Indice
0. Introduzione
Da un po’ di anni è tornata incessante, ossessiva l’idea dell’Occidente come ultimo baluardo della civiltà umana, accerchiato da un mondo che precipita nell’abisso della barbarie, del terrorismo, dell’autocrazia, insomma della dittatura violenta, misogina e sanguinaria. Il corollario è la chiamata alle armi per sventare questa minaccia epocale e difendere i valori secolari dell’Occidente. Siamo di fronte, parrebbe, ad un totale rovesciamento della predizione della fine della storia di Fukuyama di trent’anni fa, per cui con il trionfo globale del liberalismo democratico e dello sviluppo tecnologico l’umanità, appagata e rappacificata, avrebbe raggiunto appunto lo stato ideale della propria convivenza sul Pianeta cosicché un oltre non sarebbe più neppure desiderabile.
È però sotto gli occhi di tutti come l’umanità non abbia raggiunto quell’Eden preconizzato da Fukuyama. Non ho, comunque, alcuna intenzione di spiegare che cosa sia successo in questi trent’anni, non essendo né un politologo, né un esperto di geopolitica, né tantomeno di economia
In questi trent’anni mi sono occupato di ecologia, di rapporto tra tecnica e ambiente e di Shoah e nazismo. Dunque questi appunti necessariamente confusi e raffazzonati nascono da questo retroterra, da quel poco che ho imparato e che so.
Mi si potrebbe subito obiettare: che rapporto hanno tra di loro quei termini elencati nel titolo?
Ho azzardato quell’apparente salto mortale di un accostamento improbabile se non insensato, dopo un colloquio con il mio figlioccio adottivo, Youssef, un marocchino arguto, che appunto giunse sui nostri lidi circa trent’anni fa, che dopo un po’ di anni mi confessava di sentirsi italiano, quando gli capitava di tornare in Marocco, e che ora odia l’Occidente, odio condiviso, secondo lui, da tutti i popoli delle immense periferie del mondo. Gli ho chiesto di descrivermi il “suo” volto dell’Occidente: volontà di dominio e di accaparrarsi tutti i beni del Pianeta, con la forza delle armi, usate con cinismo e con totale disprezzo della vita di coloro che non sono riconosciuti come “occidentali” (i palestinesi di Gaza “animali”!), ma anche con totale indifferenza rispetto al degrado inferto all’ambiente naturale.
Ecco Youssef mi ha offerto così il filo nero che tiene uniti quei termini apparentemente lontani e lo stimolo per ripercorrere a ritroso quanto mi è capitato di apprendere nella mia ormai lunga esistenza.
1. 1866: nasce in Occidente l’ecologia, figlia della biologia evoluzionistica
In uno dei primi e più importanti testi1 del mio grande maestro Giorgio Nebbia (1926-2019), che riprendeva la sua prolusione del 13 novembre 1972 all’università di Bari, finalizzata a motivare l’istituzione del primo corso nazionale di ecologia un una facoltà di economia, veniva ricordato, in apertura, come e da chi fu “inventato” il termine ecologia nell’Ottocento:
Quando Haeckel, nel 1866, scelse il nome ecologia per lo studio delle relazioni fra organismi vegetali e animali e l’ambiente in cui essi vivono, certamente aveva in mente l’assonanza con l’economia, tanto che lui stesso indicò che l’ecologia rappresentava una forma di studio dell’economia della natura2.
L’importanza di questa origine del termine è sottolineata dall’accuratezza filologica con cui la ricostruisce lo stesso Nebbia nella nota a piè pagina3 e dal fatto che in uno degli ultimi scritti che ci ha lasciato, 150 anni dopo la nascita dell’ecologia (Giorgio amava le ricorrenze), Che fine ha fatto l’ecologia, iniziavaproprio da quell’atto di nascita:
150 anni fa il naturalista tedesco Ernst Haeckel (1834-1919) “inventò” il nome “ecologia” (dalle parole greche “ecos”, casa, comunità, ambiente e “logos”, descrizione) per indicare lo studio e la conoscenza dei rapporti fra gli esseri viventi e l’ambiente circostante. Ad ispirarlo era stata l’avventura umana e scientifica dell’inglese Charles Darwin (1809-1882).4
Darwin è un monumento della cultura occidentale, dunque per approfondire i presupposti di quell’atto di nascita dell’ecologia, forse è necessario un approfondimento sia di che cosa intendiamo per Occidente sia dell’impatto che il darwinismo ebbe sulla cultura contemporanea.
2. L’Occidente ovvero l’hibris del dominio del sistema o economia-mondo
Non è semplice raccapezzarsi nella definizione di questa realtà ambigua e contraddittoria che è oggi più che mai al centro del dibattito culturale e politico, definita impropriamente Occidente (come noto ne farebbero parte anche il Giappone e l’Australia che con l’Occidente geografico convenzionalmente eurocentrico non hanno nulla a che spartire). Per questo mi appoggio sull’elaborazione di due grandi storici, sociologi ed economisti che hanno dedicato al tema una vita di ricerche: il nordamericano Immanuel Wallerstein (1930-2019) e l’italiano Giovanni Arrighi (1937-2009). L’Occidente nasce con i grandi viaggi europei tra il XIV e il XV secolo, con la “scoperta” per la prima volta da parte di un gruppo umano, segnatamente europeo, del “sistema- mondo”, ovvero delle diverse presenze degli umani sul Pianeta. Una “scoperta” accompagnata dalla pulsione arrogante, dall’hibris, per il dominio della nuova “economia-mondo” secondo il modello capitalistico. Wallerstein in verità usa il termine “egemonia”:
Si parla di egemonia nel sistema interstatale quando la corrente rivalità tra le cosiddette “grandi potenze” è così sbilanciata che una potenza può massicciamente imporre le sue regole e i suoi
interessi (anche solo attraverso un effettivo potere di veto) nell’arena economica, politica, militare, diplomatica, e anche culturale. La base materiale di questa potenza sta nella capacità delle imprese che vi risiedono di operare in modo più efficiente nelle tre maggiori arene economiche – produzione agro-industriale, commercio, e finanza. Il margine di efficienza di cui parliamo deve essere così grande da consentire a queste imprese di mettere fuori gioco le imprese che risiedono in altre grandi potenze, non solo nel mercato mondiale in generale, ma anche in particolar modo all’interno dei mercati interni delle stesse potenze rivali5.
L’Occidente ha espresso questa “egemonia” attraverso lunghi cicli di accumulazione che hanno avuto un diverso baricentro geografico. Secondo Wallerstein, nel corso della modernità sarebbero stati tre: quello delle Province Unite (attuali Paesi Bassi) nel diciassettesimo secolo, quello dell’Inghilterra nel diciannovesimo secolo e quello degli Stati Uniti nel ventesimo6. A questi Arrighi ne aggiunge uno che li precede, che potremmo definire proto capitalistico, quello della Spagna cattolica della conquista dell’America della fine del quindicesimo secolo in sinergia finanziaria con Genova. Fondamentale per questo “primo ciclo sistemico di accumulazione” il ruolo della moneta e della finanza con tecniche inventate dai genovesi identiche a quelle che caratterizzano il capitalismo nell’età moderna (assegni e lettere di cambio ecc.) e garantendo la stabilità monetaria con una moneta d’oro di peso costante, denominata “lira di buona moneta” o “moneta di cambio”7. Già a partire da questo primo ciclo secondo Arrighi si manifestano i caratteri specifici dell’Occidente, comuni ai cicli successivi fino ad oggi, caratterizzati da “un espansionismo apparentemente privo di limiti degli stati europei a partire dalla seconda metà del XV secolo”. E aggiunge:
Gli straordinari vantaggi che i governi e le imprese europee furono in grado di cogliere impadronendosi del controllo del commercio con l’Asia, e su quello interno a quest’ultima, forniscono parte della spiegazione. Essi tuttavia non forniscono alcuna risposta a tre domande connesse: 1. Perché questo espansionismo senza precedenti ebbe inizio proprio allora; 2. Perché esso continuò, senza essere frenato dalla caduta di una potenza occidentale dopo l’altra, fino a che quasi tutta la superficie della terra fu conquistata da popoli di origine europea; 3. Se e come il fenomeno è stato legato alla contemporanea formazione e all’espansione altrettanto esplosiva del capitalismo come sistema mondiale di accumulazione8.
Ora, come ci ricorda Wallerstein, unanimemente riconosciute sono le “premesse metodologiche relative all’operare dell’economia-mondo capitalista. Il suo modo di produzione è capitalista: ovvero si afferma poggiandosi su un’inesauribile accumulazione di capitale”9. Inesauribile significa senza limiti. Al punto che, occupato l’intero Pianeta, ora l’Occidente capitalista guarda ad altri pianeti.
Ma gli interrogativi posti da Arrighi sono stimolanti anche al fine della nostra riflessione. Nel primo ciclo genovese Arrighi ricorda il ruolo che ebbe la religione cattolica e il fanatismo con cui la Spagna inquisitoriale di Isabella la interpretò sia con zelo e intolleranza nei confronti degli ebrei e musulmani “interni” sia con rinnovato fervore per le conversioni nel Nuovo Mondo, ottima motivazione per sottomettere quelle popolazioni e quei territori. Insomma una perfetta “combinazione di fanatismo religioso e imprenditorialità politica che li faceva assomigliare moltissimo […] ai mercanti genovesi”. E citando Henri Pirenne aggiunge a proposito di quest’ultimi: “Essi muovevano guerra agli infedeli con un ardente entusiasmo religioso; una guerra santa, per quanto estremamente redditizia…”10.
Insomma fin dalle origini dell’Occidente sembrerebbe che un ruolo l’abbia giocato l’immaginario che assegnava ai popoli protagonisti di questo nuovo sistema mondo, oltre al diritto di impossessarsi di tutte le risorse del Pianeta, il compito di cristianizzare e civilizzare le popolazioni native dei territori conquistati.
E se queste si fossero dimostrate riottose a sottomettersi era legittimo sterminarle, in forza del fatto che “alle genti barbare e inumane che aborriscono vita civile conviene stare sottomessi al potere di popoli più umani e virtuosi, i quali, con l’esempio della virtù, delle leggi e della prudenza, loro facciano abbandonare la loro bestialità”. Sono le parole usate dal teologo cattolico Juan Ginés de Sepúlveda per giustificare la sottomissione dei nativi in occasione della Disputa del Nuovo Mondo, convocata dall’imperatore Carlo V nel 1550-51, che lo contrappose al frate domenicano, procuratore degli Indios, Bartolomé de Las Casas. Del resto la Chiesa cattolica, com’è noto, rimase a lungo incerta se i nativi d’America possedessero l’anima come gli europei e se quindi si dovessero considerare esseri umani.
Wallerstein e Arrighi ci raccontano come l’egemonia della modernità occidentale sia poi stata segnata nella fasi successive dal protestantesimo: infatti la prima, all’insegna dell’imperialismo spagnolo e della “lira di buona moneta” genovese, venne interrotta dal trauma della guerra dei Trent’anni (1618-1648) che aprì la seconda fase, quella delle Province unite olandesi e del fiorino, a sua volta interrotta dalla grande guerra francese e dalle guerre napoleoniche (1792-1815), che segnarono il prevalere dell’Inghilterra e della sterlina, fino al trauma della moderna “guerra dei trent’anni” (1914-1945) che determinò il passaggio (definitivo?) del testimone dell’egemonia agli Stati Uniti e al dollaro. Il motore ideologico, di quel passaggio del testimone dell’egemonia nel Seicento, secondo la lezione di Weber11, fu il protestantesimo la vera matrice del decollo dell’Occidente. Un mondo protestante che condivideva l’idea, ereditata dalla dottrina della predestinazione calvinista, secondo cui alcuni sono eletti e altri dannati, per cui gli uomini non sono tutti uguali, cosicché si confermava la presunzione di una civiltà occidentale superiore. E commenta oggi uno studioso dell’Occidente che ne preconizza la sconfitta: “Non sorprende, dunque, che le due forme più potenti o durevoli di razzismo siano emerse nei paesi protestanti. Il nazismo si è radicato nelle regioni luterane della Germania […] Quanto alla fissazione americana per i neri, ha anch’essa molto a che vedere con il protestantesimo. Infine, non vanno dimenticate l’eugenetica e le sterilizzazioni forzate, in particolare nella Germania nazista, in Svezia tra il 1935 e il 1976 e negli Stati Uniti tra il 1907 e il 1981: sono il logico risultato di un ambiente protestante che non riconosce tutti i diritti fondamentali a ogni singolo individuo”12.
Oltre a Bartolomé de Las Casas, va aggiunto che anche nei cicli di accumulazione successivi in Occidente si espressero voci dissonanti significative rispetto al sistema-mondo dominante, come Alexander von Humboldt13 (1769-1859) naturalista e viaggiatore tedesco, che contestò il colonialismo, lo schiavismo, lo sfruttamento della natura e dei popoli nativi oppure lo scrittore olandese Eduard Douwes Dekker (1820-1887), che con lo pseudonimo di Multatuli (in latino: né ho sopportate molte) pubblicò nel 1860 un romanzo, Max Havelaard14, in parte autobiografico, di feroce denuncia del sistema coloniale delle indie orientali olandesi. Voci importanti che però non incisero in profondità nel sistema.
Ma l’Occidente si va definendo sempre più compiutamente, come è noto, con la rivoluzione scientifica e la conseguente rivoluzione tecnologica e industriale, quindi con il ciclo di accumulazione dell’Inghilterra.
Il campione mondiale di questo Occidente è probabilmente Cecil Rodhes (1853-1902): “Io sono convinto che noi siamo la miglior razza al mondo e che più terre occupiamo tanto meglio sarà per l’umanità. Pensate a quelle zone che sono abitate dalle peggiori specie umane che cambiamento si avrebbe se fossero portate sotto l’influenza anglosassone”15. È con lui che si affaccia esplicitamente per la prima volta il mito dell’Occidente destinato a dominare il mondo intero: “Perché non dovremmo formare una società segreta con un solo obiettivo la promozione dell’Impero Britannico e il portare il mondo intero sotto il dominio britannico, con il coinvolgimento degli Stati Uniti, per fare della razza anglosassone un unico Impero?”. Ed effettivamente per realizzare l’unum imperium costituì una lobby segreta ed operò intensamente per tutta la vita16. A confortare il suo progetto e le sue idee imperialiste, colonialiste, razziste e classiste non è più soltanto la religione, ma la scienza, una “religione laica” ancor più potente, per suo statuto universale e quindi valida sull’intero Pianeta, le cui verità sono incontestabili almeno fino a quando vengano smentite da esperimenti od osservazioni che le dimostrino false. E la nuova scienza del vivente (biologia, zoologia, genetica ed eugenetica), purtroppo, in questo caso tenne il punto per quasi due secoli, fornendo il combustibile ideologico all’hibris dell’Occidente moderno17.
3. Darwin, ovvero la scienza a supporto del sistema-mondo occidentale: razzismo, colonialismo, eugenismo, sessismo
Charles Darwin (1809-1882) è un monumento della cultura occidentale. Evidenziare alcune criticità del suo straordinario lascito è impresa ardua, persino rischiosa, perché può prestare il fianco alla mai dismessa crociata creazionista, assimilata giustamente al terrapiattismo. Dunque è necessaria una premessa chiarificatrice: qui non si intende parlare del Darwin biologo, autore de L’origine delle specie (1859) o de La variazione degli animali e delle piante allo stato domestico (1868), ma del Darwin che pretende di estendere meccanicamente alla condizione umana le “leggi” biologiche da lui scoperte, segnatamente nel testo L’origine dell’uomo e la selezione naturale (1871). Poiché la materia è controversa18 e delicata, mi appoggerò necessariamente su lunghe citazioni.
Cominciamo dal razzismo, ovvero dall’esistenza di diverse razze umane e di una gerarchia valoriale delle stesse che si trasmette per via ereditaria e con una base biologica (dimensione del cervello e della scatola cranica):
La variabilità o la diversità delle facoltà mentali tra uomini della stessa razza, per non parlare delle differenze ben maggiori tra uomini di razze diverse, è così nota che non è necessario aggiungere altro19. Così, per quanto riguarda le facoltà mentali, la loro trasmissione si manifesta nei cani, nei cavalli e negli altri animali domestici. Inoltre, di sicuro si trasmettono gusti e abitudini particolari, l’intelligenza in generale, il coraggio, il buono e cattivo temperamento, ecc. Con l’uomo assistiamo a fatti simili in quasi ogni famiglia; ed ora, per merito delle pregevoli opere di Galton [Hereditary Genius: an Inquiry into its Laws and Consequences, 1869], sappiamo che il genio, che comprende una combinazione straordinariamente complessa di facoltà elevate, tende a essere ereditario; d’altra parte è altrettanto certo che la pazzia e le minorazioni psichiche si trasmettono nelle famiglie20.
