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La parabola dei Nauriani

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Girando in Internet, quello sterminato magazzino di notizie a cui si accede con un computer e un collegamento telefonico, mi è capitata sotto gli occhi una notiziola pubblicata a metà dicembre 2005 in un giornale australiano: Nauru, una piccola isola nell’Oceano Pacifico, a est della Nuova Guinea, non potrà più essere collegata col resto del mondo perché l’unico aeroplano che possedeva è stato sequestrato da una banca a cui il governo non poteva rimborsare più i suoi debiti. A sentire questo nome ho ricordato un articolo, apparso il 3 luglio 1970 nel quotidiano americano “Washington Post”, secondo cui i 6000 abitanti di questo piccolo stato dell’Oceano Pacifico, indipendente dal 1968, avevano un reddito (allora) di circa 6.600 dollari all’anno per persona, superiore a quello degli Stati Uniti. Erano, insomma, i cittadini più ricchi del mondo. La loro ricchezza proveniva dalle esportazioni di minerali fosfatici; l’isola è, infatti, un grande giacimenti di guano (gli escrementi mineralizzati di uccelli marini), utilizzato come materia prima per la fabbricazione di concimi fosfatici e di altri prodotti industriali. Nauru era, con pochi altri paesi – il Marocco, la Florida, la (allora) Unione Sovietica – fra i principali esportatori di una materia prima essenziale per l’agricoltura e in crescente richiesta.

Con i loro tanti soldi i Nauriani avevano potuto acquistare un gran numero di automobili (cinquemila su seimila abitanti), anche se non avevano strade su cui farle correre, di frigoriferi, anche se dovevano importare con navi cisterne da centinaia di chilometri di distanza, e dovevano importare la benzina gli alimenti da conservare e perfino l’acqua da mettere al fresco, trasportata e la mano d’opera per l’estrazione dei fosfati.

Ma il Washington Post già trent’anni fa aveva notato che i giacimenti di fosfati non erano illimitati e che un giorno si sarebbero esauriti: una volta che si fossero “mangiati”, pezzo per pezzo, la loro isola e si fosse asciugata la fonte della loro ricchezza dove sarebbero andati i Nauriani con le loro automobili e frigoriferi e masserizie e con i loro soldi?

I segni dell’impoverimento dei giacimenti si fecero ben presto sentire e già nel 1987 i Nauriani erano stati costretti a pubblicare sui giornali una inserzione: “Isola cercasi”, un’isola… da comprare, in cui trasferirsi. Nelle isole vicine non li vogliono, neanche per soldi, per non turbare i delicati equilibri etnici esistenti; se riusciranno a trovare una nuova sede i Nauriani incontreranno problemi di assimilazione con altre popolazioni. E faranno fatica anche a spostarsi perché sono finiti, insieme alle riserve di minerali, anche i soldi accumulati; gli resta una terra arida e sterile, e adesso non hanno più neanche l’unico aeroplano della loro linee aeree.

Il racconto ha una amara morale: i Nauriani per avidità di soldi, hanno venduto la loro stessa casa, la propria isola. La loro storia rappresenta un nuovo avvertimento del possibile destino futuro di tutta l’umanità, se si continua nella strada di una crescita economica che avviene a spese delle risorse naturali del pianeta. La minoranza ricca dei terrestri si sta comportando, nei confronti di una isola, sia pure più grande, il pianeta Terra, con la stessa logica miope e imprevidente seguita dai Nauriani. Anche noi, come i Nauriani, abbiamo basato tutta la nostra vita sulla necessità, anzi sulla virtù, di far aumentare la ricchezza individuale e collettiva – il prodotto interno lordo – pur sapendo che ciò comporta, alla lunga, la distruzione della base fisica della nostra vita. È infatti possibile avere più merci e denaro, produrre e consumare di più, soltanto a spese delle riserve di minerali e di acqua, della fertilità del terreno, contaminando i campi, i fiumi e l’aria, peggiorando, cioè, le condizioni di vita e di salute.

Barbara Ward (1914-1981), una attenta a lungimirante economista cattolica inglese, scrisse nel 1972, che la Terra è come una nave spaziale: da questo piccolo e fragile pianeta, unica casa che abbiamo nello spazio, ricaviamo minerali, cibo, acqua, aria, energia. Nella Terra noi scarichiamo e concentriamo escrementi e rifiuti. Ma le riserve di terra coltivabile, di minerali, di acqua dolce, la capacità dei mari e dell’aria di ricevere e assorbire i nostri rifiuti, sono limitate, anzi in certe zone sono già scarse, e tendono a diminuire. La crescita della ricchezza monetaria in alcuni paesi può avvenire soltanto con l’intossicazione dei loro abitanti, soltanto con lo sfruttamento delle risorse naturali dei paesi poveri. Questo tipo di corsa alla ricchezza crea perciò malattie ai ricchi e malattie ai poveri, compromette la sopravvivenza futura di tutti.

Se non vogliamo finire come i Nauriani, dobbiamo ripensare i processi di produzione, i modelli di consumo, gli stili di vita: bisogna inventare una nuova tecnica e una nuova economia, bisogna riscoprire nuove scale e indicatori di valori, compatibili con la dimensione limitata delle risorse naturali della Terra; non c’è nessun luogo, negli spazi interplanetari, in cui sei miliardi e mezzo di persone (oggi; sette o otto miliardi fra venti o trent’anni) possano trarre luce, energia e vita, possano gettare le proprie scorie e i propri rifiuti. I Nauriani potranno – forse – trasferire la loro ricchezza e le loro macchine in “un altro posto”, ma noi terrestri non possiamo mettere nessuna inserzione del tono: “Pianeta cercasi”.

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