Nei primi anni novanta del Novecento, nel quasi totale disinteresse generale, sono state chiuse definitivamente le ultime miniere di carbone del Belgio e si sono avviate alla chiusura anche le miniere di carbone inglesi. Proprio nei paesi europei che devono al carbone il loro successo commerciale, la nascita della moderna società industriale, il carbone sembra avviato verso il declino.
Anche se la sua produzione mondiale supera ancora i quattro miliardi di tonnellate all’anno, la concorrenza di abbondanti e meno costose fonti di energia fossile – petrolio e gas naturale – rende “meno economica” l’estrazione del carbone in Europa.
Il carbone, una volta considerato il “re” delle fonti di energia, è sulla via del tramonto? Oppure è ancora destinato ad avere un ruolo importante nella società del futuro?
L’era del carbone, noto e utilizzato come combustibile fin dal 1200, è cominciata nella metà del 1600 per il verificarsi contemporaneo di vari eventi. Le attività minerarie, artigianali, industriali fino al 1600 usavano il legno come principale fonte di energia e come materiale da costruzione. A partire dalla metà del 1600 crebbe rapidamente la domanda di legno sia per la costruzione di abitazioni, navi, ponti, sia come combustibile e per la produzione della “carbonella”, il carbone di legna. Era questo il materiale utilizzato da sempre per la trasformazione dei minerali di ferro in ferro metallico, richiesto anch’esso in quantità crescenti per la fabbricazione di macchine e di armi.
L’eccessivo sfruttamento per fini “economici” dei boschi portò ben presto, in molti paesi europei, alla progressiva distruzione delle foreste e il legno cominciò a scarseggiare. Questo primo vistoso esempio di scarsità di una risorsa naturale, il legno, indusse gli imprenditori a cercare altre fonti di energia e altri agenti per la fabbricazione del ferro.
La richiesta di nuove merci nei paesi industriali, la nascita di una borghesia imprenditoriale sempre più avida di profitti, di innovazione, di invenzioni, di nuovi manufatti, spinsero in molti paesi, soprattutto Inghilterra, Francia, Paesi Bassi, gli studiosi a esplorare il mondo della natura con occhio attento a fini pratici. La curiosità scientifica verso le risorse naturali era ispirata dalla voglia di capire come erano fatte, ma anche di capire se le conoscenze fisiche e chimiche potevano servire nelle fabbriche e nell’economia.
A partire dai primi anni del 1700, si cominciò ad usare in quantità crescenti, al posto del legno, il carbone fossile che era presente nel sottosuolo di molti paesi europei e che si prestava bene come fonte di calore e quindi di energia nelle prime rudimentali macchine a vapore che azionavano pompe, mulini e magli.
I naturalisti cercarono di capire come era fatto il carbone, che cosa c’era “dentro” quei pezzi di materiale fossile nero e lucido. Ben presto scoprirono che il carbone, quando viene scaldato ad alta temperatura, si “scompone” in un residuo solido duro e resistente, che fu chiamato coke, e in una miscele di gas anch’essi combustibili.
La scoperta fu fatta in Inghilterra nel 1688 e nel 1709 il coke cominciò ad essere usato nel trattamento dei minerali di ferro; il ferro poteva così essere prodotto a basso prezzo, di migliore qualità, adatto per la fabbricazione di macchine a vapore più grandi e potenti capaci di bruciare crescenti quantità di carbone.
Finiti i giacimenti superficiali, soprattutto in Inghilterra, ma anche in Francia e Germania, bisognava andare a scavare il carbone in pozzi sempre più profondi che spesso erano invasi dalle acque; l’acqua doveva essere pompata continuamente in superficie mediante macchine a vapore.
Nel 1765 l’inglese Watt introdusse dei perfezionamenti nella macchina a vapore: le nuove macchine, a parità di potenza, consumavano meno carbone e il carbone poteva essere estratto dalle miniere a costi minori.
In pochissimi decenni la richiesta di carbone aumentò in modo incredibile, così come, in una reazione a catena, aumentò la produzione di ferro e acciaio, il numero delle macchine a vapore, il numero delle macchine tessili, la produzione di tessuti di cotone.
Nei paesi in cui furono più rapidi tali mutamenti – Inghilterra, Francia, Germania, Belgio – aumentò la disponibilità di merci a basso prezzo, la domanda di mano d’opera, aumentò la ricchezza dei proprietari delle fabbriche e delle miniere. Si afferma, nel corso del 1700, la maniera capitalistica di produzione, la nascita di improvvise ricchezze, ma si diffonde anche lo sfruttamento dei lavoratori, nel fondo delle miniere sotterranee, nelle filande, nelle ferriere.