L’opinione che esista nell’uomo una qualche relazione tra il volume del cervello e lo sviluppo delle facoltà intellettuali è avvalorata dal rapporto tra il cranio delle razze selvagge e quello delle razze civili, tra quello dei popoli antichi e quello dei popoli moderni e dall’analogia dell’intera serie dei vertebrati. Il dott. J. Barnard Davis ha provato, con molte attente misure, che la capacità media interna del cranio degli europei è di 92,3 pollici cubici; quella degli americani 87,5; quella degli asiatici 87,1, e quella degli australiani solo 81,9 [“Philosophical Transactions”, 1869, p. 513.]21. Neppure piccola è la differenza di disposizione morale tra un barbaro, come l’uomo descritto dal vecchio navigatore Byron, che scagliò il figlio sulle rocce perché aveva fatto cadere un cesto di ricci di mare, e un Howard o un Clarkson; o d’intelletto tra un selvaggio che usa con difficoltà ogni termine astratto, e un Newton e uno Shakespeare. Differenze di questo genere tra uomini superiori di razze superiori e gli infimi selvaggi sono collegate da gradazioni sottilissime22. A giudicare da tutto ciò che noi sappiamo dell’uomo e degli animali inferiori, vi è sempre stata una sufficiente variabilità nelle loro facoltà morali ed intellettuali, per un sicuro avanzamento attraverso la selezione naturale. […] Applichiamo ora questi principi generalmente ammessi alle razze umane, considerandoli con lo stesso spirito di un naturalista nei riguardi di ogni altro animale. Nel considerare il complesso delle differenze tra le razze dobbiamo tenere in debito conto la nostra sottile capacità di discriminazione raggiunta con una lunga abitudine ad osservare noi stessi. […] Non vi è, tuttavia, alcun dubbio che le varie razze, se accuratamente comparate e misurate, differiscono molto l’una dall’altra [Un gran numero di misurazioni di bianchi, negri e indiani sono riportate in Investigations in the Military and Anthropolog. Statistics of American Soldiers, di B. A. Gould, 1869, pp. 298-358; On the Capacity of the lungs, p. 471. Cfr. anche le numerose e valide tavole del dott. Weisbach, tratte dalle osservazioni dei dott. Scherzer e Schwarz, nel Reise der Novara: Anthropolog. Theil, 1867], come nel tipo dei capelli, nelle proporzioni relative di tutte le parti del corpo, nel volume dei polmoni, nella forma e dimensione del cranio, e così pure nelle circonvoluzioni del cervello [Cfr. per esempio la misurazione compiuta da Marshall del cervello di un boscimane in Phil. Transact.”, 1864, p. 519]. Ma ciò potrebbe essere il compito conclusivo per specificare i numerosi punti di differenza. Le razze differiscono anche nella costituzione, nell’acclimatamento, nell’essere suscettibili di certe malattie. Le loro caratteristiche mentali sono ugualmente assai distinte, in primo luogo da ciò che potrebbe apparire nelle loro facoltà emozionali, ma in parte per le loro facoltà intellettive. Chiunque abbia avuto l’opportunità di un confronto deve essere stato colpito dal contrasto tra il taciturno, sempre bisbetico, aborigeno del sud America, e l’allegro, loquace negro23.
L’hibris dell’Occidente, ovvero il colonialismo e l’imperialismo, sono giustificati dalla selezione naturale:
Selezione naturale – Abbiamo ora visto che l’uomo varia nel corpo e nella mente, e che le variazioni sono determinate sia direttamente che indirettamente dalle stesse cause che obbediscono alle medesime leggi generali degli animali inferiori. […] I primi progenitori dell’uomo debbono aver avuto anche la tendenza, come tutti gli altri animali, ad avere un incremento oltre i loro mezzi di sussistenza; e perciò saltuariamente debbono essere stati esposti a una lotta per l’esistenza, conseguentemente a una “rigida legge di selezione naturale. Così debbono essersi conservate benefiche variazioni di tutti i generi, sia occasionalmente che abitualmente, e debbono essersi eliminate le dannose24. Attualmente le nazioni civili stanno ovunque soppiantando quelle barbare, ad eccezione dei luoghi in cui il clima oppone una barriera mortale; ed hanno successo soprattutto, anche se non esclusivamente, per le loro tecniche, prodotto dell’intelligenza. E’ perciò molto probabile che per quanto riguarda il genere umano, le facoltà intellettive si siano venute principalmente e gradualmente perfezionando mediante la selezione naturale. Questa conclusione è sufficiente per il nostro scopo25. […] senza accumulazione di capitale le arti non potrebbero progredire, ed è soprattutto mediante il loro potere che le razze civilizzate hanno esteso e stanno ora ovunque estendendo il loro rango in modo da prendere il posto delle razze inferiori26.
Non manca una dose di sessismo “scientificamente” argomentato su basi biologiche.:
Differenze nel potere mentale dei due sessi. […] So che alcuni studiosi dubitano dell’esistenza di tale differenza, ma essa è per lo meno probabile per l’analogia con animali inferiori che presentano altri caratteri sessuali secondari. […] Nessuno negherà che il toro abbia un comportamento diverso da quello della mucca, il cinghiale da quello della scrofa, lo stallone da quello della cavalla e, come ben si sa, i maschi delle grosse scimmie da quello delle loro femmine. La donna sembra differire dall’uomo nell’atteggiamento mentale soprattutto per la maggior tenerezza e il minore egoismo; […] La donna, a causa del suo istinto materno, esplica in sommo grado tali qualità verso i suoi bambini; è quindi logico che sia poi portata ad estenderli al prossimo. L’uomo invece rivaleggia con i suoi simili; gli piace competere, e questo lo porta ad essere ambizioso, il che costituisce il primo passo verso l’egoismo. Tali qualità sembrano essere un suo naturale sfortunato diritto di nascita. Si crede generalmente che la donna superi l’uomo nell’intuizione, nel rapido apprendimento e forse nell’imitazione, ma almeno alcune di tali facoltà sono caratteristiche delle razze inferiori e quindi di un più basso e ormai tramontato stadio di civiltà.
La distinzione principale nei poteri mentali dei due sessi è costituita dal fatto che l’uomo giunge più avanti della donna, qualunque azione intraprenda, sia che essa richieda un pensiero profondo, o ragione, immaginazione, o semplicemente l’uso delle mani e dei sensi. Se vi fossero due elenchi di uomini e donne che eccelsero maggiormente nella poesia, nella pittura, scultura, musica (sia si tratti della composizione che dell’esecuzione), storia, scienze e filosofia, con una mezza dozzina di nomi sotto ciascuna disciplina, non ci potrebbe essere confronto. Possiamo anche concludere, con la legge della deviazione dalla media così ben illustrata da Galton nel suo libro Hereditary Genius, che se gli uomini sono in molte discipline decisamente superiori alle donne, il potere mentale medio dell’uomo è superiore a quello di queste ultime. […] Ma questa idea del genio è forse incompleta, perché senza i poteri superiori della ragione e della immaginazione non si può raggiungere il successo in alcuna disciplina. Queste facoltà come anche il genio, si saranno sviluppate nell’uomo in parte attraverso la selezione sessuale cioè attraverso la lotta con maschi rivali, e in parte attraverso la selezione naturale, cioè dal successo nella lotta continua per l’esistenza; poiché in ambo i casi la lotta sarà avvenuta durante l’età matura, i caratteri ottenuti si saranno trasmessi più compiutamente alla prole maschile che a quella femminile. Ciò concorda pienamente con l’ipotesi della modificazione e rafforzamento di molte delle facoltà mentali con la selezione sessuale; con tale ipotesi si sostiene che dapprima esse subirono un mutamento considerevole durante la pubertà e inoltre che gli eunuchi posseggono tali qualità in grado inferiore per tutta la vita. In questo modo alla fine l’uomo è divenuto superiore alla donna27.
Dalla selezione naturale si passa all’eugenetica, termine coniato nel 1883 dal cugino di Darwin, Francis Galton, nel suo Inquiries into Human Faculty and Its Development, ma le cui linee essenziali erano già presenti nel precedente Hereditary genius del 1969, a cui Darwin fa più volte riferimento come “pregevole e grande opera”:
Influenza della selezione naturale nelle nazioni civili. […] Questo argomento è stato abilmente discusso da W. R. Greg, e precedentemente da Wallace e da Galton [Per Wallace, cfr. “Anthropological Review”. Galton in “Macmillan’s Magazine”, agosto 1865, p. 318 e la sua grande opera, Hereditary Genius, 1870]. Molte delle mie osservazioni sono tratte da questi tre autori. Nei selvaggi le debolezze del corpo e della mente sono subito eliminate; quelli che sopravvivono, mostrano normalmente un vigoroso stato di salute. Noi uomini civilizzati, d’altra parte, facciamo di tutto per arrestare il processo di eliminazione; costruiamo asili per pazzi, storpi e malati; istituiamo leggi per i poveri ed i nostri medici esercitano al massimo la loro abilità per salvare la vita di chiunque fino all’ultimo momento. Vi è motivo di credere che la vaccinazione abbia salvato un gran numero di quelli che per la loro debole costituzione un tempo non avrebbero retto al vaiolo. Così i membri deboli delle società civilizzate propagano il loro genere. Nessuno di quelli che si sono dedicati all’allevamento degli animali domestici dubiterà che questo può essere altamente pericoloso per la razza umana. […] L’aiuto che ci sentiamo costretti a dare a chi ne è privo è soprattutto un risultato incidentale dell’istinto di simpatia, che fu acquisito originariamente come parte dell’istinto sociale, ma in seguito reso, nel modo precedentemente indicato, più delicato e più diffuso. Non è neppure possibile frenare la nostra simpatia, anche quando urge un impellente motivo, senza un deterioramento della parte più nobile della nostra natura. […] Dobbiamo quindi sopportare l’effetto, indubbiamente cattivo, del fatto che i deboli sopravvivano e propaghino il proprio genere, ma si dovrebbe almeno arrestarne l’azione costante, impedendo ai membri più deboli ed inferiori di sposarsi liberamente come i sani. Questo arresto potrebbe essere indefinitivamente incrementato dalla possibilità che i malati nel corpo e nel cervello evitino il matrimonio, sebbene ciò sia più una speranza che una certezza28. […] Considereremo ora le facoltà intellettuali. Se in ciascun grado della società i membri fossero divisi in due gruppi uguali l’uno comprendente i membri intellettualmente superiori e l’altro quelli inferiori, non ci sarebbe dubbio alcuno che il primo avrebbe il miglior successo in tutte le occupazioni e l’ultimo un maggior numero di figli. Anche nel più basso livello di vita, la capacità e l’abilità possono essere di qualche vantaggio, sebbene in molte occupazioni dovute alla grande divisione del lavoro, sia assai piccolo. Perciò nelle nazioni civili vi sarà una certa tendenza ad incrementare sia il numero che il livello della capacità intellettuale. […] È stato spesso obiettato a idee simili che i più eminenti uomini non hanno lasciato discendenti che ereditassero il loro grande genio. Galton afferma: “Mi dispiace di essere incapace di risolvere la semplice questione se e fino a che punto uomini e donne che sono molto geniali siano sterili. Ho tuttavia dimostrato che uomini eminenti non sono affatto così” [Hereditary Genius, 1870, p. 330]. […] Nel caso delle strutture corporee ciò che porta ad un avanzamento di una specie è la selezione di individui leggermente più dotati e l’eliminazione di quelli meno dotati e non la conservazione di anomalie fortemente accentuate e rare. Così sarà per le facoltà intellettuali poiché gli uomini un poco più abili in ciascun grado della società hanno miglior successo che i meno abili e conseguentemente si incrementano nel numero, se non sono ostacolati in altro modo. Quando in una nazione il livello di intelligenza e il numero di persone intelligenti è cresciuto, possiamo aspettarci, secondo la legge della deviazione dalla media, che i geni appaiano, come dimostra il Galton, alquanto più frequentemente di prima29. Se gli ostacoli specificati negli ultimi due paragrafi, e forse altri ancora sconosciuti, non possono prevenire che i membri della società negligenti, viziosi e variamente inferiori si incrementino ad una percentuale più rapida che non le classi superiori, la nazione retrocederà, come è purtroppo spesso capitato nella storia del mondo. […] La selezione naturale deriva dalla lotta per l’esistenza e questa da un rapido tasso d’incremento. E’ impossibile non lamentarsi del tasso con cui l’uomo tende a incrementarsi, ma se ciò sia saggio è un’altra questione. Infatti ciò conduce nelle tribù barbare all’infanticidio e a molti altri mali e, nelle nazioni civili, alla povertà abietta, al celibato, ed ai più tardi matrimoni degli uomini prudenti. Ma poiché l’uomo è soggetto agli stessi mali fisici degli animali inferiori, egli non ha diritto di aspettarsi un’immunità dai mali conseguenti alla lotta per l’esistenza. Se non fosse stato soggetto nei tempi primitivi alla selezione naturale, non avrebbe sicuramente raggiunto il rango attuale. Quando vediamo in molte parti del mondo enormi aree della più fertile terra, capaci di sostentare felicemente numerose famiglie, ma popolate soltanto da pochi selvaggi erranti, si deve dedurre che la lotta per l’esistenza non è stata sufficientemente dura da costringere l’uomo a raggiungere il suo più alto livello. Senza dubbio, tale avanzamento richiede molte e convergenti circostanze favorevoli; ma non è certo che la più favorevole sarebbe stata sufficiente, nel caso che il tasso d’incremento non fosse stato rapido e la conseguente lotta per l’esistenza estremamente dura. Ciò appare anche da ciò che vediamo, per esempio, nelle zone del Sud America, cioè che un popolo che può esser chiamato civile, come i coloni spagnoli, è esposto a diventare indolente e a retrocedere, quando le condizioni di vita sono molto facili. Per quanto riguarda le nazioni altamente civilizzate, il continuo progresso dipende, ad un livello subordinato, dalla selezione naturale: infatti tali nazioni non si sopraffanno e sterminano l’un l’altra come fanno le tribù selvagge30. (pp. 166-168)
È forse opportuno sottolineare che in questa pagina sono tracciati i presupposti teorici dell’eugenetica negativa, che, come vedremo, si realizzerà con la sterilizzazione forzata dei “degenerati” fino alla loro eliminazione violenta. L’ultima frase, inoltre, è la dimostrazione più evidente dell’errore di Darwin e dei darwinisti, ovvero di ritenere la selezione naturale e le “leggi biologiche come fondamento delle relazioni tra gli uomini e tra i popoli: la sua affermazione che “le nazioni altamente civilizzate […] non si sopraffanno e sterminano l’un l’altra come fanno le tribù selvagge”, purtroppo, verrà smentita dall’Occidente altamente civilizzato dopo meno di cinquant’anni con lo scatenamento della moderna guerra dei trent’anni (1914-1945).
E così possiamo concludere esplicitando il nodo più problematico: la teoria evoluzionistica applicata alle relazioni umane, dunque alla psicologia, alla sociologia, all’etica, alla politica, all’economia. Sappiamo che è stato Herbert Spencer (1820-1903) a dedicare l’intera vita a questo compito, meritandosi il titolo di autore per eccellenza, se non inventore del “darwinismo sociale”. Ma le premesse le troviamo anche nel testo di Darwin che stiamo esaminando, dove tra l’altro cita le opere del “grande filosofo” Spencer e ribadisce il fondamento biologico nella selezione naturale anche dei comportamenti morali e la loro trasmissione per via ereditaria:
Così gli istinti sociali, che debbono essere stati acquisiti dall’uomo in una fase molto rozza e probabilmente anche dai suoi progenitori simili alle scimmie, danno ancora l’impulso a qualcuna delle sue azioni migliori; ma le sue azioni sono determinate in grado maggiore dai desideri espressi e dal giudizio dei suoi simili e sfortunatamente molto spesso dai suoi forti desideri personali. Ma, poiché l’amore, la simpatia e l’autocontrollo vengono rafforzati dall’abitudine e poiché il potere della ragione si fa più evidente, così che l’uomo sia in grado di valutare adeguatamente il giudizio dei suoi compagni, spinto a certe linee di condotta, a prescindere da qualsiasi piacere o pena transitoria. Così potrebbe affermare – mentre un barbaro o un uomo incolto non lo potrebbero – io sono il giudice supremo della mia condotta; e, con le parole di Kant: io non violerò nella mia persona la dignità umana. […] È evidente in primo luogo che nel genere umano gli impulsi istintivi hanno diversi gradi di forza; un selvaggio rischierà la propria vita per salvare quella di un membro della stessa comunità, ma sarà del tutto indifferente verso uno straniero31. La maggior parte dei selvaggi è del tutto indifferente alle sofferenze degli stranieri, o addirittura si delizia ad assistervi. Si sa bene che le donne e i bambini degli indiani nord-americani aiutavano a torturare i nemici. Alcuni selvaggi traggono un orribile piacere nell’incrudelire sugli animali” e, tra loro, l’umanità è una virtù ignota. […] L’esperienza comune giustifica la massima degli spagnoli: “Mai, mai fidarsi di un indiano”32.
Il nostro grande filosofo Herbert Spencer ha recentemente spiegato le sue idee sul senso morale. Egli dice: “Io credo che le esperienze utili organizzate e consolidate attraverso tutte le passate generazioni umane, siano venute producendo modificazioni corrispondenti che, con la continua trasmissione e accumulazione, sono divenute in noi determinate facoltà di intuizione morale – corrispondendo certe emozioni che non hanno base apparente nell’esperienza individuale di utilità alla condotta giusta o sbagliata” [Lettera a Mill in Mental and Moral Science, di Bain, 1868, p. 722.]. Mi sembra che non vi sia dubbio che le tendenze virtuose siano più o meno fortemente ereditarie; infatti, per non citare le varie disposizioni e le abitudini trasmesse da molti dei nostri animali domestici ai loro figli, ho udito di autentici casi in cui il desiderio di rubare e la tendenza a mentire apparivano trasmettersi in famiglie di grado elevato; se il rubare è un crimine raro nelle classi ricche, difficilmente possiamo spiegare con una coincidenza accidentale la tendenza ricorrente in due o tre membri della stessa famiglia. Se le cattive inclinazioni si trasmettono, è probabile che quelle buone siano ugualmente trasmesse33.
