Cadeva, nel 2005, il centenario della nascita di un discusso studioso dei rapporti fra popolazione, risorse e ambiente. Colin Clark era nato nel 1905 in Inghilterra; si è laureato in chimica, ma per tutta la vita si è dedicato agli studi economici; negli anni Trenta del Novecento ha lavorato alla prestigiosa London School of Economics nel giro dei colossi dell’economia mondiale, nell’età dell’oro degli studi economici quando i migliori cervelli furono mobilitati per inventare degli strumenti di analisi da cui trarre indicazioni di politica economica per far uscire il mondo dalla grande crisi del 1929-33.
L’analisi intersettoriale dell’economia, elaborato da un giovane emigrato in America dall’Unione sovietica, Wassily Leontief, permetteva di misurare la circolazione della ricchezza attraverso un paese. Colin Clark propose un indicatore cha riassumesse tutte le informazioni in un unico indice, valido per ciascun paese per un certo anno; nasceva così il “Prodotto interno lordo” (PIL), un numero che indica quanta ricchezza di un paese viene utilizzata per soddisfare le necessità finanziarie dei pubblici servizi e delle famiglie. Con opportuni aggiustamenti, da quei primi calcoli si è arrivati agli attuali valori che permettono di fare confronti internazionali e di misurare, per ciascun paese, le variazioni del PIL da un anno all’altro.
Nel 1940 Colin Clark riassunse i risultati delle sue ricerche nel volume “Le condizioni del progresso economico”, che ebbe varie edizioni e numerose traduzioni. Per inciso è uno dei pochi testi, scritti da laici, citati nell’enciclica “Populorum Progressio” di Paolo VI del 1967, nei passi in cui insiste sul fatto che l’economa e la tecnica devono essere al servizio dell’uomo e devono essere in grado di rendere “la terra” più abitabile.
Il periodo fino agli anni quaranta del Novecento è quello che si potrebbe dire del Colin Clark “di sinistra”, impegnato nel partito laburista di cui fu anche candidato alle elezioni. Dopo alcuni anni trascorsi in Australia, nel 1952 Clark lavorò alla FAO, la organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura, e dal 1953 al 1969 insegnò ad Oxford, in Inghilterra, economia agraria, conducendo le ricerche che lo avrebbero portato al centro di vivaci polemiche. .
Negli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso divampava la discussione sui rapporti fra rapida crescita della popolazione mondiale e capacità della Terra di produrre alimenti in quantità sufficiente. La Terra era abitata da 2.500 milioni di persone nel 1950, da 3.000 milioni nel 1960, da 3.700 milioni nel 1970; ci sarebbe stato cibo sufficiente per una popolazione mondiale che aumentava, allora, di 90 milioni di persone all’anno, soprattutto nei paesi sottosviluppati ? Ma poi una tale popolazione in aumento avrebbe richiesto, oltre al cibo, anche acqua, abitazioni, acciaio, concimi artificiali, legname, e si cominciavano ad intravvedere i segni della crescita dei grandi agglomerati urbani, delle guerre per le materia prime. Una corrente di studiosi, che veniva definita neomalthusiana, suggeriva che occorreva porre limiti all’aumento della popolazione e ai consumi e ai conseguenti inquinamenti ambientali.
Le chiese cristiane erano divise sulla opportunità e sui metodi per realizzare un rallentamento del tasso di crescita della popolazione; la chiesa cattolica era fermamente contraria ai contraccettivi e all’uso della “pillola” che era stata scoperta e messa in commercio nel 1951.
Colin Clark contestò le tesi neomalthusiane: con quella capacità di “macinare” e elaborare numeri e statistiche, che lo aveva reso celebre, si dedicò a misurare la disponibilità di suoli coltivabili sulla Terra, la potenzialità delle rese agricole, e le prospettive di aumento e si convinse che il pianeta Terra avrebbe potuto ospitare e sfamare 45.000 milioni di persone (la popolazione mondiale attuale nel 2005 è di 6.300 milioni). Nel 1967 pubblicò un libro intitolato: “La crescita della popolazione e l’uso della Terra” che riassumeva i risultati delle sue ricerche; tali risultati furono apprezzati dal Vaticano tanto che Clark fu nominato da Paolo VI come membro della celebre e controversa commissione che avrebbe portato alla redazione dell’enciclica “Humanae vitae” del 1968. Dal 1969 alla morte, avvenuta nel 1989, insegnò in Australia. Nel 1974 apparve un altro suo libro, “Il mito dell’esplosione demografica”, citatissimo da tutti i contestatori della tesi dei limiti alla crescita.
Calmato il furore delle polemiche possiamo oggi guardare in modo più disteso i rapporti fra popolazione e ambiente. La popolazione mondiale sta aumentando al ritmo di 60 milioni di persone all’anno (che non sono poche); la diffusione del benessere nei paesi emergenti sta portando ad uno spontaneo controllo delle nascite, ma nello stesso tempo si ha un aumento degli anziani e una crescita abnorme delle città e della fragilità ecologica degli spazi urbani. L’illusione della crescita della disponibilità di alimenti deve fare i conti con l’erosione del suolo, la scarsità di acqua, i mutamenti climatici di cui si è parlato più volte; l’aumento della produzione agricola per ettaro impoverisce i terreni agricoli delle indispensabili sostanze nutritive e finisce per rallentare le speranze di ulteriori aumenti. Senza contare che la popolazione mondiale (che diventerà di diecimila milioni nel corso del XXI secolo) ha bisogno anche di altri “beni naturali” la cui disponibilità è molto ineguale e il cui possesso è oggi e sarà in futuro fonte di conflitti.