I salari delle fabbriche, pur miserevoli, sono più elevati di quelli ricavabili nelle povere campagne e milioni di persone migrano nelle città industriali, fumose e inquinate, con le fogne che scorrevano in mezzo alle strade. È una rivoluzione nei costumi, nel modo di vivere, nella struttura delle città, la “rivoluzione industriale”, come la chiamò Engels nei primi del 1800.
Il fervore di mutamento che attraversa il 1700 è accompagnato da eccezionali progressi nelle conoscenze scientifiche; la chimica e la fisica moderna trovano qui le loro radici. Un circolo di intellettuali si organizza per pubblicare, fra il 1751 e il 1772, la “Enciclopedia delle scienze, delle arti e dei mestieri”; circolano idee nuove contro i nobili, gli ecclesiastici, i proprietari terrieri. La voce di una nuova classe, la borghesia, propone nuovi diritti che sfoceranno nella rivoluzione americana contro l’Inghilterra e nella Rivoluzione francese.
Si può ben dire che tutto questo non si sarebbe verificato senza il carbone. Negli ultimi anni del 1700 il carbone fa un altro regalo all’umanità: la luce artificiale. I gas che si formano, insieme al coke, durante il riscaldamento del carbone, opportunamente depurati, bruciano con una fiamma luminosa e possono essere distribuiti, mediante tubazioni, nelle strade e nelle case: le lampade alimentate a gas di carbone, a partire dal 1800, sostituiscono le candele e le lampade ad olio nella illuminazione delle strade delle città, dei teatri e delle aule universitarie, delle case e dei circoli operai.
L’illuminazione a gas permette di allungare la giornata lavorativa e lo sfruttamento degli operai nelle fabbriche, ma consente anche alla classe operaia di leggere, di riunirsi, di conoscere il volto della propria oppressione e di preparare le vie per la propria liberazione. È ancora tutta da scrivere la storia della illuminazione artificiale e delle sue conseguenze sociali.
Ma il carbone, a partire dal 1800, mostra anche altre importanti potenzialità; da tempo aveva avuto un impiego “chimico” nella trasformazione dei minerali di ferro in ferro e acciaio; con l’aumento delle conoscenze chimiche il carbone si rivela un ingrediente essenziale in molte altre lavorazioni.
Il carbone è essenziale per la preparazione industriale del carbonato sodico, del cloro, e quindi per il lavaggio dei tessuti e per la disinfezione delle acque.
Dal lavaggio del gas di carbone si ottiene come sottoprodotto una materia catramosa e sono ancora i chimici nei loro laboratori a rivelare che il legno, spalmato con catrame, diventa inattaccabile all’acqua e ai microbi.
Il trattamento con catrame delle traversine ferroviarie è essenziale per la diffusione delle ferrovie; se sono trattati con catrame i pali di legno delle linee telegrafiche e telefoniche possono resistere decenni nel terreno e questa apparentemente modesta scoperta permette una rivoluzione nelle comunicazioni a distanza.
Una volta che i chimici ebbero imparato ad analizzare il catrame di carbon fossile scoprirono che alcune molecole possono essere trasformate in coloranti per tessuti, utili come l’indaco, ma molto meno costosi. Milioni di contadini indiani sono colpiti dalla miseria quando l’industria tessile non ebbe più bisogno dell’indaco dei loro campi. Dai prodotti della distillazione del catrame si ricavano nuovi medicinali a basso prezzo che salvano milioni di vite umane.
Il carbone consente di “fissare” l’azoto atmosferico trasformandolo in concimi chimici che permettono di aumentare le rese dei campi coltivati, oppure trasformandolo in acido nitrico. L’acido nitrico, reagendo con altre molecole ottenute anch’esse dalla raffinazione del catrame di carbon fossile, consente di preparare esplosivi molte volte più potenti della polvere da sparo.
Il lungo XIX secolo, con la sua serie infinita di guerre imperialistiche e di indipendenza nazionale, ha bisogno di crescenti quantità di esplosivi ed è ancora il carbone che offre le materie prime per questa corsa.