Va aggiunto che all’interno di una dissertazione sul rapporto tra istinti e intelligenza negli animali e nell’uomo, in particolare tra un cane e un “selvaggio”, a pagina 103, Darwin cita Thomas Henry Huxley (1825-1895), biologo e filosofo, a lui molto vicino e suo grande ammiratore al punto da essere denominato il “mastino di Darwin”. Fu lui per primo, anticipando lo stesso Darwin, a proporre di estendere i principi darwiniani, espressi in L’origine delle specie del 1859, ai valori morali, in un saggio del 1862-1864: secondo lui le facoltà morali umane, come tutte le altre sono suscettibili di un’evoluzione sottomessa alla selezione naturale, in modo tale che, grazie a questa, l’uomo si migliora nei suoi costumi come nelle sue qualità fisiche34, una posizione che ebbe influenza, appunto, nella stesura da parte di Darwin del successivo L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, del 1871, come abbiamo visto sopra. È questo un passaggio cruciale per tutta la biologia evoluzionistica a partire da Darwin, che non resiste alla presunzione di spiegare scientificamente i comportamenti umani assimilandoli a quelli regolati per i viventi non umani dalle “leggi” dell’evoluzionismo, nello specifico la selezione naturale nella competizione per la sopravvivenza, inaugurando quella sociobiologia dominante in Occidente, a partire appunto da Herbert Spencer: questa teoria aveva il pregio, per la cultura dominante in Occidente, di naturalizzare scientificamente il capitalismo, il razzismo, il colonialismo e l’imperialismo, ovvero l’hibris dell’Occidente.
In verità, occorre riconoscere che successivamente Thomas Huxley avrà un profondo ripensamento a proposito della morale umana: nel suo saggio Evoluzione ed etica del 1893 giungerà a considerare che l’evoluzione sia incompatibile con la morale, ovvero che vi sia un’opposizione tra la natura e la civilizzazione, superando quindi e staccandosi dall’impostazione darwiniana35.
A questo proposito è d’obbligo ricordare il generoso tentativo di Petr Kropotkin (1842-1921), imbevuto di positivismo e di profonda fiducia nella scienza e, ovviamente, nella biologia evoluzionista. Ebbene, condividendo con Darwin e i biologi evoluzionisti “l’origine naturale della morale”, ovvero “lo sviluppo graduale delle specie, delle razze umane, delle istituzioni umane, dei princìpi stessi dell’etica nel senso dell’evoluzione naturale”36, cercò di dare un fondamento scientifico alla visione anarchica della società umana, enfatizzando quegli esempi di istintivo aiuto reciproco in natura (dalle formiche alle api, ad altre specie in determinate situazioni) come caratterizzanti la stessa natura umana e la sua etica (in particolare nei suoi saggi, La scienza moderna e l’anarchia del 1901, Il mutuo appoggio del 1902 e L’Etica del 1922). Insomma, sulla base degli stessi assunti “scientifici” tentò di rovesciare le conclusioni del darwinismo sociale alla Spencer, ovviamente, come è noto, con scarso successo, non tanto perché quelle basi non avevano nulla di scientifico quando assunte per la condizione umana, come cercheremo di argomentare ulteriormente di seguito, ma perché, mentre Spencer era in sintonia con il sistema dominante, Kropotkin vi si opponeva radicalmente.
In questa trappola non sarebbe caduti, invece, Karl Marx e Friedrich Engels, che pure apprezzavano le ricerche sulla biologia evoluzionista di Darwin, essendo sempre stati attenti agli studi naturalistici, insieme a quelli delle nascenti scienze umane. Così nel 1862 commentavano l’opera di Darwin in uno scambio epistolare (lettera di Marx del 18 giugno e lettera di Engels a Lavrov del 12 novembre a Lavrov):
È curioso di vedere come Darwin ritrovi presso le bestie e i vegetali la sua società inglese con la divisione del lavoro, la concorrenza, l’apertura di nuovi mercati, le “invenzioni” e la “lotta per la vita” di Malthus. È il bellum omnium contra omnes di Hobbes, e ciò fa pensare alla Fenomenologia di Hegel dove la società borghese figura sotto il nome di “regno animale intellettuale”, mentre presso Darwin è il regno animale raffigurato quale società borghese. Tutta la dottrina darwinista della lotta per la vita non è che la trasposizione pura e semplice, del dominio sociale nella natura vivente, della dottrina di Hobbes: bellum omnium contra omnes e la tesi della concorrenza cara agli economisti borghesi, associata alla teoria malthusiana della popolazione. Dopo aver realizzato questo gioco di prestigio, si ritraspongono le stesse teorie questa volta dalla natura organica nella storia umana, pretendendo che sia la prova della loro validità in quanto leggi eterne della società umana. Il carattere puerile di questo modo di procedere salta agli occhi e non c’è bisogno di perdere tempo nel parlarne37.
E ancora Engels, in un saggio intitolato Die Entwicklung des Sozialismus von der Utopie zur Wissenschaft (L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza) del 1880, utilizzò le metafore darwiniste come “naturalizzazione” del sistema capitalistico:
Il campo del lavoro divenne un campo di battaglia… Tra i singoli capitalisti, così come tra intere industrie e interi paesi, il problema della loro esistenza viene deciso dalle condizioni più o meno favorevoli della produzione, che possono essere naturali o artificiali. Chi soccombe viene eliminato senza nessun riguardo. È la lotta darwiniana per l’esistenza dell’individuo, trasportata, con accresciuto furore, dalla natura alla società. Il punto di vista dell’animale nella natura appare come l’apice dell’umano sviluppo38.
Insomma sia Marx che Engels si avvedevano del gioco di prestigio per cui le leggi “scientifiche” del funzionamento della natura venivano estese alla società umana con il risultato di naturalizzare il sistema capitalistico, con annesso colonialismo, rendendolo immodificabile.
Insomma si verificava una mirabile consonanza tra le teorie evoluzionistiche applicate all’umanità e le coeve teorie economiche occidentali associate al capitalismo, basate sulla competizione del libero mercato come condizione ideale per il progresso dell’umanità. Insomma si trattava della naturalizzazione “scientifica” sia del nazionalismo, dell’imperialismo e connessi colonialismo e razzismo, sia del capitalismo. Certo, Herbert Spencer con il suo “darwinismo sociale” ne fu il massimo teorico, ma senza essere esplicitamente “spenceriani”, i ceti dirigenti occidentali hanno coltivato nel loro intimo queste convinzioni al punto da farle diventare senso comune dominante.
Una grande influenza ebbe anche uno dei padri fondatori della nuova scienza umana, la sociologia, ovviamente modellata sulla biologia evoluzionistica e sul darwinismo, Ludwig Gumplowicz (1838-1909), la cui opera più importante e di vastissimo successo, pubblicata nel 1893, è eloquente fin dal titolo, La lotta delle razze.39 Sembra un manifesto dello spirito dell’Occidente e in qualche modo una profezia di quello che sarà il culmine drammatico del biocentrismo, segnatamente la “guerra dei Trent’anni” novecentesca, in particolare la fase finale del nazismo e del secondo conflitto mondiale:
La storia e il presente ci offrono l’immagine di guerre quasi ininterrotte tra le tribù, tra i popoli, tra gli Stati, tra le nazioni. Il fine delle guerre è sempre lo stesso: è di servirsi del nemico come mezzo per soddisfare i propri bisogni. […]. La lotta delle razze per il dominio, per il potere, la lotta in tutte le sue forme è il principio propulsore propriamente detto, la forza motrice della storia40.
Ciò che importa sottolineare è che “questo fenomeno”, ovvero “la lotta delle razze per il domino”, per Gumplowicz, in sintonia con la spirito della scienza coeva, “si appoggia su una legge naturale” e per questo bisogna saper amministrare “la grande saggezza della natura”41, ancorché possa apparire crudele. Come vedremo sarà esattamente questo il chiodo fisso di Hitler. Gumplowicz sembra accorgersi della pericolosità devastatrice di una simile prospettiva che comunque ritiene ineluttabile per la “salute dell’umanità”, rifugiandosi in un famoso verso di Orazio: “La natura non può distinguere ciò che è giusto e ciò che è ingiusto”42.
Per completare il quadro, non si può non accennare al movimento eugenista, derivazione diretta del darwinismo e dell’evoluzionismo, intriso anch’esso di razzismo biologico. Nato verso la fine dell’Ottocento, grazie al più volte citato Galton, occupò in Occidente buona parte del secolo scorso, impegnando biologi, sociologi, antropologi, genetisti, medici, psichiatri. Non vi è qui lo spazio neppure per tratteggiare per sommi capi questa importante e tragica vicenda, che è un corollario del biocentrismo all’epoca imperante. Una vicenda per certi versi contraddittoria se si tiene in conto che dall’eugenetica si svilupparono anche filoni innovativi di medicina che ispirarono la creazione della medicina sociale e preventiva da parte dell’eugenista di fama internazionale Ettore Levi (1880-1932), la medicina del lavoro, di cui il socialista ed eugenista Gaetano Pieraccini (1864-1957) fu uno dei più importanti fondatori, nonché la grande riforma del welfare state inventata dall’eugenista, nonché razzista, britannico William Beveridge (1879-1963). In effetti l’eugenetica, per la prima volta, si pose il problema della salute di una popolazione non più solo dal punto di vista del singolo ammalato da curare, ma come questione sociale, dunque da affrontare con politiche e iniziative che investissero le istituzioni e l’organizzazione della società nel suo complesso. Il lato oscuro dell’eugenetica, fin dal 1883, quando fu inventata da Francis Galton, fu sempre la convinzione che vi fosse una razza superiore da tutelare e da migliorare fisicamente e mentalmente (ovviamente l’indoeuropea o “ariana”, possibilmente di buona famiglia) e che bisognasse contrastare i pericoli sempre incombenti di una degenerazione e decadimento della razza eletta, indotti da incroci con razze inferiori, o dall’incontrollata proliferazione di gruppi asociali (prostitute, emarginati, psicolabili, criminali…). Insomma si trattava di potenziare le naturali tendenze selettive tra gli umani in ossequio alle leggi dell’evoluzionismo darwiniano, tutelandole dalle possibili degradazioni indotte dalle storture della civiltà. Le politiche selettive violente (sterilizzazioni forzate dei soggetti asociali) inaugurate negli Stai Uniti fin dal 1907 si diffusero poi in Europa, raggiungendo il parossismo in Germania, in epoca nazista, con la soppressione in particolare, ma non solo, dei malati mentali, eufemisticamente e vergognosamente definita “eutanasia”, prova generale della successiva Shoah.
Il campione dell’eugenetica nazista fu Alfred Ploetz (1860-1940) un personaggio davvero singolare: formatosi negli studi di economia, da giovane si entusiasmò per le suggestioni di un romanzo del francese Etienne Cabet, Viaggio in Icaria, del 1840, che diede origine al primo movimento comunista utopista, ispirato anche al cristianesimo delle origini, il movimento icariano, in alcuni territori liberi nordamericani. Dalla partecipazione ad una di queste comunità icariane Ploetz trasse la convinzione che il loro clamoroso insuccesso derivava dalla mancanza di sufficienti basi scientifiche e dalla conseguente disorganizzazione e incapacità a gestire i conflitti interpersonali. Al ritorno si dedicò agli studi di medicina e di biologia, allievo di Ernst Haeckel e grande ammiratore di Charles Darwin, coltivò la convinzione che un “mondo migliore” 43 si poteva costruire solo attraverso la scienza e in particolare l’eugenetica, capace di preservare e rafforzare i tratti positivi dell’eccellenza delle razze umane, ovvero la nordica indoeuropea. Ploetz coniò per la prima volta il termine “igiene razziale” per intendere una teoria eugenetica rigidamente basata sulla razza, nei suoi Grundlinien einer Rassenhygiene (Le basi dell’igiene razziale) nel 1895. Nel 1904, Ploetz fondò il periodico Archiv für Rassen-und Gesellschaftsbiologie con il suo allievo Fritz Lenz come caporedattore e nel 1905 fondò la De Berliner Gesellschaft fur Rassenhygiene (Società tedesca per l’igiene razziale) che nel 1907 divenne la Società Internazionale per l’Igiene Razziale. Nelle sue opere teoriche Ploetz ipotizzò una società in cui le idee eugenetiche potessero essere applicate: innanzitutto si doveva partire dall’esame della capacità morale e intellettuale dei cittadini per decidere sull’opportunità del matrimonio e il numero consentito di figli, contemplando anche la possibilità del divieto forzato di riproduzione da parte dei non idonei; i bambini disabili sarebbero stati soppressi alla nascita e tutti i giovani sarebbero stati sottoposti ad un esame durante la pubertà per determinare se potesse essere loro permesso di sposarsi e avere figli; a costoro la società avrebbe rigorosamente garantito pari opportunità, mentre i disadatti sarebbero stati eliminati.
Consapevole della durezza e brutalità di una simile prospettiva, lo stesso Ploetz suggeriva una possibile alternativa meno drastica che si sarebbe limitata a incoraggiare semplicemente le persone adatte a riprodursi, ma la riteneva una proposta debole.
Per i suoi studi sull’eugenetica sfiorò il Premio Nobel, finché con l’avvento del nazismo ebbe l’opportunità di mettere in pratica le sue teorie: insieme a Fritz Lenz, fondatore nel 1933 dell’Istituto Kaiser Wlilhelm di antropologia, ereditarietà umana ed eugenismo, a Eugen Fisher e altri fu l’artefice del programma Aktion T4 di eliminazione violenta dei disabili.
In epoca fascista il campione dell’eugenetica italiana fu, come è noto, Nicola Pende (1880-1970), il firmatario più prestigioso del Manifesto degli scienziati razzisti44, manifesto che diede il via alla persecuzione antisemita in Italia, prodromo della distruzione degli ebrei italiani realizzata durante la Repubblica di Salò, era Direttore dell’Istituto di Patologia Speciale Medica dell’Università di Roma dove dedicò l’intera esistenza agli studi tesi al potenziamento della stirpe italica.
Quelle iniziative si collocavano all’interno del programma della cosiddetta eugenetica positiva45, che caratterizzava la politica del fascismo per il “miglioramento della razza” e che, a differenza del nazismo, anche grazie all’influenza della Chiesa cattolica, non prevedeva interventi violenti (dalla castrazione dei “tarati” fino alla loro eliminazione). Ebbene, Pende si incaricò di dare veste “scientifica” a questa politica che lui definì “biologia politica” e i cui principi espose in un libro del 1933, Bonifica umana razionale e biologia politica, che assurse rapidamente a testo di assoluta autorevolezza nel dibattito sui temi di politica sanitaria, ma anche come riferimento fondativo del razzismo italiano. La classificazione biotipologia di Pende distingueva quattro biotipi fondamentali: il longilineo stenico, il longilineo astenico, il brevilineo stenico e il brevilineo astenico46. E proprio sulla base di questa concezione la stessa suddivisione in classi, secondo Pende, non era riconducibile a ragioni economiche, ma ai diversi biotipi individuali che ne determinavano necessariamente anche il ruolo sociale. In qualche modo, quindi, si legittimava una sorta di “aristocrazia biologica e morale della nazione”, ovvero il ceto dirigente fascista, a cui doveva essere affidato il potere e nel contempo si poggiava su basi scientifiche la stratificazione delle classi sociali. Ovviamente, secondo Pende, l’Italia custodiva le più grandi potenzialità, essendo l’italiano un popolo superiore, risultato di un processo di sintesi razziale unico e irripetibile. Quindi, lo Stato doveva sempre più valorizzare, con sane leggi, questi tesori biologici e psicologici della razza italica, intervenendo a quattro livelli: fondare l’educazione del fanciullo su basi biotipologiche; preparare le future mamme, le prime responsabili della supremazia o decadenza dei popoli; promuovere un’organizzazione del lavoro, basata sul principio “ogni uomo al suo giusto posto”, e quindi sul biotipo individuale di ciascun lavoratore; infine affrontare il “problema politico-biologico della razza”, ovvero l’urgenza della lotta alla “grande malattia sociale” del calo demografico47.
Nonostante l’esperienza tragica del nazismo, va ricordato che il movimento eugenista proseguì anche nel secondo dopoguerra in particolare nei paesi scandinavi48, e, forse, oggi vive una rinvigorita stagione proprio grazie alle nuove biotecnologie e al cosiddetto Transumanesimo49.
Ma tornando alla “grande saggezza della natura”, tema centrale della sociobiologia di Gumplowicz, riprendiamo l’analisi del momento più elevato e tragico in cui l’hibris dell’Occidente si dispiega pienamente e con la massima coerenza, il fascismo, il nazismo e la seconda guerra mondiale.
La “lotta della razze” può avere solo due sbocchi: o una grande razza capace di dominare il mondo pacificandolo (l’unum imperium sognato da Rodhes) o diverse razze in competizione tra di loro che aspirano a questo dominio e quindi destinate ad un conflitto ultimativo. A meno che l’umanità fuoriesca da questa trappola biocentrica, creata dall’uomo occidentale per giustificare il proprio sistema economico e sociale, che incatenerebbe l’umanità alla sua componente originaria animale (non a caso Keynes nel 1936 parla di “spiriti animali del capitalismo) incapace di “distinguere ciò che è giusto e ciò che è ingiusto”.
