scompare all’orizzonte, il Sole è già 19 gradi al di sotto dell’orizzonte stesso; per il fenomeno della rifrazione della luce attraverso l’atmosfera, la luce solare continua ad arrivare al nostro occhio anche quando il Sole “non c’è più”. Alhazen spiegò correttamente che, sempre per fenomeni di rifrazione della luce attraverso l’atmosfera, i corpi appaiono “più grandi” quando sono vicino all’orizzonte e spiegò come si forma l’arcobaleno che ci incanta con i suoi straordinari colori.
Soprattutto scoprì, una cosa rivoluzionaria per quale tempo, che non è l’occhio ad emanare dei raggi che arrivano al corpo osservato, come credevano tutti fino allora, sulla base dell’indiscussa autorità degli scritti di Ippocrate e Galeno, ma è il corpo illuminato che emana dei “raggi” che entrano nell’occhio. Alhazen immaginò, qui sbagliando, che l’immagine si formasse nel cristallino e non “rovesciata” sulla retina.
Tuttavia descrisse nel modo giusto il funzionamento della “camera oscura”, uno spazio buio con un buco fatto su una parete; Alhazen osservò e spiegò che sulla parete opposta al buco si forma una immagine rovesciata dell’oggetto esterno i cui “raggi” entrano nel buco stesso. Ricordatevi, ogni volta che fate click con la vostra macchina fotografica (analogica…), che siete debitori della sua invenzione agli studi di questo arabo di mille anni fa, e anche a quelli di Ruggero Bacone (1214-1291), il furbo frate che conobbe una traduzione latina dell'”Ottica” di Alhazen e approfondì il problema, anche se la prima camera oscura in senso “fotografico” moderno sarebbe stata costruita solo mezzo millennio dopo.
Alhazen descrisse correttamente come arriva e viene riflessa la luce dagli specchi piani e concavi e, dal momento che c’era, descrisse il funzionamento degli “specchi ustori”, su cui circolavano tante leggende, a cominciare da quella secondo cui Archimede avrebbe bruciato le vele delle navi romane a Siracusa concentrando su di esse, mediante specchi, i raggi del Sole. Una ricostruzione di fantasia si trova proprio nel libro di cui ho visto una copia in mezzo al fango di Firenze, l’edizione a stampa della traduzione latina dell'”Ottica” di Alhazen commentata dal polacco Vitellione (1230-1275).
La concentrazione della radiazione solare mediante specchi sta alla base di alcune tecniche per utilizzare a fini energetici la radiazione solare. Alhazen osservò anche dove e come la luce solare viene concentrata quando passa attraverso una sfera trasparente, fenomeno utilizzato ancora oggi nei “solarimetri” di Campbell, gli strumenti con cui si misura il numero di ore di insolazione di un territorio, altro strumento essenziale per la bioarchitettura. Per inciso per stabilire il punto esatto in cui la luce solare si concentra passando attraverso una sfera, Alhazen dovette risolvere un’equazione di quarto grado, la prima della storia. Lo studio delle lenti e degli specchi gettò le basi per l'”invenzione” degli occhiali, che però avrebbe dovuto aspettare altri cinquecento anni.
E infine quando, in una notte serena, osservate la luce della Luna insieme al(la) vostro(a) amoroso(a), ricordate che è stato proprio Alhazen a capire che quella della Luna è “luce secondaria” cioè non è emessa dal corpo, la Luna, ma si osserva su un corpo quando esso è colpito “da luce primaria”, quella del Sole.
Se volete sapere di più su quanto dobbiamo, nel campo della luce, agli Arabi, ad Alhazen e ai suoi traduttori, andate a cercare il libro di Vasco Ronchi, “Storia della luce”, pubblicato da Laterza nel 1983. Se poi usate Internet, partendo dalla voce “Alhazen” arriverete a innumerevoli “siti” pieni di sorprese.