Il cammino trionfale nel “re carbone”, fonte di energia e di materie chimiche, motore della rivoluzione industriale nel corso di due secoli, portò ad un rapido sfruttamento delle riserve minerarie in Inghilterra, Russia, Germania, Francia; nelle miniere non solo veniva consumata la vita di innumerevoli adulti e ragazzi, esposti a respirare polveri nocive, sepolti dalle frane, uccisi dalle esplosioni dovute al gas metano (il “grisou”) intrappolato nei giacimenti di carbone, ma si consumavano le riserve stesse della futura ricchezza. La produzione mondiale di carbone passò così da poco più di 10 milioni di tonnellate nel 1700 a circa 70 milioni di tonnellate nel 1850 a 800 milioni di tonnellate nel 1900.
Era più che naturale che qualcuno si chiedesse quanto a lungo questo ritmo di consumi avrebbe potuto durare. Nel 1865 l’economista inglese Stanley Jevons scrisse un libro allarmato, “La questione del carbone”, che rappresenta il primo invito a porre dei “limiti alla crescita” dei consumi di una materia prima strategica. Il libro di Jevons non era mai stato tradotto in italiano; questa lacuna è ora colmata dalla traduzione apparsa nel secondo fascicolo dei “Quaderni di storia ecologica”, luglio 1992, curati da docenti della Università Bocconi di Milano e pubblicati dalla Cooperativa Universitaria Editrice di Scienze Politiche, Via Conservatorio 7, 20122 Milano.
I dati riferiti da Jevons indicavano un consumo di carbone inglese di 5 milioni di tonnellate all’anno nel 1781, di 19 milioni nel 1819, di 40 milioni nel 1840, fino ad arrivare, nel 1861, a oltre 80 milioni, sempre di tonnellate all’anno. Jevons stimava che le riserve totali inglesi di carbone fossero di circa 85.000 milioni di tonnellate e calcolò che, se fosse continuato il ritmo di sfruttamento osservato nei decenni precedenti, dal 1861 al 1961 la domanda cumulativa di carbone avrebbe superato del 100.000 milioni di tonnellate, superiore, perciò alle riserve inglesi esistenti: una tendenza insostenibile.
Il libro di Jevons merita di essere letto non solo perché suggerisce alcune azioni di risparmio energetico, ma anche per capire perché le sue previsioni si rivelarono sbagliate. Jevons calcolò che la produzione e il consumo di carbone nel 1961 (cioè dopo un secolo) sarebbero stati in Inghilterra di 2600 milioni di tonnellate all’anno e invece nel 1961 non hanno superato le 200 milioni di tonnellate, con tendenza a diminuire: la produzione e il consumo di carbone nel Regno Unito nel 1990 sono stati di appena 100 milioni di tonnellate.
A spodestare il carbone dalla sua posizione dominante in Europa è stato il petrolio. Mentre Jevons scriveva il suo libro, nel 1865, non poteva sapere che sei anni prima un oscuro avventuriero, il “colonnello” Drake, cercando acqua nel sottosuolo della Pennsylvania, negli Stati Uniti, aveva trovato un liquido nero e untuoso che veniva estratto a pochi quintali per volta ed era venduto come rimedio “miracoloso” per la cura dei capelli e contro i parassiti.
Jevons non poteva immaginare che lo stesso spirito di curiosità scientifica e di iniziativa commerciale che aveva determinato il trionfo del carbone, era impegnato a cercare di capire che cosa c’era nel petrolio greggio: fu cosi’ scoperto che anche il petrolio, in seguito a distillazione, si separava in varie frazioni, alcune “leggere” e adatte come combustibile.
E Jevons non poteva sapere che pochi anni prima della comparsa del suo libro uno sconosciuto meccanico toscano, Eugenio Barsanti, aveva inventato un motore che poteva funzionare proprio con la componente leggera del petrolio: il primo motore a combustione interna, precursore dei motori che fanno muovere le nostre automobili oggi.
E così, nel nostro cammino delle fortune del carbone, siamo arrivati al novecento. Quando apparve, nel 1906, la terza edizione (quella di recente tradotta in italiano) della “Questione del carbone”, rispetto ad una produzione mondiale di carbone di 1000 milioni di tonnellate all’anno, la produzione mondiale di petrolio aveva già’ raggiunto i 30 milioni di tonnellate.
Da allora la concorrenza fatta dal petrolio al carbone è andata avanti senza sosta: il petrolio è più facilmente trasportabile, essendo un liquido; le principali riserve di petrolio si trovavano in paesi sottosviluppati abbastanza facilmente controllabili politicamente, in modo da tenere bassi i prezzi.