4. L’ecologia del protezionismo naturalista, il nazismo e il fascismo
A questo punto possiamo tornare al nostro inventore dell’ecologia, Ernst Haeckel (1834-1919). Anche se oggi Haeckel a molti non dice nulla, fu un monumento della scienza occidentale, universalmente riconosciuto, tra Ottocento e Novecento, biologo, zoologo e altro ancora, tra cui filosofo ed artista. Com’è noto, scoprì, descrisse e denominò migliaia di nuove specie e coniò molti termini in biologia, compreso, come abbiamo visto, il concetto di ecologia. Elaborò una visione del mondo che denominò monismo, una sorta di panteismo materialista accompagnato da un’accesa polemica anticattolica in un’opera del 1899, Gli enigmi dell’universo, che solo in Germania vendette 400.000 copie e fu tradotta in diverse lingue50. Fu il più importante divulgatore in Europa della teoria evoluzionistica e i suoi testi ebbero una grande diffusione in tutto il mondo. Per dare l’idea dell’importanza scientifica del personaggio, nel 2000 gli venne intitolato un asteroide, 12323 Haeckel, scoperto nel 199251. Come biologo e zoologo è ancora oggi ritenuto uno dei più grandi naturalisti di tutti i tempi52.
Curiosamente, in generale sia da parte dei naturalisti sia da parte degli storici del protezionismo53, del razzismo e del nazismo, viene sistematicamente ignorato il fondamentale contributo offerto da Haeckel al razzismo scientifico e, indirettamente, all’ideologia nazista. Gli storici preferiscono in genere ricorrere a personaggi molto più marginali, come il giramondo ambasciatore Joseph Arthur De Goubineau, o il bibliotecario erudito Georges Vacher De Lapouge, la cui influenza reale all’epoca fu infinitamente minore di quella, evidentemente agli occhi odierni più imbarazzante, dell’illustre scienziato Haeckel. Era un fervente naturalista ed era universalmente riconosciuto il suo immenso amore per gli animali, come si manifestava in questo passo in contrapposizione alle vessazioni loro inflitte dai cristiani:
Il cristianesimo ignora quel lodevole amore per gli animali, quella pietà per i mammiferi, per i nostri parenti e amici (cani, cavalli, bestiame), […] Coloro che hanno vissuto a lungo nel sud dell’Europa cattolica sono stati spesso testimoni di queste orribili torture inflitte agli animali e che risvegliano in noi, i loro amici, la più profonda pietà e la più vivida ira. […] Il darwinismo ci insegna che siamo discendenti diretti dei Primati e, se andiamo più indietro, di una serie di mammiferi, che sono “nostri fratelli”. Nessun naturalista monistico e compassionevole si renderà mai colpevole del trattamento malvagio degli animali inflitto loro dal credente cristiano che, nel suo delirio antropico di grandezza, si considera “figlio del Dio dell’amore”54.
Ma questo immenso amore per gli animali e per il vivente in generale che faceva di Haeckel un moderno Francesco d’Assisi, non gli impedì di elaborare una complessa tassonomia razziale impressionante e spietata: dodici differenti specie distinte in 36 razze umane, che raggiunge il compimento qualitativo con la razza eletta indo-germanica55. È utile appuntare che i semiti vengono comunque collocati al vertice appena sotto la razza eletta.
Tavola tassonomica delle dodici specie e delle trentasei razze umane secondo Haeckel (E. Haeckel, Histoire de la création des êtres organisés d’après les lois naturelles, C. Reniwald, Paris 1874, p. 599).
Se vi fosse qualche dubbio sulla classificazione gerarchica delle razze, Haeckel immediatamente dopo ne propone l’albero genealogico, dalle scimmie antropomorfe alla razza indo-germanica, ovviamente al vertice.
Albero genealogico delle dodici specie umane secondo Haeckel (E. Haeckel, Histoire de la création des êtres organisés d’après les lois naturelles, C. Reniwald, Paris 1874, p. 600).
Un razzismo che portò Haeckel a conclusioni francamente sconcertanti:
Un esame critico imparziale conferma anche la legge di Huxley: le differenze psicologiche tra l’uomo e gli antropoidi sono più piccole di quelle tra l’uomo e le scimmie inferiori. Questo fatto fisiologico corrisponde esattamente alle scoperte anatomiche che ci rendono consapevoli delle differenze nella struttura della corteccia cerebrale, “organo dell’anima”, la cui importanza non può essere negata. L’alto significato di questo fatto diventa ancora più palpabile se si considerano le straordinarie differenze nella vita psichica della specie umana. In alto vediamo un Goethe e uno Shakespeare, un Darwin e un Lamarck, uno Spinoza e un Aristotele e in basso troviamo i Weddas e gli Akkas, gli Australiani e i Dravidas, i Boscimani e i Patagoni! La vita psichica presenta differenze infinitamente maggiori, quando si passa da questi spiriti geniali a questi rappresentanti degradati dell’umanità, che tra questi ultimi e gli antropoidi.56
Ma Haeckel volle essere precursore anche di quell’eugenismo che ispirò la cultura occidentale per oltre un secolo e, in parte, fino ad oggi:
Fra gli Spartani tutti i bambini appena nati erano sottoposti a un attento esame o selezione. Tutti quelli che erano deboli, malaticci o affetti da qualsiasi infermità corporea, venivano uccisi. Solo i bambini perfettamente sani e forti venivano lasciati vivere e solo loro, in seguito, hanno propagato la razza57
Pur con una certa fatica, alcuni studiosi hanno finalmente cominciato a far emergere questo lato a dir poco imbarazzante della figura di Haeckel. Oltre alla fondamentale opera dell’epistemologo e storico delle scienze del Cnrs francese André Pichot, già citata, che meriterebbe una traduzione italiana, va menzionato lo studio coraggioso e discusso di Daniel Gasman, Haeckel’s Monism and the Birth of Fascist Ideology58e la più recente presa di posizione di una conferenza di zoologi convocata dall’Istituto per la Zoologia e le Ricerche Evoluzioniste dell’Università Friedrich Schiller di Jena, che fu il regno di Haeckel, il 2 agosto 2019, proprio in occasione del centenario della sua morte, in una serata sul tema, Jena, Haeckel e la questione delle razze umane, ossia il razzismo crea le razze. La dichiarazione di Jena che ne è scaturita così si concludeva:
Quindi, facciamo sì che le persone non siano mai più discriminate per speciosi motivi biologici e rammentiamo a noi stessi e agli altri che è il razzismo ad aver creato le razze e che la zoologia/antropologia ha avuto una parte infausta nel produrre giustificazioni presuntamente biologiche. Oggi e in futuro, non usare il termine razza dovrebbe far parte della decenza scientifica.59
Ci si può chiedere a questo punto: com’è possibile conciliare una cultura di protezionismo naturalista, di amore per gli animali e tutti i viventi, con uno spietato razzismo e con un violento eugenismo? Per ora l’interrogativo lo lasciamo senza risposta, appuntando solo il fatto che Haeckel si ritrova citato nelle varie biografie di Hitler, come uno dei suoi maestri ispiratori60.
Ma riandando alle origini dell’ecologia non possiamo non ricordare un altro grandissimo zoologo, di trent’anni più giovane di Haeckel, Jakob Johann von Uexküll (1864-1944), anche lui biologo e nel contempo filosofo, di origini estoni, naturalizzato tedesco, vissuto negli ultimi anni in Italia, considerato un pioniere dell’etologia e uno dei fondatori dell’ecologia.
La sua opera è stata recentemente riproposta all’attenzione di scienziati e filosofi, per la sua straordinaria attualità, ripubblicando nel 2010 il suo testo fondamentale, Ambienti animali e ambienti umani 61. Scritto nel 1933 è l’opera matura di uno dei maggiori biologi del secolo appena trascorso, un classico del pensiero europeo del Novecento che ha formato intere generazioni di studiosi del comportamento animale e della natura umana, in ambito scientifico, filosofico e persino letterario e che merita di essere riletta oggi.
Come precursore dell’ecologia Uexküll in questo testo sistematizza la sua nozione di ambiente, Umwelt, termine da lui stesso introdotto per la prima volta in ambito scientifico. L’ambiente in cui e di cui vive una determinata specie, ad esempio la zecca raffigurata in copertina, è una sfera separata e impenetrabile che appartiene esclusivamente ed è forgiata dalla zecca stessa, divenendo parte costitutiva dell’animale, che non può essere “compreso” senza che si provi ad accedere ad essa: insomma, quel dato animale può essere definito solo considerando il suo particolare essere nel proprio particolare ambiente.
Ad Uexküll la rivista “Discipline filosofiche” del Dipartimento di filosofia e comunicazione dell’Università di Bologna ha dedicato il primo numero monografico del 202362, scelta che viene così motivata dal Curatore:
Il biologo “teoretico” Jakob von Uexküll rappresenta il caso di uno studioso “riemerso” nella storia del pensiero con il titolo di “precursore” dell’ecologismo contemporaneo e della ricerca zoosemiotica e persino di “inventore” del moderno concetto di “ambiente”. A prescindere da certune frettolose attribuzioni, non si può trascurare il significativo impatto che alcune sue intuizioni seppero avere sulla cultura filosofica e scientifica del tempo. Ancora durante il Terzo Congresso Tedesco di Filosofia, svoltosi a Brema nel 1950, un’importante sessione di studi venne dedicata precisamente al dibattito sul tema dell’ambiente secondo l’impostazione da lui proposta decenni prima: la sua teoria degli “ambienti individuali” appariva per certi aspetti rivoluzionaria, nel contestare assunti di un pensiero positivistico considerato rigido e parziale e nel venire incontro a esigenze di rinnovamento categoriale avanzate dalle nuove scienze umane.
Di origini estoni ma di lingua e cultura germanica, zoologo marino specializzato e convinto sperimentatore di laboratorio, ma al contempo appassionato cultore di studi filosofici, von Uexküll aveva pubblicato nel 1909 un significativo saggio dal titolo Umwelt und Innenwelt der Tiere, nel quale a proposito dell’indagine biologica dichiarava che “il nostro modo antropocentrico di vedere le cose deve sempre più allontanarsi e il punto di vista dell’animale deve diventare il solo decisivo”, sottolineando una differenza specifica tra i vari organismi, la sostanziale autonomia delle loro sfere di esistenza e l’irriducibilità dell’ambiente di vita a uno spazio unico e oggettivo. Vi era connessa la richiesta di un nuovo modo di indagare sui viventi e quindi di un nuovo modo di porre le domande fondamentali da parte della scienza, come dimostra l’opera del 1920, Theoretische Biologie. In essa von Uexküll dava spessore alle sue idee facendo leva su un concetto di Umwelt poggiante su precise riflessioni gnoseologiche. Ciascun organismo è un ente soggettivo che, a seconda della maniera particolare in cui è costituito, seleziona determinati stimoli provenienti dai processi del mondo esterno, ai quali risponde in un modo peculiare; a loro volta, queste risposte consistono in determinati effetti sul mondo che, di nuovo, influenzano gli stimoli.
La risonanza del pensiero di von Uexküll è dimostrata, oltre che dalla importante e riconosciuta attività dell’Institut für Umweltforschung [Istituto per la ricerca ambientale. Nda] di Amburgo, [da lui fondato nel 1926. Nda] dalla sua immediata ricezione e discussione critica da parte dell’antropologia filosofica e di alcuni tra i pensatori più in vista del tempo, come Martin Heidegger ed Ernst Cassirer. Nei decenni successivi, e fino a una sorta di “riscoperta” dei nostri giorni, diversi filosofi, psicologi e semiologi si sono richiamati al suo lavoro traendo spunti e feconde intuizioni dalla sua originalità intellettuale63.
Ma anche Uexküll non volle astenersi dal sostenere posizioni francamente biorazziste. Quando Hitler salì al potere in Germania, molti scienziati, come il prof. Fischer, antropologo e rettore dell’Università di Berlino, avevano accolto con favore la “rivoluzione nazista” (“dunque lo ripeto: una rivoluzione in forma di buona educazione, una rivoluzione in pace e ordine […] senza che scorra il sangue […] quale altro popolo sarebbe capace di imitare questa rivoluzione tedesca!”64), e neppure percepirono l’orrore dell’antisemitismo che ispirava la legge per il “ripristino dell’assetto degli impiegati statali” del 7 aprile 1933 che ordinava l’allontanamento degli ebrei, dei mezzi ebrei, dei sospettati politici da incarichi pubblici.
Lo zoologo prof. v. Uexküll, precursore dell’ecologia, trovò subito una base biologica per la legge. Per la nuova edizione del suo volume, Biologia dello stato65, scrisse un nuovo capitolo su Le malattie parassitarie (i parassiti interni), in cui egli indica come “parassiti” gli “individui di altre razze”: “Nessuno quindi criticherà un capo di Stato, se egli contiene la penetrazione degli organi dello Stato medesimo da parte di una razza straniera”. […] E continua: “Come curatore delle opere postume di Stuart Chamberlain [il più importante teorico della superiorità della razza ariana. Nda], posso sottolineare che le soprastanti considerazioni coincidono, punto per punto, con la dottrina di Chamberlain”. E così lo studioso riteneva di aver reso giustizia a tutti66.
Con von Uexküll non possiamo non ricordare un suo grande amico67, di 40 anni più giovane, padre fondatore dell’etologia e anche fervente ecologista e protezionista, Konrad Lorenz (1903-1989), austriaco naturalizzato tedesco. Della rilevanza di Lorenz etologo non è il caso di parlarne (Premio Nobel nel 1973), del Lorenz ecologo e protezionista va menzionato che, “soprattutto in Austria, Lorenz è ricordato per il suo impegno a favore delle zone umide attorno al Danubio, minacciate da speculazioni edilizie”68. Ma proprio l’assegnazione del premio Nobel fu motivo per far emergere il suo passato di scienziato nazista69. Come ricorda Müller-Hill nel suo lavoro sugli scienziato al servizio del nazismo, quando nel 1940 si trattò di individuare gli “estranei alla società”, ovvero quanti non volevano o non potevano obbedire incondizionatamente allo Stato, del problema si occuparono non solo psichiatri, ma anche medici e, persino studiosi di comportamento animale che estesero direttamente agli umani i propri studi zoologici, come il prof. Lorenz, che, infatti, a Königsberg aveva appena ottenuto la cattedra di psicologia:
“Qualsiasi tentativo di rieducazione degli elementi usciti dalla comunità è senza speranza. Per fortuna la loro eliminazione è per il medico della società più facile, e per l’organismo sopraindividuale meno pericolosa, che non un’operazione su un singolo organismo. La difficoltà tecnica maggiore sta nel loro riconoscimento. Sotto questo aspetto ci può essere di grande aiuto l’uso dei nostri schemi innati. Un uomo buono riesce a vedere abbastanza bene, a livello profondo, se un altro è un mascalzone o no. E ne emerge un consiglio pratico, che forse suona strano dalla bocca di un naturalista che studia ed analizza le cause, ossia che, in relazione al tipo esemplare del nostro popolo, dovremmo fidarci delle reazioni viscerali non analizzate dei nostri migliori. Naturalmente accanto a ciò nello stesso tempo deve restare compito preminente la ricerca analitica causale degli schemi innati nell’uomo, e deve essere intensamente perseguita”. Pertanto, la “difficoltà tecnica maggiore” non era il riconoscimento, poiché per esso ci si poteva fidare delle “reazioni dei nostri migliori”70
A proposito di questo passato imbarazzante, in un’intervista televisiva nel corso delle polemiche seguite al premio Nobel, il giornalista Franz Kreuzer riuscì a strappare a Lorenz mezze verità:
K.: Dovette Ella addivenire a qualche compromesso nel periodo del nazionalsocialismo?
L.: Io ho perfino sperato che il nazionalsocialismo portasse qualcosa di buono, con riguardo all’apprezzamento del valore biologico dell’uomo nei confronti della domesticità etc. Che essi intendessero assassinio, quando parlavano di scelta e di selezione, non lo ho effettivamente mai creduto. Allora ero così ingenuo, così stupido, così in buona fede, mi definisca un po’ come vuole.
K.: Quando se ne è accorto?
L.: Quando ero già sotto le armi. Là ho visto per la prima volta, a Posen, trasporti non di ebrei, ma di zigani. Là mi si sono drizzati i capelli in testa…
K.: Ritiene Ella di essere stato politicamente attivo nella Sua vita, o ha desiderato di essere politicamente attivo?
L.: Per tutta la vita, fin da quando ero ragazzo, non ho mai desiderato di essere politicamente attivo. Non ho neppure partecipato a gite scolastiche…71
Evidentemente Lorenz non si ricordava, ad esempio, quando nel 1940 aveva detto che “era stata una delle più grandi gioie della mia vita”, l’aver persuaso uno studente al nazionalsocialismo (“la nostra visione del mondo”), con le sue lezioni sull’evoluzione72.
Lorenz, pur essendosi laureato in anatomia presso la Facoltà di medicina di Vienna, mostrò subito una spiccata inclinazione ad occuparsi sempre più di biologia e di zoologia, in particolar modo di un settore della zoologia che – in attesa di chiamarsi etologia – portava allora il nome di “psicologia animale”. Ma a Vienna, il contesto culturale e istituzionale, condizionato pesantemente dalla chiesa cattolica e dal partito cristiano al governo ostili al darwinismo, era poco propenso a favorire questi studi e in generale la ricerca biologica. Nella Germania degli anni Trenta, invece, la biologia era considerata una disciplina di punta da finanziare generosamente, con contributi elargiti dal governo nazista aumentati di dieci volte dal 1932 al 1939. Riprenderemo questo nodo problematico del rapporto stretto tra ideologia nazista e le tematiche del darwinismo, della selezione naturale e della biologia dell’ereditarietà.
Ma tornando a Lorenz è interessante vedere il percorso che lo porta ad auspicare l’“eliminazione” dei degenerati “estranei alla comunità”, nel già citato saggio Disturbi del comportamento specifico causati dalla domesticità del 1940. Ci guida in questo percorso alla scoperta delle premesse scientifiche di quella sconcertante conclusione la convincente riflessione critica, già citata, di Carlo Brentari:
Al 16° congresso della Società tedesca di psicologia, che si tenne nel luglio 1938 a Bayreuth, Lorenz tenne una conferenza, Difetti del comportamento istintivo degli animali domestici. Nel corso dei suoi studi su piccioni, anatre e oche Lorenz aveva osservato che la domesticazione porta con sé un’elevata modificazione dei moduli comportamentali istintivi, in special modo del corteggiamento. Allo stato selvaggio tali modificazioni impedirebbero ai partner di riconoscersi e di avvicinarsi l’uno all’altro. In cattività la vicinanza fisica obbligata della gabbia fa sì che essi si riproducano egualmente, ma è evidente che, rimessi in libertà, gli individui addomesticati non potrebbero più riprodursi. Lo stesso può dirsi dei moduli innati relativi alla nutrizione; qui i danni della degenerazione sono ancora più evidenti, ma anche in questo caso ogni problema di sopravvivenza è prevenuto dall’uomo, che nutre lui stesso gli animali utili o decorativi.
Più in generale, la situazione di cattività elimina totalmente gli effetti positivi della selezione naturale sia sull’anatomia che sugli istinti degli animali e introduce come fattore selettivo le esigenze dell’uomo. In questo modo la domesticazione agisce sul fondamento stesso della specie, sul corredo genetico che determina lo sviluppo degli individui; ma se le modificazioni esteriori delle specie domestiche sono visibili a tutti, meno appariscente è la degenerazione della loro istintualità, che con il passare del tempo le rende del tutto incapaci di sopravvivere e di riprodursi senza l’uomo. Fin qui Lorenz non fa che esporre un problema scientifico, sul quale del resto già Darwin aveva attirato l’attenzione. Egli però non si limita a questo. La conferenza del 1938 è incentrata sull‘idea che anche l’uomo moderno è a rischio di degenerazione, e di una degenerazione del tutto simile a quella che colpisce gli animali domestici. Le “modificazioni ereditarie nel sistema delle modalità comportamentali istintive”- dice Lorenz – “compaiono sia negli animali nel corso della domesticazione che nell’uomo nel corso del processo di civilizzazione”.
Ma dove può portare l’analogia istituita da Lorenz tra animale domestico e uomo civilizzato – o meglio, come dice lui stesso, “ipercivilizzato”? Prendendo spunto dai suoi esperimenti, in cui oche selvatiche e oche domestiche venivano allevate insieme, Lorenz afferma: “Se non effettuassi costantemente una certa selezione tra le mie oche, eliminando i frutti in eccesso degli incroci con le oche domestiche, entro poco tempo gli esemplari di sangue puro di oca selvatica verrebbero sopraffatti dalla concorrenza numerica dell’oca domestica. Mutatis mutandis, lo stesso vale per l’uomo della grande città. È statisticamente assodato che gli individui che presentano degenerazioni morali [Menschen mit moralischem Schwachsinn] raggiungono in media un tasso di riproduzione enormemente più alto degli individui di pieno valore [vollwertig]”73.
Insomma, ricondotti i comportamenti umani alle “leggi scientifiche” studiate negli animali, Lorenz si ritrova in perfetta sintonia con il progetto nazista di eliminare gli individui degenerati dovuti all’assenza di selezione naturale e all’influsso nefasto della domesticazione, ovvero della civilizzazione.
Infine, nel Panteon dei grandi precursori dell’ecologia e dell’ambientalismo, non si può non annoverare il nordamericano Madison Grant (1865-1937), zoologo, pioniere del conservazionismo naturalista, amico intimo di diversi presidenti degli Stati Uniti, tra cui Theodore Roosevelt e Herbert Hoover, nonché appassionato ambientalista impegnato nel protezionismo naturalista. Ebbe il merito di aver salvato molte specie naturali dall’estinzione e fu co-fondatore della Save the Redwoods League con Frederick Russell Burnham, John C. Merriam e Henry Fairfield Osborn nel 1918. Aiutò a costruire la Bronx River Parkway, a salvare i bisonti americani come organizzatore dell’American Bison Society, e contribuì a creare il Glacier National Park e il Denali National Park74. Un personaggio che ebbe grande influenza negli Usa e nel mondo nel promuovere il protezionismo naturalista, come anche nel diffondere una visione della storia dell’umanità fondata su un darwinismo razzista radicale che sfociava nel rivendicare una politica eugenetica violenta. La sua opera The Passing of the Great Race75, tradotta in numerose lingue riscuotendo un enorme successo internazionale, si preoccupava del pericolo che la grande razza bianca dolicocefala nordica, cui appartenevano i primi conquistatori del Nord America, fosse destinata al tramonto e a essere sopraffatta da razze inferiori successivamente immigrate, come quella negra o quelle provenienti dal Sud Europa o dall’Asia. Il suo appassionato protezionismo naturalista e il suo amore per il bisonte ed i parchi selvaggi non gli impedivano di invocare una politica violentemente eugenetica, che peraltro all’epoca si stava già praticando in alcuni stati Usa76:
Il valore e l’efficienza di una popolazione non si enumerano in base a ciò che i quotidiani chiamano anime, ma dalla proporzione di uomini di vigore fisico e intellettuale. La piccola popolazione coloniale dell’America era, nella media e singolarmente, ben superiore agli attuali abitanti, sebbene questi ultimi siano oggi aumentati di venticinque volte. Nell’eugenetica, l’ideale verso cui l’arte di governare dovrebbe dirigersi è, naturalmente, il miglioramento nella qualità, piuttosto che nella quantità. Questo, comunque, è al momento un consiglio verso la perfezione, mentre ora dobbiamo invece affrontare le condizioni per come sono. Il basso tasso di natalità nelle classi superiori è in qualche modo compensato dalle cure ricevute dai bambini nati e dalle maggiori probabilità di diventare adulti e riprodursi a loro volta. L’alto tasso di natalità delle classi più umili, in condizioni normali, è bilanciato da una pesante mortalità infantile, che elimina i bambini più deboli. Laddove l’altruismo, la filantropia o il sentimentalismo intervengono con gli scopi più nobili e impediscono alla natura di penalizzare le sfortunate vittime della riproduzione sconsiderata, la moltiplicazione dei tipi inferiori viene incoraggiata. Gli sforzi indiscriminati per preservare i neonati tra le classi inferiori sono spesso una minaccia alla razza. […] Coloro che leggono queste pagine capiranno che c’è poca speranza per l’umanità, ma il rimedio è stato trovato, e può essere rapidamente e misericordiosamente applicato. Un rigido sistema di selezione attraverso l’eliminazione di quelli che sono deboli o inadatti -in altre parole, dei falliti sociali- risolverà l’intera questione in un secolo, oltre a permetterci di liberarci degli indesiderabili che affollano le nostre prigioni, ospedali e manicomi. L’individuo può anche essere nutrito, educato e protetto dalla comunità durante la sua vita, ma lo Stato, attraverso la sterilizzazione, deve badare affinché la discendenza termini con quell’individuo, altrimenti anche le future generazioni saranno condannate a un fardello sempre crescente di vittime di un fuorviato sentimentalismo. Questa è una soluzione pratica, misericordiosa e inevitabile dell’intero problema, e può essere applicata a un gruppo molto ampio di scarti sociali, iniziando sempre con i criminali, i malati e gli insani, ed estendendola gradualmente a quelli che potrebbero essere definiti deboli piuttosto che imperfetti, e forse, in ultimo, ai tipi di razza senza valore.77
A questo punto si potrebbero avanzare alcune prime riflessioni.
Come era possibile conciliare l’ecologia con il razzismo, l’eugenismo e il nazismo? In realtà questi termini che ci appaiono oggi inconciliabili si tenevano all’epoca in un tutt’uno perfettamente coerente. Quell’ecologia era confinata nell’ambito della biologia evoluzionistica e si traduceva sostanzialmente nel protezionismo naturalista, quello che, quando sboccerà la “primavera ecologica”78, ovvero una nuova dimensione di questa scienza, che potremmo chiamare “ecologia umana”79 o “ecologia sociale e politica”, sarà sottoposto ad una critica serrata, per i suoi limiti intrinseci. Così Giorgio Nebbia, in uno dei primi suoi scritti a questo riguardo, del 1970, spiega come l’ecologia debba andare oltre il mero protezionismo diventando inevitabilmente “sovversiva”:
Perché sovversiva. […] la maggior parte dei cultori di ecologia è costituita da biologi, la cui attenzione, logicamente, è più rivolta ai continui pericolosi attentati al patrimonio della flora e della fauna che alle remote cause di tali attentati, la maggiore delle quali è nell’ormai diffusa mentalità che fa coincidere l’idea di progresso con quella di “società dei consumi”, per cui tutti devono essere sollecitati a consumare al massimo merci e servizi. […] L’ecologia è una scienza “sovversiva” proprio per questo: perché è anticonsumistica e propone il soddisfacimento dei bisogni non mediante lo sfruttamento e la rapina, ma facendo un uso moderato e saggio delle risorse naturali a disposizione. Non c’è dubbio che la “destra economica” trovi più comodo commuoversi per la scomparsa delle alghe rosse del lago di Tovel o degli orsi d’Abruzzo che affrontare una serie di modificazioni dei cicli di produzione e di riforme della politica dei consumi; che rinunciare alla speculazione edilizia; che generalizzare l’impiego dei depuratori di acque usate80.
E in un breve saggio di storia dell’ecologia, lo stesso Nebbia ricordava come un contributo fondamentale a questo rinnovamento della scienza dell’ambiente venne negli anni Sessanta del secolo scorso, oltre che dalla cultura marxista, da quello che lui chiamava “l’ecologia degli operai”.
A partire dal 1968, con le lotte operaie, cominciò a crescere, in maniera del tutto indipendente dalla contestazione ecologica “borghese” una contestazione ecologica operaia attraverso lotte in fabbrica per il miglioramento delle condizioni di lavoro. Si trattava di battersi contro le nocività dell’ambiente “all’interno” delle fabbriche, in parallelo all’altra contestazione che era rivolta contro le nocività all’ambiente provocate fuori dalle fabbriche e dai campi81.
Ancor più caustico nel criticare il protezionismo naturalista sarà Bernard Charbonneau (1910-1996), filosofo ed ecologista francese, con la sua provocatoria affermazione, pressocché coeva, del 1969: “La natura è un’invenzione dei tempi moderni”82, nel senso che, paradossalmente, mentre con la moderna industrializzazione inizia la “morte della natura”, sorge quello che lui chiama “sentimento della natura”, ovvero l’ecologia protezionista, sentimento necessario per l’uomo moderno immerso nell’illusione dell’artificializzazione, rappresentato esemplarmente dal parchetto urbano confinato tra distese di colate di cemento, dai Parchi naturali e dalla moda dei viaggi in luoghi esotici e selvaggi83.
Dunque tornando all’ecologia ante “primavera ecologica”, quella che per comodità denominiamo protezionistica e biocentrica, abbiamo visto come i suoi teorici, a partire dall’inventore del termine, rivelassero uno scientismo di derivazione positivista, ovvero la convinzione che la scienza fosse in grado di chiarire se non tutte le complesse problematiche della condizione umana, almeno quelle fondamentali. Erano tutti biologi, zoologi e darwinisti e tutti avevano radicato la loro postura ecologica e ambientalista nei loro studi biologici, riconducendo il comportamento e la condizione degli umani alla dimensione animale e alle leggi che presiedono all’evoluzione di tutte le specie. Il darwinismo viene interpretato estensivamente come teoria tesa a supportare la lotta per la sopravvivenza delle specie e delle razze, comprese quelle umane, basata sulla selezione naturale, ovvero sulla maggiore capacità di adattamento all’ambiente. L’eugenismo, coevo al darwinismo, ne era una logica derivazione: le pratiche per una “buona genetica” nelle società umane era doverosa e necessaria proprio per liberare al massimo livello le potenzialità benefiche della selezione naturale. della “saggezza della natura” come diceva Hitler, depurando la società dagli scarti che potevano condurre ad una degenerazione della razza. E tra i pericoli più insidiosi andavano annoverati gli ebrei, non in quanto razza inferiore (abbiamo visto come in Haeckel venivano considerati i Semiti, quasi alla pari degli indoeuropei), ma in quanto “antirazza”84, ovvero portatori di un’antropologia e di un umanesimo universalistici che negavano ontologicamente quella concezione razzista dell’umanità su cui poggiava l’Occidente e in maniera ancor più radicale il nazismo.
Dunque non ci possiamo stupire se il nazismo al potere fin dai primi anni volle emanare provvedimenti per i diritti degli animali, legge Tiergschutzgesetz del 24 novembre 193385 e di protezione della natura, legge Reichsnaturschutzgesetz del 1° luglio 193586, mentre approvava i primi provvedimenti antisemiti, legge Per la Restaurazione del Servizio Civile Professionale, il 7 aprile 193387, secondo la quale funzionari e impiegati pubblici ebrei – insieme a quelli giudicati “politicamente inaffidabili” – dovevano venire esclusi dalle cariche e dalle funzioni pubbliche e, sempre nello stesso anno, approvava la prima legge eugenista, Per la prevenzione della prole con malattie ereditarie, il 14 luglio 193388, ovvero per la sterilizzazione forzata dei tarati o di chi poteva minacciare la purezza della razza. Infatti come prima applicazione, palesemente razzista, il nazismo al potere si occupò del caso dei meticci che le truppe franco-africane della prima guerra mondiale avevano lasciato nella Renania. In verità già durante la repubblica di Weimar era stata avanzata la necessità di sterilizzarli, in particolare dall’antropologo razzista Hans Günther, ma fu con il nazismo, grazie all’analisi compiuta dai protagonisti del progetto hitleriano, i già citati Alfred Ploetz e Fritz Lenz, il medico e antropologo Eugene Fisher e il medico e biologo Otmar von Verschuer, che riconobbero un diffuso deficit mentale in questi giovani “bastardi renani” e quindi meritevoli di applicazione della legge sull’eugenetica. Cosicché, finalmente fu lo stesso Hitler a dare l’ordine, il 18 aprile 1937, di sterilizzare 385 di questi ragazzi89. Fu il preludio dell’Azione T4, detta impropriamente progetto “eutanasia”, un insulto in realtà per le vittime perché di “buona morte” non si trattò ma di eliminazione violenta, come avvenne poi per la Shoah degli ebrei.
Allo stesso tempo non ci si può sorprendere di un Giuseppe Bottai, impegnato allo spasimo ad elaborare la prima, indubbiamente importante, normativa nazionale per la tutela del paesaggio, legge poi approvata il 29 giugno 1939, n. 1497, Protezione delle bellezze naturali90, mentre con altrettanta solerzia attuava il decreto legge del 5 settembre 1938, per la difesa della razza nella scuola fascista con l’allontanamento sia degli insegnanti che degli studenti ebrei, anticipando gli altri provvedimenti razzisti e dimostrandosi tra i più accaniti in quella sciagurata politica antisemita che porterà il fascismo a partecipare attivamente alla distruzione di tanti ebrei italiani91. Tutto ciò, mentre il fascismo, poco prima, aveva approvato per le colonie dell’Africa orientale il regio decreto n. 880 del 1937, convertito dalla legge 30 dicembre 1937 n. 2590, recante Sanzioni per i rapporti d’indole coniugale fra cittadini e sudditi che vietava i matrimoni misti, il madamato e, in generale, ogni rapporto con donne originarie delle colonie africane, che potevano degradare la purezza della razza italiana.
Hitler ci aiuta a comprendere la coerenza, in apparenza paradossale, tra ecologia del protezionismo naturalista e razzismo radicale come interpretato dal nazismo e dal fascismo. Il chiodo fisso di Hitler è la natura, interpretata secondo i canoni scientifici coevi, di Haeckel suo autore culto di riferimento, invocata come una sorta di dea, con le stesse parole che abbiamo visto in Gumplovicz: la “crudele regina di ogni saggezza”92, che agisce secondo il principio “aristocratico” che sarebbe il motore dell’evoluzione delle specie, comprese le razze umane, il prevalere dei più dotati e dei più forti, dunque della razza superiore (Si noti che ariano deriva dal sanscrito “arrya” che significa “di buona famiglia”, “aristocratico”). A questo radicale biocentrismo, fondato sulle ferree leggi della natura, avrebbero l’imperdonabile colpa di contrapporsi appunto gli ebrei: “A questo punto interviene naturalmente l’impudente e sciocca critica dei moderni pacifisti ebrei: ‘l’uomo è fatto per vincere la natura’”93. Sarebbe, questo, un fatale prevalere dell’umanesimo universalista dell’ebraismo sulla sua “crudele saggezza”, premessa, appunto, della grande eresia dell’uguaglianza e della pari dignità tra gli umani, compresi i deboli e gli svantaggiati. Fu dunque contro questa infausta prospettiva che Hitler ingaggiava la sua battaglia: “L’eterna natura si vendica spietatamente di ogni trasgressione alle sue leggi. Perciò io credo oggi di agire nel senso del Creatore del mondo: in quanto io mi difendo dagli ebrei, lotto per le opere del Signore”94. Così pure, il protezionismo naturalista ha il compito di preservare intatta la primordiale “saggezza della natura” una sorta di sacrario come il culto della razza ariana, dunque in perfetta sintonia con il razzismo, l’antisemitismo e l’eugenismo. Si tratta di un’unica battaglia: quella contro l’estinzione del bisonte e quella contro il tramonto della grande razza, bianca, indoeuropea, ariana.