Dal 1960 carbone e petrolio si spartiscono, il 40 per cento ciascuno, la maggior fetta del mercato delle fonti di energia. Molti paesi del mondo – Polonia, Russia, Sud America, Sud Africa – possono vendere carbone a prezzi molto più bassi del costo di estrazione del carbone in Europa, dove le miniere vengono perciò gradualmente chiuse.
Poco contano le proteste dei minatori inglesi che vedono lo spettro della disoccupazione; poco conta che le miniere del Belgio, ormai chiuse, nascondano per sempre, nelle profonde gallerie, i corpi di 256 morti, di cui 136 italiani, sepolti nell’esplosione di Marcinelle dell’agosto 1956.
Eppure le prospettive del carbone non possono essere liquidate con semplici considerazioni economiche riferite al momento attuale, altrimenti si cade nella trappola delle previsioni sbagliate di Jevons.
Nei decenni passati sono continuate le ricerche sulcarbone: è oggi possibile estrarre il carbone con molto minori pericoli e danni per i minatori. Si conoscono addirittura tecniche capaci di raggiungere dalla superficie i giacimenti di carbone senza intervento umano: una corrente di aria trasforma in profondità il carbone in gas combustibili che vengono portati in superficie e possono essere trasportati come il gas naturale.
Gli stessi gas combustibili non inquinanti possono essere ottenuti per trattamento del carbone vicino alle miniere, semplificando molto i problemi si trasporto.
È possibile bruciare il carbone, anche di scadente qualità, con molto minore inquinamento atmosferico: le tecniche di combustione “a letto fluido” consistono nel bruciare il carbone insieme ad una miscela di sali che assorbono sia le ceneri, sia i gas nocivi, per cui si liberano nell’atmosfera soltanto gas non inquinanti.
L’inconveniente del trasporto del carbone può essere risolto preparando delle miscele di polvere di carbone e acqua, o di polvere di carbone e prodotti petroliferi che si possono trasportare con condotte simili a quelle del petrolio.
Inoltre le riserve mondiali di carbone sono enormi: 10.000 miliardi di tonnellate (e anche questo Jevons non poteva saperlo) rispetto ad appena 100-200 miliardi di tonnellate di petrolio e altrettante di gas naturale. Perfino in Italia, in Sardegna, ci sono riserve di carbone per un miliardo di tonnellate, cinquanta volte di più del consumo annuo italiano di carbone, tutto di importazione.
Con il carbone è possibile ottenere le stesse merci – materie plastiche, fibre sintetiche, gomma – ottenibili oggi dal petrolio. Nel Sud Africa si ottiene anche benzina sintetica dal carbone. E, per inciso, la raffineria di petrolio di Bari era nata, nel 1938, col nome ANIC, cioè Azienda nazionale idrogenazione combustibili, proprio per applicare in Italia le tecniche di trasformazione, per idrogenazione, dei carboni e dei bitumi in benzina sintetica.
Abbastanza curiosamente l’attenzione scientifica per il carbone da molti decenni a questa parte è stata abbastanza bassa. Nelle Università, nei corsi di chimica e di economia, ci si occupa principalmente di petrolio e di gas naturale, come se le riserve di queste materie dovessero durare all’infinito.
Una ripresa degli studi sul carbone si ebbe negli anni settanta del 1900: l’aumento del prezzo del petrolio, negli anni dal 1974 al 1980, rappresentò un primo allarme sulla possibile esauribilità di questa materia strategica. In quel periodo sono stati ripresi gli studi sul carbone, ma l’interesse è durato poco.
Le varie guerre locali nella zona del Golfo Persico, succedutesi dal 1980 in avanti, hanno rotto la solidarietà fra paesi petroliferi e hanno fatto crollare il prezzo del petrolio greggio che, a parità di potere d’acquisto, costa, alla fine del ventesimo secolo, meno di quanto costasse prima della crisi petrolifera del 1973. Come conseguenza ci si è dimenticati della possibile esauribilità del petrolio e del gas naturale e l’interesse per il carbone è di nuovo declinato.
Eppure carbone, gas naturale e petrolio sono destinati a convivere e l’approfondimento delle conoscenze anche teoriche, sul carbone è essenziale per far fronte a possibili future crisi nel campo delle fonti di energia.
In questo settore c’è lavoro per migliaia di ricercatori, ingegneri, chimici ed economisti, anche considerando il ruolo che il carbone può avere ai fini dello sviluppo di molti paesi del Sud del mondo.