A questo punto si possono avanzare alcune considerazioni.
Nazismo e fascismo furono regimi ecologisti? Sì e no. Sì se li valutiamo in relazione alla cultura “ecologista” coeva, quella biocentrica e protezionista, comune, peraltro, a tutto l’Occidente. No, se confrontiamo le loro politiche “ecologiste” con le successive acquisizioni, nei primi anni Settanta, dell’ecologia umana e dell’ecologia politica, intese come studio delle relazioni tra fattori politici, economici e sociali, da un lato, ed effetti sui cambiamenti ambientali e quindi retroattivamente sulle condizioni di vita dell’umanità, dall’altro95. Il fatto che storicamente i teorici dell’ecologia protezionistica fossero biologi evoluzionisti, razzisti ed eugenisti, ispiratori del nazismo, non significa, ovviamente, che il protezionismo sia da stigmatizzare o da svalorizzare. Semmai se ne deve cogliere innanzitutto la lezione sui limiti di quell’esperienza che ci hanno lasciato i citati Nebbia e Charbonneau, tra tanti altri. Inoltre, sulla base di quell’esperienza, dovremmo essere avvertiti, quando, di fronte all’impasse sconfortante di politiche ambientali capaci di aggredire alla radice le cause dell’attuale crisi del rapporto tra economia umana e biosfera, siamo tentati ad addossarne la colpa all’antropocentrismo, nell’illusione che l’alternativa possa essere un nuovo biocentrismo o ecocentrismo, come sembra auspicare la cosiddetta ecologia profonda96. Purtroppo dimetterci dalle nostre responsabilità, dopo i disastri che abbiamo compiuto sul Pianeta, sembra una via di fuga piuttosto codarda che non gioverebbe per nulla neppure alla biosfera, a meno che si accompagnasse con una programmata o accettata estinzione del genere umano, forse comunque non risolutiva, se si pensa ai possibili effetti distruttivi del nucleare civile e militare, inventato dall’uomo e abbandonato all’incuria sulla terra. Tocca dunque, a mio parere, all’ecologia umana, sociale e politica affrontare il problema riprendendo il filo interrotto della “primavera ecologica” degli anni Settanta.
5. Le “autarchie verdi” del nazismo e del fascismo
Autarchia evoca immediatamente il Ventennio: nel nostro immaginario si identifica con una fase del fascismo italiano, iniziata con le “inique sanzioni” imposte, il 18 novembre 1935, dalla Società delle Nazioni all’Italia in seguito all’aggressione all’Etiopia.
Ma se fu solo il fascismo ad usare esplicitamente e con grande enfasi il termine autarchia, anche le altre nazioni economicamente sviluppate, negli anni Trenta, avviarono pressoché tutte una politica molto simile, come risposta alla grande crisi del 1929, che in generale venne vissuta come la pietra tombale sul liberismo fino ad allora imperante in Occidente97.
Fu, dunque, una politica complessa che i Governi adottarono quando si resero conto che un intervento ridotto a palliativi o astuzie tattiche per superare meglio degli altri la congiuntura critica non produceva effetti durevoli: si trattava di favorire un nuovo “sviluppo di economie complesse, i cui rapporti, sia pur interdipendenti, non fossero più regolati dalle antiche leggi del libero scambio”.
In questo senso fu un fenomeno generalizzato a tutte le principali economie occidentali, seppur tradotto in forme diversificate98. Infatti il termine “autarchia”, equivalente in realtà ad “economia regolata”, si declinava altrove come planning economy, économie dirigée, planwirtschaft 99.
Nel caso dell’Unione sovietica, dovendo far fronte all’isolamento internazionale con la scelta del “socialismo in un solo Paese” e il varo da parte di Stalin del primo piano quinquennale nel 1928, per modernizzare l’economia “fu quindi necessario ricercare i mezzi indispensabili alla costruzione di una grande industria esclusivamente nelle risorse interne ed effettuare la trasformazione dell’economia in regime di autarchia”100.
La Germania nazista si pose immediatamente all’opera per risollevare economicamente il Paese dalla grande depressione seguita al ’29 con i piani quadriennali, che in breve tempo determinarono uno sviluppo dell’agricoltura, dell’industria e della tecnologia sorprendenti.
La Gran Bretagna, dal canto suo, si rinserrava nel vasto spazio economico del nuovo Commonwealt of Nations, in cui, con lo Statuto di Westminster del 1931, aveva ristrutturato l’impero. Anche qui si manifestò un intervento attivo dello stato nell’economia, con un controllo e una restrizione delle importazioni, con tariffe doganali destinate a favorire le industrie-chiave nazionali e trattati di commercio sottoscritti per favorire le esportazioni di carbone101.
Ma lo stesso New Deal, avviato da Franklin Delano Roosevelt nel 1933, si muoveva sostanzialmente su questi binari: un robusto intervento dello Stato federale nell’economia che si dispiegava in tutti i settori, con duttilità, gradualità e capacità di adattamento, ma anche con straordinaria efficacia e incisività, al fine di ristabilire un equilibrio tra città e campagna, tra prezzi agricoli e industriali, e di “riattivare il mercato interno – il solo che conta – per mezzo del controllo dei prezzi e della produzione, per mezzo della rivalutazione dei salari e del potere d’acquisto delle masse”102.
Lo stesso John Maynard Keynes (1883-1946) in un importante articolo del 1933, Autosufficienza economica103, auspicava, un’economia “autarchica” che si basasse soprattutto sulle risorse naturali del proprio territorio. Va aggiunto che le sue considerazioni, pur nella comune critica al liberismo, si collocavano in una prospettiva per certi versi opposta a quella aggressiva e bellicista del fascismo e del nazismo, nel rapporto con gli altri popoli e nazioni. Far leva, innanzitutto e finché ciò è possibile, sulle proprie forze, diceva Keynes, poteva “piuttosto servire che danneggiare la pace”, perché attenuava (e attenuerebbe, aggiungiamo noi) la spinta a depredare con la ragione della forza le risorse di altri territori e di altri popoli. Questo saggio potrebbe essere oggi di assoluta rilevanza e attualità come piattaforma teorica per un’auspicabile fuoriuscita dal basso, ovvero democratica e pacifica, dal globalismo neoliberista e dalla pericolosa crisi che lo attraversa. E’ questa la tesi di un autorevole studioso tedesco, Wolfgang Streeck (1946-), sociologo ed economista, direttore emerito dell’Istituto Max Planck per lo studio delle società di Colonia: nella seconda parte dell’ultima sua recente opera, tratteggia questa alternativa come unica possibilità di salvezza della democrazia, oggi irrimediabilmente compromessa dal globalismo neoliberista, delineando i tratti di un nuovo stato nazionale capace di riaffermare il primato della politica sull’economia nel quale possa essere integrato e addomesticato il capitalismo, mettendone sotto controllo la carica distruttiva dei suoi “spiriti animali”. Stato che lui denomina, appunto, con i suoi ispiratori, Keynes del saggio del 1933 e Karl Polany (1886-1964) de La grande trasformazione del 1944104.
Ma tornando alle autarchie fascista e nazista, queste si connotarono, inoltre, per un’accentuata motivazione ideologica in sintonia con i tratti fondativi dei due regimi, che portavano all’esasperazione l’hibris dell’Occidente: un nazionalismo radicale (i “sacri confini della Patria”), la presunzione di una superiorità razziale (il “sangue ariano”, la “stirpe italica”) e infine il “suolo” sia come base fondativa della razza sia come matrice del “ruralismo” custode della tradizione colturale e culturale, dunque dei perenni valori della nazione.
Infine, altro elemento da mettere in conto, soffrivano, più l’italiana meno la germanica, di una relativa ristrettezza del territorio disponibile da cui attingere le risorse materiali ed energetiche per la propria autosufficienza economica. Progetto facile da realizzare per l’Inghilterra e il suo vastissimo impero o per la Francia e le sue estese colonie in Africa e Asia, o per l’Unione Sovietica con un territorio dal Caucaso al Pacifico o per gli Stati Uniti, un mezzo continente dall’Atlantico al Pacifico, con l’aggiunta del “cortile di casa” dell’America Latina.
È un dato, questo, di grandissimo rilievo su cui torneremo a riflettere.
Alcune considerazioni sul caso nazista, che in sei anni, dal 1933, con un piano quadriennale e mezzo risollevava un paese ridotto allo stremo dalla devastazione della crisi del 1929 a una potenza di prima grandezza pronta a sfidare il vecchio assetto geopolitico uscito vincente dal primo conflitto mondiale:
Il primo piano economico quadriennale della Germania, iniziato nel 1933, si è rivolto anzitutto alla moltiplicazione del pane. Esso ha un’intonazione profondamente agricola. Tende a stimolare la produzione della terra e legarvi la gente contadina. Sin dai primi giorni del nuovo regime la Germania sente il duplice pericolo dello spezzato equilibrio fra la città e la campagna e del disordinato urbanismo che spopola la terra e ne diminuisce la fecondità105.
Il secondo piano quadriennale, annunciato da Hitler a Norimberga nel settembre 1936, ha per fine l’autarchia dei mezzi produttivi: la sufficienza economica assicurata con le risorse nazionali in tutti i rifornimenti e nella preparazione bellica; la difesa, su un’alta quota costante, del ritmo produttivo raggiunto dall’industria germanica. […] L’economia autarchica diviene necessariamente un’economia controllata, che si disciplina, funziona e si ricompone secondo direttive statali106.
Come si può vedere il ritorno alla terra, era centrale nel primo piano quadriennale, anche se ben presto apparve difficile conciliare uno sforzo proteso alla modernizzazione e allo sviluppo industriale a scopi bellici, con una promozione effettiva, non solo propagandistica, delle campagne e dell’agricoltura. Questo conflitto era rappresentato emblematicamente da Hermann Wilhelm Göring, responsabile del Piano quadriennale per la rinascita economica, e da Walther Darré, ispiratore della politica agraria nazista e Ministro del Reich all’alimentazione e alla agricoltura.
Darré, autore nel 1930 di La nuova nobiltà di sangue e suolo (Neuadel aus Blut und Boden), propugnava un rinnovamento spirituale e razziale della Germania tramite un distacco dall’industria e una riconversione all’economia agraria, basata sulla cultura tradizionale del piccolo proprietario terriero e su un rinnovamento dei sistemi produttivi che puntavano a favorire la fertilità naturale dei suoli e l’impiego massiccio di manodopera, evitando il ricorso agli additivi chimici e alla meccanizzazione spinta; insomma si trattava di realizzare un nuovo sistema colturale che Darré avrebbe poi denominato “agricoltura bio-dinamica”. Questa visione era accompagnata da una sorta di mistica del contadino germanico del nord, sulla cui purezza razziale, da preservare e sviluppare con un’eugenetica aggressiva (sterilizzazione obbligatoria dei “tarati”) e con la discriminazione antisemitica e antislava, andava rifondata la nuova Germania. Darré “definì i contadini tedeschi come un gruppo razzialmente omogeneo di discendenza nordica che formava il nucleo culturale e razziale della nazione tedesca”107. “La società contadina corrispondeva al bisogno di allevare i giovani in modo sano, all’aria aperta e abituandoli agli esercizi fisici, nutrendoli con cibi integrali”108, che non potevano che provenire appunto dalla “coltivazione bio-dinamica”109 dei terreni. Per questo fu infaticabile, fino a quando morì, nel mettere in guardia dall’erosione del suolo e dai pericoli insiti nell’uso dei fertilizzanti chimici, ponendo con forza l’accento sulla salvaguardia della biomassa e della materia organica nel terreno110. L’industria, invece, era una tecnostruttura artificiale sovrapposta (contrapposta?) alla natura, un insulso “non luogo”, mutuando la felice espressione di Marc Augé.
Dopo quanto abbiamo visto fin qui non stupisce questa compresenza in Darré di una cultura “ecologica” e di un’ideologia radicalmente reazionaria, tradizionalista, razzista e antisemita: si tratta, come si è detto, della medesima preoccupazione di assecondare “la saggezza della natura”, ancorché crudele.
Del resto, andavano nella stessa direzione i primi studi importanti a livello internazionale sul rapporto tra fumo di sigarette e cancro ai polmoni sviluppati nella Germania nazista dal dottor Franz H. Müller dell’Istituto per il tabacco di Jena, insieme alle prime campagne di massa contro la nocività del tabacco111. Ciò che accomunava gli studi di Darré e di Müller era appunto la preoccupazione di salvaguardare e rafforzare la purezza, l’integrità, la buona salute, dunque la superiorità della razza ariana germanica, ovvero fare in modo che potesse operare appieno la “saggezza della natura”. A tal fine l’uno riteneva importante un’alimentazione sana e integrale, l’altro uno stile di vita che evitasse l’esposizione al rischio di cancro. Insomma, anche in questi campi di ricerca su orizzonti che ai nostri occhi possono apparire innovativi e anticipatori (bioagricoltura, prevenzione ambientale dei tumori), bisogna tenere sempre presente che l’ideologia tradizionalista e reazionaria poteva (e può) benissimo trovare interesse esprimendo capacità di elaborazione innovativa. In effetti fu così anche per la scienza e la tecnologia, diciamo, ufficiali: nella prima metà del Novecento, un po’ in tutta Europa, ma segnatamente in Germania, si sviluppò una formidabile corrente di pensiero che seppe sposare una ideologia antilluministica e tradizionalista (la kultur della comunità nazionale del “sangue e del suolo”, infine della razza), con la tecnologia e la scienza più avanzate, dando vita a quel fenomeno che, con un’efficace formula, venne denominato “modernismo reazionario”112.
La propaganda del tempo indubbiamente enfatizzava alcuni successi, come nel reportage sull’autarchia tedesca del direttore del “Giornale d’Italia”, Virginio Gayda, pubblicato nel 1938 con prefazione di Ulrich von Hassel, allora a ambasciatore della Germania a Roma113. Venivano qui riassunti gli obiettivi del primo piano regolatore di tutta l’economia agricola germanica, creato il 13 settembre 1933 dal Reichsnaehrstand, fondato da Darré: si obbligava chi aveva lavorato per almeno 3 anni la terra a ritornare nelle campagne e a diventare contadino proprietario: il programma prevedeva di coinvolgere circa un milione di contadini; si puntava soprattutto, per le produzioni, sui cereali, sui grassi e sui foraggi114. A parole, anche nel secondo piano quadriennale, la riconquista della terra era la priorità: “Due compiti si domandano all’agricoltura germanica nel nuovo piano quadriennale per l’autonomia economica: bastare al fabbisogno degli alimenti di 66 milioni di uomini e fornire all’industria, con nuove coltivazioni, i prodotti già forniti dalla terra straniera”115.
Il maggior rendimento della produzione agricola doveva essere conseguito con una serie di provvedimenti prescrittivi e coercitivi. Ma anche la città era chiamata a dare il suo contributo: i rifiuti della cucina di ogni casa divenivano preziosi per la campagna, in omaggio alla lotta contro gli sprechi, il Kampf gegen Verdierbeng; in ogni casa il pane rimasto e le verdure di rifiuto dovevano essere raccolti in un’apposita cassetta che a giorni fissi era ritirata dai ragazzi della Hitler Jugend. Così, secondo il reporter del “Giornale d’Italia”, in un solo anno, fra il settembre 1935 e il settembre 1936, l’esercito suino sarebbe cresciuto in Germania di 3 milioni e 200 mila maiali116.
Un’esagerazione propagandistica, evidentemente, anche se questo dell’aumento relativo dei suini, insieme a quello degli ovini, fu uno dei risultati forse più significativi della politica agraria di Darré117. Indubbiamente, in analogia alla battaglia del grano italiana, anche la produzione di cereali registrò una crescita significativa118, ma, se si tiene conto del relativo incremento demografico, nel complesso l’autosufficienza alimentare sarebbe aumentata di poco, passando dall’81% del 1933 all’83% del 1939119. E nel frattempo lo stesso Darré subiva una progressiva emarginazione dai più importanti ruoli di comando. L’agricoltura bio-dinamica di Darré richiedeva alcuni presupposti che inevitabilmente sarebbero entrati in conflitto insanabile con il “modernismo reazionario” industrialista di Göring: priorità assoluta alla campagna rispetto alla città, all’agricoltura rispetto all’industria; salvaguardia ed estensione dei terreni fertili e coltivabili; tempi lunghi per l’aumento della produttività agricola affidata soprattutto alla cura della fertilità naturale dei suoli, rinunciando alla scorciatoia dei concimi chimici; colture intensive con l’utilizzo solo di macchinario a misura dei piccoli poderi e con grande impiego di manodopera da riportare nei campi. Ma Göring e Hitler avevano urgenza di creare in breve tempo un apparato tecnologico e industriale potentissimo per preparare la nazione alla guerra. Spettacolare, in questo senso, fu la capacità della Germania nazista di valorizzare la straordinaria ricchezza di carbone e di ligniti del proprio territorio con la loro trasformazione in benzina carburante: alcuni scienziati tedeschi, in particolare Friedrich Bergius (1884-1949), già negli anni Venti, avevano scoperto che, con un innovativo processo chimico, era possibile aggiungere atomi di idrogeno al carbone trasformandolo in benzina sintetica. Nel 1925 lo sviluppo su larga scala del processo Bergius fu assunto dalla basf, Badische Anilin und Soda Fabrik, uno dei più grandi complessi chimici del mondo; il 9 dicembre 1925 la basf si fuse con altre sette società chimiche tedesche dando vita al gruppo ig Farben. Alla ig Farben Bergius poté lavorare con Carl Bosch, uno degli inventori della sintesi sotto pressione dell’ammoniaca dall’azoto atmosferico, che aveva assicurato alla Germania, per tutto il periodo della prima guerra mondiale, concimi e esplosivi ricavati dal carbone. La prima grande fabbrica di benzina sintetica fu costruita nell’aprile 1927 a Leuna e nel 1931 era in grado di produrre 300.000 tonnellate di idrocarburi all’anno. Nello stesso 1931 Bergius e Bosch ottennero il premio Nobel per la chimica. Conquistato il potere nel 1933, Hitler capì che il suo progetto imperialista di guerra e di conquista mondiale aveva bisogno di una potente industria chimica, capace di produrre esplosivi, concimi, gomma sintetica e benzina sintetica dall’unica materia prima abbondante in Germania, il carbone. Hitler corteggiò i grandi capitalisti tedeschi e assicurò elevati profitti a chi avesse favorito i suoi progetti militari. Nel 1944 funzionavano in Germania dodici stabilimenti di idrogenazione del carbone con una produzione di oltre tre milioni di tonnellate all’anno di benzina, fra cui benzina da aviazione ad alto numero di ottani, il grande motore della macchina da guerra tedesca120.
In questo conteso, Darré non poteva non lamentare che, nonostante i proclami, continuava l’emorragia di braccia dalle campagne alla città e agli altri settori121, progettando, per porvi rimedio, la sostanziale riduzione in schiavitù di ebrei e polacchi da impiegare in sostituzione nelle fattorie all’Est. Inoltre egli stesso, nel 1936, stimava a 612.000 ettari le aree sottratte all’agricoltura, a cui se ne aggiunsero 300.000 nel periodo 1936-’39, per far posto alla costruzione di industrie, autostrade, caserme, campi militari, stadi, fortificazioni, infrastrutture varie122. Senza contare la pressione dell’industria tessile per produzioni di piante per fibre, che ovviamente sostituivano quelle destinate all’alimentazione animale e umana. Cosicché il combinato disposto della riduzione dei terreni coltivabili e della manodopera agricola a favore dell’accelerata industrializzazione con l’urgenza di aumentare comunque la produzione di alimenti a fini bellici, mise in crisi l’agricoltura bio-dinamica, in favore della meccanizzazione spinta e dell’impiego su vasta scala dei concimi chimici, sostenuti dal suo successore Herbert Backe, tecnocrate all’apparenza più efficiente123. Tuttavia, l’abbandono dei metodi colturali di Darré e la conseguente riduzione della fertilità naturale dei terreni, quando durante il conflitto i supporti artificiali all’agro-industria in parte vennero a mancare, produssero effetti deleteri inaspettati: si determinò così quell’endemica penuria alimentare, che rappresentò nel corso della seconda guerra mondiale una delle fragilità strutturali della macchina bellica tedesca124.
Ma le difficoltà dell’autarchia nazista non sono paragonabili a quelle fasciste: il territorio agricolo produttivo, al netto dalle zone montuose, era molto limitato e strutturalmente insufficiente ai diversi fabbisogni (alimentazione, fibre tessili, legno, biocarburanti, ecc.); inoltre, la pressocché assenza di combustibili fossili rendeva particolarmente problematico il raggiungimento della sovranità energetica.
Per questa ragione Giorgio Nebbia mi “obbligò” a studiare il caso italiano, perché si trattava di un involontario esperimento di un’economia costretta a fare i conti con i limiti naturali delle risorse senza la droga dei fossili, anticipando di un secolo la sfida cui è di fronte oggi il mondo intero e, per questo, meritevole di essere analizzata in profondità125. Per la stessa ragione Serge Latouche (1940-), economista francese e teorico della decrescita, ha apprezzato questo lavoro dedicandovi un’importante introduzione alla seconda edizione126.
Nonostante l’enfasi sulle conquiste della bonifica integrale e della battaglia del grano, l’autosufficienza alimentare non fu raggiunta (come è ben lontana da esserlo ancor oggi!), anche perché ci si preoccupò giustamente di vestire gli italiani con fibre naturali di produzione nazionale, con risultati in certi casi eccellenti (in particolare con la fibra e i tessuti della canapa, un meritato primato mondiale per qualità e quantità, poi del tutto sciaguratamente vanificato127). Ma è soprattutto di grande interesse analizzare come fu affrontato il problema energetico. Come è noto, per quanto riguarda il carbone, la trionfale propaganda per le nuove miniere dell’Arsia in Istria e di Carbonia in Sardegna fu inversamente proporzionale alla quantità e qualità ricavate, cosicché l’incidenza reale sul fabbisogno rimase ben al di sotto del 50%. Anche il tentativo di copiare la Germania creando l’anic, Azienda nazionale per l’idrogenazione dei carburanti, con impianti per produrre benzina sintetica fu pressocché fallimentare, sia per difficoltà tecnologiche che per la scarsa qualità delle materie prime. Più interessante il risultato della ricerca di metano nella Pianura Padana da parte dell’agip che stimolò l’invenzione di nuove tecnologie per il suo sfruttamento nell’alimentazione dei motori a combustione interna. La carenza di combustibili fossili, comunque, spinse la ricerca scientifica e tecnologica su terreni del tutto innovativi e d’avanguardia per quei tempi: l’impiego di biocarburanti in aggiunta o in sostituzione delle benzine (etanolo addizionato alla benzina con funzione anche antidetonante al posto del piombo, legna o carbonella per i gasogeni); nuove macchine a energia solare, come le elio-pompe per estrarre acqua dal sottosuolo funzionanti con l’irradiazione diurna; l’impiego dell’alcol etilico, derivato dalla fermentazione delle barbabietole da zucchero, come materia prima, in sostituzione dei fossili, per la produzione della gomma sintetica in uno di primi impianti in assoluto di biochimica, con uno stabilimento a Ravenna, ad opera di Giulio Natta, futuro Premio Nobel per la chimica128.
Non credo sia necessario aggiungere che questi “meriti” delle autarchie fascista e nazista non discendano da una progettualità scientifica, tecnologica ed economica orientata intenzionalmente a fronteggiare la crisi ecologica almeno sul versante dei limiti naturali delle risorse (sull’altro versante, della dispersione in ambiente di rifiuti e sostanze tossiche, ovviamente, il problema neppure veniva posto). Si trattò di un’inevitabile costrizione che ebbe, tra l’altro, conseguenze nefaste sulla successiva evoluzione della storia.
6. La seconda guerra mondiale, un conflitto ecologico
Negli anni Trenta, sia l’Italia fascista che la Germania nazista, come abbiamo visto, furono costrette a sperimentare un’economia autarchica fondata soprattutto sulle risorse dei rispettivi territori e quindi a misurarsi con i limiti naturali delle loro economie e con le oggettive difficoltà di una simile costrizione129. Da qui il “diritto” e la “necessità” per i due nuovi imperi autoritari emergenti di ottenere ciò che i vecchi imperi “liberali” anglosassoni e francesi avevano da tempo conquistato: estesi territori e popolazioni di razza inferiore da colonizzare e sfruttare a proprio vantaggio. Insomma la questione ecologica dei limiti delle risorse fu al centro di quel conflitto, evocata dai rispettivi miti: per il fascismo, il “posto al sole”, l’area mediterranea, nonché i popoli che vi si affacciavano, e, per il nazismo, il Lebensraum, lospazio vitale, l’Europa orientale e i popoli slavi, condannati alla sottomissione dall’origine del loro stesso nome, schiavi.
Uno storico nordamericano, Timothy Snyder, ha il merito di aver riletto in questa chiave quel conflitto legando la seconda guerra mondiale alla questione dei limiti naturali delle risorse.
Se la visione del mondo di Hitler fondeva insieme scienza e po1itica, il suo programma confondeva la biologia con il desiderio. Il concetto di Lebensraum univa il bisogno con la volontà, l’assassinio con la convenienza personale. Comprendeva un piano per ricostruire il pianeta attraverso lo sterminio e la promessa di una vita migliore per le famiglie tedesche. Dopo il 1945, uno dei due significati della parola Lebensraum ha avuto larga diffusione sul pianeta: un salotto, il sogno della comodità domestica in una società consumistica. L’altro senso della parola è quello di habitat, l’ambiente che occorre controllare se ci si vuole garantire la sopravvivenza fisica, popolato, forse in via temporanea, da persone considerate non completamente umane. Unendo queste due connotazioni in un vocabolo, Hitler operò una sovrapposizione tra stile di vita e vita. Per avere una dispensa ben fornita, le persone dovevano appoggiare la sanguinosa lotta per la conquista delle terre altrui. Quando si confonde il tenore di vita con la vita, una società ricca può dichiarare guerra a quelle più povere in nome della sopravvivenza. Decine di milioni di persone morirono nella guerra di Hitler, non perché i tedeschi potessero vivere, ma perché potessero inseguire il sogno americano…130
Snyder, nelle conclusioni131, sviluppa considerazioni di grande interesse rispetto alla travagliata attualità di questo nuovo millennio, ricavandole proprio dall’analisi del rapporto del nazismo con la “terra”, suggerendo che da quel “nero” orizzonte l’Occidente forse non è ancora del tutto fuoriuscito.
Potrei aggiungerne molte anch’io, ma sarà per una seconda parte di questo saggio. Intanto, forse, spunti di riflessione al lettore curioso spero di averne già offerti.
1 G. Nebbia, Ecologia ed economia, in “Giornale degli economisti e annali di economia”, luglio-agosto 1973, cedam, Padova 1973, pp. 453-455.
2 Ibid., p. 453.
3 Ernst Haeckel, Generelle Morphologie der Organismen, Verlag von Georg Reimer, Berlin 1866. Il primo uso, per quanto mi consta, della parola “ecologia” si trova nel cap. XI del VI libro: “Unter Oecologie verstehen wir die gesamte Wissenschaft von der Beziehungen des Organismus zur umgebenden Aussenwelt”, vol. II, p. 286. Il concetto si ritrova, accompagnato dalla definizione di “economia della natura”, nell’opera Storia della creazione naturale, una raccolta di conferenze la cui prima edizione tedesca è del 1868, la settima è del 1879, l’ottava è del 1889. Sulla settima edizione tedesca, comprendente 24 conferenze, è stata fatta una traduzione francese, Histoire de la création des ètres organisés, Reinwald, Paris, 1884 (3a ediz. francese); “L’oecologie…, la science de l’ensemble des rapports des organismes avec le monde extérieur ambiant, avec les conditìons organiques et anorganiques de l’existence; ce qu’on a appelé l’economie de la nature” (24a conferenza: “Objections contre la vérité de la théorie genealogique et preuves de cette théorie”, p. 551). Una traduzione italiana comprendente 30 conferenze è stata fatta sulla ottava edizione tedesca e la frase sostanzialmente uguale si trova nella 30a conferenza (“Prove in favore della teoria della discendenza”, in Storia della creazione naturale, Utet. Torino, 1892, p. 457). Il rapporto fra ecologia e “economia” degli organismi e la spiegazione dei relativi fenomeni con la teoria dell’adattamento e dell’eredità sono ripresi nell’opera, sempre dello stesso Haeckel, Antropogenia, o storia dell’evoluzione umana, la cui prima edizione tedesca è del 1874, la quarta è del 1891 e su questa è stata fatta la traduzione italiana, pubblicata, col titolo sopra ricordato, da Utet, Torino, nel 1895 (cfr. quinta conferenza, La moderna filogenesi, p. 75). Ibidem.
4 G. Nebbia, Che fine ha fatto l’ecologia, in “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 19 gennaio 2016 e in “Altronovecento”, n. 29, 1 agosto 2016, https://altronovecento.fondazionemicheletti.eu/che-fine-ha-fatto-lecologia/.
5 I. Wallerstein, Alla scoperta del sistema mondo, Manifestolibri, Roma 2003, pp. 283-284.
6 Ibid., pag. 285.
7 G. Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il saggiatore, Milano 2014, pp. 123-141.
8 Ibid., pp. 44-45.
9 I. Wallerstein, op. cit., p. 183.
10 G. Arrighi, op. cit., pp. 133-134.
11 M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni, Firenze 1965.
12 E. Todd, La sconfitta dell’Occidente, Fazi Editore, Roma 2024, pp. 150-151. Todd è uno studioso che si è guadagnato autorevolezza internazionale anticipando di oltre un decennio la caduta dell’urss: in La chute finale: Essai sur la decomposition de la sphere soviétique, Éditions Robert Laffont, Paris 1976, analizzò la mortalità infantile, i tassi di suicidio, la produttività economica e altri indicatori, e concluse che la lunga stagnazione dell’urss sarebbe presto culminata nel collasso.
13 P. Repetto, Humboldt controcorrente, “I quaderni di Altronovecento”, n. 9. Fondazione Luigi Micheletti, Brescia 2018, https://altronovecento.fondazionemicheletti.eu/i-quaderni/#
14 Multatuli, Max Havelaard, Utet, Torino 1965.
15 B. Davidson, Storia dell’Africa, Nuova Eri, Torino 1990, p. 198.
16 Rhodes è stato un imperialista, uomo d’affari e politico, ma anche filantropo, che ha svolto un ruolo dominante nell’Africa meridionale alla fine del XIX secolo, guidando l’annessione di vaste aree. Ha fondato l’azienda di diamanti De Beers, che fino a poco tempo fa controllava il commercio globale. Le borse di studio che permettono agli studenti stranieri di frequentare l’Università di Oxford portano ancora il suo nome. Queste borse consentono a 83 studenti provenienti da Stati Uniti, Germania, Hong Kong, Bermuda, Zimbabwe e diversi Paesi del Commonwealth – tra cui alcune nazioni dell’Africa meridionale – di frequentare ogni anno l’Università di Oxford. L’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton è probabilmente il più noto di questi studiosi. Molte istituzioni, tra cui la stessa Università di Città del Capo, hanno beneficiato della sua generosità. Sia la Rhodesia Meridionale (oggi Zimbabwe) che la Rhodesia Settentrionale (oggi Zambia) hanno preso il suo nome. Cfr. J. Parkinson, Why is Cecil Rhodes such a controversial figure? in “BBC News Magazine”, London 1 April 2015, https://www.bbc.com/news/magazine-32131829.
17 Per hibris dell’Occidente, si intende la propensione arrogante dell’Occidente a dominare il mondo (imperialismo), in forza di una presunta superiorità razziale e culturale, e a sottomettere altri popoli ritenuti inferiori (colonialismo e neo-colonialismo) per alimentare un sistema economico basato sulla competizione e la libera concorrenza (capitalismo).
18 Cito solo due posizioni diametralmente opposte: R. G. Mazzolini, Darwin: schiavismo e razze umane, in “Scienza & Politica”, (2009), 40, pp. 51-66 e A. Pichot, La société pure. De Darwin à Hitler, Flammarion, Paris 2000.
19 C. Darwin, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, Newton Compton, Roma 1972, p. 55.
20 Ibid., p. 56.
21 Ibid., p.81.
22 Ibid., p. 92.
23 Ibid. pp. 193-194.
24 Ibid., p. 72.
25 Ibid., p. 154.
26 Ibid., p. 161.
27 Ibid., pp. 596-597.
28 Ibid., pp. 159-160.
29 Ibid., pp. 161.
30 Ibid., pp. 166-168.
31 Ibid., p. 136.
32 Ibid., p. 143.
33 Ibid., p. 148.
34 A. Pichot, op. cit., p. 93.
35 A. Pichot, op. cit., p. 143-144.
36 P. Kropotkin, Scienza e anarchia, Elèuthera, Milano 1998, p. 127.
37 A. Pichot, La société pure. De Darwin à Hitler, Flammarion, Paris 2000, p. 79.
38 B. Müller Hill, I filosofi e l’essere vivente, Garzanti, Milano 1984, p. 119.
39 L. Gumplowicz, La lotta delle razze: ricerche sociologiche, AGA, Milano 2021.
40 Citazioni da L. Gumplowicz, La lotta delle razze, in A. Pichot, op. cit., pp. 362-363.
41 Ibid., p. 366.
42 Ibid., p. 375.
43 Questo anche il titolo dell’avvincente romanzo storico, frutto di decenni di ricerche, della complessa biografia di Ploetz: U. Timn, Un mondo migliore, Sellerio, Palermo 2019.
44 F. Cuomo, I dieci. Chi erano gli scienziati italiani che firmarono il Manifesto della razza, Baldini e Castoldi – Dalai, Milano 2005.
45 Va tenuto presente che la diffusione dell’eugenetica in Italia fu precedente al fascismo e risaliva agli inizi del secolo. Cfr. Massimo Ciceri, Origini controllate. La prima eugenetica italiana. 1900-1924, Prospettiva editrice, Civitavecchia-Roma 2009. In questo ambito va anche segnalata l’attività dell’Istituto di Igiene, previdenza ed assistenza sociale, fondato a Roma nel 1922 dal prof. Ettore Levi, che con la rivista “Difesa sociale” proponeva un diverso approccio ai problemi della salute umana attraverso un impegno sociale mirato ad affrontare i principali problemi di salute del tempo ed a cercare soluzioni concrete con l’istituzione di centri di cura, di assistenza e di formazione ed informazione sui principali concetti di igiene per madri, bambini, lavoratori. Ma anche questa iniziativa non si sottraeva a quel contesto culturale di “eugenetica razziale”, come si evince dall’articolo programmatico pubblicato sul primo numero: Ettore Levi, Per l’avvenire della razza. Valori umani e difesa sociale, “Difesa sociale”, a. I, n. 1, 1922, p. 7. Per l’eugenetica italiana si veda anche: C. Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Itala dalle origini ottocentesche agli anni Trenta, Rubettino, Soveria Mannelli 2004.
46 La distinzione tra stenico e astenico, aveva a che fare con l’assetto endocrino: il tipo longilineo, quando stenico era funzionalmente ipertiroideo ed iperpituitarico, diveniva astenico in presenza di iposurrenalismo, ipogonadismo e ipoparatiroidismo; il tipo brevilineo, quando stenico era caratterizzato da ipersurrenalismo ed ipergenitalità, quando astenico, invece, presentava ipotiroidismo ed ipopituitarismo.
47 R. Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, La Nuova Italia, Scandicci (Firenze) 1999, pp. 45-50.
48 L. Dotti, L’utopia eugenetica del welfare state svedese, 1934-1975: il programma socialdemocratico di sterilizzazione, aborto e castrazione, Rubettino, Soveria Mannelli (CZ) 2004; su questa tragica vicenda va anche segnalato lo straordinario film thriller, Paziente 64 – Il giallo dell’isola dimenticata del 2028, diretto da Christoffer Boe, tratto dall’omonimo romanzo, pubblicato anche in Italia, dello scrittore danese Jussi Adler-Olsen,
49 Cfr.: B. Müller-Hill, I filosofi e l’essere vivente, Garzanti, Milano 1984; A. Pichot, op. cit.; C. Mantovani, op. cit.; A. Rutherford, Controllo. Storia e attualità dell’eugenetica, Bollati Boringhieri, Torino 2023.
50 Ibid., p. 105.
51 http://www.minorplanetcenter.net/iau/ECS/MPCArchive/2000/MPC_20000523.pdf.
52 A. Lucifredi, Piccole storie di grandi naturalisti. Haeckel, l’arte e l’albero della vita, 1 agosto 2019, https://rivistanatura.com/ernst-haeckel-larte-e-lalbero-della-vita/.
53 L. Piccioni, Il volto amato della patria. Il primo movimento per la protezione della natura in Italia. 1880-1934, Temi, Trento 2014, pp. 45-47.
54 Citazione tratta da E. Haeckel, Gli enigmi dell’universo, inA. Pichot, op. cit., pp. 103-104.
55 A. Pichot, op. cit., pp. 327-331.
56 Citazione tratta da E. Haeckel, Origine dell’uomo, in A. Pichot, op. cit., pp. 233-234.
57 E. Haeckel, The History of Creation, vol. I, D. Appleton, New York 1876, p. 170.
58 D. Gasman, Haeckel’s Monism and the Birth of Fascist Ideology, Peter Lang, New York 1998.
59 K. J. Tarasoff, Dichiarazione di Jena: Il concetto di razza è il risultato del razzismo, non il suo prerequisito, 22 marzo 2020. https://serenoregis.org/2020/03/26/dichiarazione-di-jena-il-concetto-di-razza-e-il-risultato-del-razzismo-non-il-suo-prerequisito-koozma-j-tarasoff/. Va aggiunto che nel mondo scientifico anglosassone, soprattutto nordamericano, il riferimento alle razze (caucasica, nera o afro-americana, asiatica, latina…) è ancora d’uso comune negli studi demografici, genetici, epidemiologici e sanitari, criminologici…, nonostante da più parti vi siano stati appelli come quest’ultimo degli zoologi di Jena.
60 J. C. Fest, Hitler, Rizzoli, Milano 1974; B. Hamann, Hitler. Gli anni dell’apprendistato, Corbaccio, Milano1998; I. Kershaw, Hitler 1889-1936, V. 1, Bompiani, Milano 1999, e Hitler 1936-1945, V. 2, Bompiani, Milano 2001.
61 J. von Uexküll, Ambienti animali e ambienti umani. Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili, Quodlibet, Macerata 2010.
62 V. Rasini (a cura di), Jakob von Uexküll. Teoria biologica, soggettività e ambiente, “Discipline filosofiche”, XXX, 1, Quodlibet 2023. https://www.disciplinefilosofiche.it/
63 Ibidem.
64 E. Fischer, Bekenntnis der Professoren an den deutschen Universitäten und Hochschulen zu Adolf Hitler und dem nationalsozialistischen Staat [Dichiarazione di fede a Hitler e allo Stato nazionalsocialista dei professori nelle Università e scuole superiori tedesche. Nda], Dresden 11 november 1933, pp. 9-10.
65 J.v. Uexküll, Staatsbiologie. Anatomie – Physiologie – Pathologie des Staates, Hanseatische Verlagsanstalt, Hamburg 1933.
66 B. Müller-Hill, Scienza di morte. L’eliminazione degli Ebrei, degli Zingari e dei malati di mente. 1933-1945, Ets editrice, Pisa 1989, pp. 34-35
67 “Vitalista tra i vitalisti, feroce idealista, kantiano – in realtà un nemico della scienza naturale. Ma, con quella doppia vita che spesso hanno i naturalisti di impostazione idealista, in fisiologia egli è anche il più preciso sperimentatore che si possa immaginare. Testardo fino a essere leggermente folle, geniale fino alla punta dei capelli”, questo era [Uexküll], nel giudizio dell’amico Konrad Lorenz, padre dell’etologia contemporanea”. Cfr. M. Adinolfi, Recensione di J. v. Uexküll, Biologia teoretica, in “Il Mattino”, 22 ottobre 2017.
68 C. Brentari, Konrad Lorenz e il nazionalsocialismo, in “Il Margine”, n. 9, 2005, p. 20.
69 Simon Wiesenthal (1908-2005), noto come “cacciatore di nazisti”, inviò a Lorenz una durissima lettera per invitarlo a restituire il Nobel: “Il premio Nobel non deve venire privato di valore dal fatto di essere conferito a Lei, che in passato ha sostenuto le tesi di una spietata dittatura”, Ibidem.
70 K. Lorenz, Durch Domestikation verursachte Störungen arteigenen Verhaltens [Disturbi del comportamento specifico causati dalla domesticità], in “Zeitschrift für angewandte Psychologie und Charakterkunde”, 59, 2, 1940, citato da B. Müller-Hill, op. cit., p. 69.
71 K. Lorenz e F. Kreuzer, Leben ist Lernen [Vivere è imparare], Piper Verlag Gmbh, Monaco 1981, citato da B. Müller-Hill, op. cit., p. 128.
72 K. Lorenz, Nochmals: Systematik und Entwicklungsgedanke im Unterricht [Ancora sulla sistematica e l’evoluzione nell’insegnamento], in “Der Biologe”, 9, 1-2, 1940, p. 24, citato da B. Müller-Hill, op. cit., p. 128.
73 C. Brentari, op. cit., pp. 24-26.
74 Madison Grant, https://en.wikipedia.org/wiki/Madison_Grant
75 Quest’opera è stata recentemente tradotta in italiano da una casa editrice di ispirazione neonazista, M. Grant, Il tramonto della grande razza, Thule Italia, Roma 2018.
76 La prima legislazione eugenista di sterilizzazione forzata degli “scarti” fu adottata dallo stato dell’Indiana nel 1907. Cfr. S. Khül, The nazi connection. Eugenics, American racism and German National Socialism, Oxford University Press, Oxford 1994.
77 M. Grant, op. cit., pp. 72-74.
78 Per la “primavera ecologica” si rinvia ai documenti pubblicati nei dossier della rivista “Altronovecento”, dedicati al 1970 e al 1972: M. Ruzzenenti (a cura di), Dossier 1970. Sboccia la “primavera ecologica”. Un passato che può essere prologo per un nuovo inizio, in “Altronovecento. Ambiente Tecnica Società”, n. 43, 1 dicembre 2020, https://altronovecento.fondazionemicheletti.eu/dossier-1970-sboccia-la-primavera-ecologica-un-passato-che-puo-essere-prologo-per-un-nuovo-inizio/; M. Ruzzenenti (a cura di) , 1972. L’anno lungo dell’ecologia, in “Altronovecento. Ambiente Tecnica Società”, n. 46, 20 dicembre 2022, https://altronovecento.fondazionemicheletti.eu/1972-lanno-lungo-dellecologia/; Dossier 1972, in “Altronovecento. Ambiente Tecnica Società”, n. 47, 1 luglio 2023, https://altronovecento.fondazionemicheletti.eu/editoriale-n47/.
79 Supportano questa accezione di “ecologia umana” le due fondamentali iniziative promosse in Italia e nel mondo durante la “primavera ecologica”: nel 1970, in occasione della proclamazione da parte del Consiglio d’Europa, 1970 anno europeo per la conservazione della natura e delle sue risorse, si tenne a Milano il 22 aprile un convegno internazionale, L’uomo e la natura, i cui atti vennero pubblicati in G. Nebbia (a cura di), L’uomo e l’ambiente. Una inchiesta internazionale, Tamburini, Milano 1971; nel 1972, dal 5 al 12 giugno, venne convocata dall’onu a Stoccolma la prima e fondamentale Conferenza sull’ambiente umano. Insomma questa nuova “ecologia umana” metteva al centro il rapporto tra uomo e natura, tra economia umana ed economia biologica, tra industria e ambiente depauperato dal prelievo di risorse e inquinato da rifiuti ed emissioni. L’ecologia così intesa ricomponeva il tanto discusso iato tra le due culture, scientifica e umanistica, comprendendo necessariamente sia le scienze dure (fisica, chimica, statistica, matematica, biologia, agronomia, tossicologia, medicina,), sia il vasto campo umanista (economia, sociologia, urbanistica, psicologia, antropologia, filosofia, politica, etica e, perché no, arte).
80 G. Nebbia, La crisi dei rapporti tra l’uomo e la biosfera, in“Le scelte del consumatore” anno VI, n. 1, gennaio 1970, Unione nazionale consumatori, Roma 1970, pp. 19-20, in “Altronovcento”, n. 43, 1 dicembre 2020, https://altronovecento.fondazionemicheletti.eu/dossier-1970-la-crisi-dei-rapporti-tra-luomo-e-la-biosfera/.
81 G. Nebbia, Breve storia della contestazione ecologica, in “Quaderni di storia ecologica”, n. 4 (1994), pp. 44-45.
82 B. Charbonneau, Il Giardino di Babilonia, Edizioni degli animali, Milano 2022, p. 49.
83 M. Ruzzenenti, Recensione di B. Charbonneau, op., cit., in “Altronovcento”, n. 47, 1 luglio 2023, https://altronovecento.fondazionemicheletti.eu/charbonneau-il-giardino-di-babilonia-edizioni-degli-animali-milano-2022/.
84 L’efficace definizione è di P.P. Poggio, Nazismo e revisionismo storico, Manifesto libri, Roma 1997, p. 64. Per quanto riguarda la difficoltà anche degli stessi nazisti a ridurre gli ebrei a razza “biologica” classificabile secondo la tassonomia del razzismo scientifico dell’epoca si veda M. Ruzzenenti, “Preghiamo anche per i perfidi giudei”. L’antisemitismo cattolico e la Shoah, DeriveApprodi, Roma 2018, pp. 58-61, 93, 157-158,164-166.
85 https://germanhistorydocs.org/en/nazi-germany-1933-1945/ghdi:document-5156.
86 https://germanhistorydocs.org/en/nazi-germany-1933-1945/law-for-the-protection-of-nature-1935
87 https://germanhistorydocs.org/en/nazi-germany-1933-1945/law-for-the-restoration-of-the-professional-civil-service-april-7-1933.pdf
88 https://germanhistorydocs.org/en/nazi-germany-1933-1945/law-for-the-prevention-of-offspring-with-hereditary-diseases-july-14-1933.pdf
89 A. Pichot, op. cit., pp. 390-391.
90 https://www.sinanet.isprambiente.it/gelso/files/legge-29giugno1939n1497.pdf.
91 M. Ruzzenenti, “Preghiamo… cit., p. 168.
92 A. Hitler, La mia vita, Bompiani, Milano 1939,p. 143.
93 Ibid. p. 144.
94 Ibid. p. 60.
95 In questo senso, pur essendo di piacevole lettura, appare scontata la tesi sostenuta nel testo collettaneo, M. Armiero, R. Basilio, W. G. von Hardenberg, La natura del Duce. Una storia ambientale del fascismo, Einaudi, Torino 2022: l’analisi della politica del fascismo nei confronti dell’ambiente naturale compiuta dal punto di vista dell’ecologia politica non poteva che concludersi in una solenne bocciatura, come lo sarebbe anche nel caso delle politiche coeve dell’impero britannico e dell’Occidente nel suo insieme.
96 L’ecologia profonda è una concezione panteistica eco-biocentrica, che riconosce a tutti i viventi pari diritti e che presuppone una riduzione drastica oltre che delle attività umane, che inevitabilmente stanno schiacciando gli spazi vitali per gli altri esseri, anche della popolazione del Pianeta. Il primo a parlarne in un articolo del 1973 fu il filosofo e alpinista norvegese Arne Dekke Eide Næss: A. Næss, Il movimento ecologico: ecologia superficiale ed ecologia profonda. Una sintesi, in M. Tallacchini (a cura di), Etiche della Terra. Antologia di filosofia ambientale, Vita e pensiero Editrice, Milano 1998, pp 143-149.
97 Unica voce dissonante fu quella dell’economista austriaco Friedrich August von Hayek, allora del tutto isolato fino a quando negli anni Settanta, terminati i trent’anni gloriosi con la prima crisi petrolifera, venne rivalutato come precursore del neoliberismo e insignito del Premio Nobel per l’economia nel 1974.
98 G. Gualerni, Industria e fascismo, Vita e Pensiero, Milano 1976, pp. 109-112.
99 Ibid., p. 116.
100 M. Crouzet, Storia del mondo contemporaneo, Sansoni, Firenze 1974, p. 204.
101 Ibid., pp. 123-125.
102 Ibid., p. 122.
103 ? J. M. Keynes, La fine del laissez faire e altri scritti, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 87-100. Si veda anche M. Ruzzenenti, L’autarchia verde. Un involontario laboratorio della green economy, Jaca Book, Milano 2011, pp. 12-14.
104 W. Streeck, Globalismo e democrazia. L’economia politica del tardo neoliberismo, Feltrinelli, Milano 2024, pp. 263-327.
105 V. Gayda, I “quattro anni” del terzo Reich (L’autarchia in Germania), Edizioni Roma, Roma 1938, pp. 13.
Per una valutazione critica della Germania nazista: E. Collotti, La Germania nazista: dalla Repubblica di Weimar al crollo del Reich hitleriano, Einaudi, Torino 1962; B. Mantelli, I fascismi europei 1919-1945, Loescher, Torino 2004.
106 V. Gayda, op. cit., pp. 27-28.
107 A. Bramwel, Ecologia e società nella Germania nazista. Walter Darré e il partito dei verdi di Hitler, Reverdito, Gardolo di Trento 1988, p. 88.
108 Ibid. p. 97.
109 Bisogna ricordare che in quegli anni nel mondo germanico, oltre al Darrè che propugnava l’agricoltura bio-dinamica, riscuotevano un certo seguito le idee dell’austriaco Rudolph Steiner, fondatore del movimento antroposofico e sostenitore di un ritorno alla terra sulla base di coltivazioni organiche. Cfr Anna Bramwel, op. cit., p. 256. È superfluo sottolineare come anche la stessa Fao indichi da tempo nell’agricoltura organica o biologica l’unica prospettiva per garantire durevolmente la sicurezza alimentare all’intera umanità. Cfr. Fao e Institut de recherche de l‘agriculture biologique (FiBL), Conversion à l‘agriculture biologique, 2006. ftp.fao.org/docrep/fao/009/ah619f/ah619f.pdf. Per una storia dell’agricoltura biologica si veda: A. Berton, La storia del biologico. Una grande avventura, Jaca Book-Fondazione Luigi Micheletti, Milano 2023.
110 Cfr. A. Bramwel, op. cit., p. 256.
111 D. Devis, La storia segreta della guerra al cancro, Codice edizioni, Torino 2008, p. 54.
112 J. Herf, Il modernismo reazionario. Tecnologia, cultura e politica nella Germania di Weimar e del Terzo Reich, Il Mulino, Bologna 1988.
113 Ulrich von Hassel, ambasciatore del Reich a Roma, avrebbe fatto parte del gruppo dei congiurati capeggiato da Claus Schenk von Stauffenberg che, il 20 luglio 1944, organizzò l’attentato ad Hitler.
114 V. Gayda, I “quattro anni” del terzo Reich (L’autarchia in Germania), Edizioni Roma, Roma 1938, pp. 13-15.
115 Ibid., p. 31.
116 Ibid., pp. 34-35.
117 Mentre il numero dei bovini sarebbe rimasto pressoché stabile (19,7 milioni nel 1933 e 19,9 milioni nel 1939) i suini passarono da 23,9 milioni di capi nel 1933 a 25,2 milioni nel 1939 e gli ovini, per lo stesso periodo, da 3,4 a 4,9 milioni. Tra i bovini vi è però un aumento relativo del numero delle vacche e quindi della produzione di latte, formaggi e burro. Cfr. C. Bettelheim, L’economia della Germania nazista, Mazzotta, Milano 1973, p. 224.
118 Per il grano, confrontando la media 1930-’34 con il 1939, si passò da 4 milioni e 650 mila tonnellate a 5 milioni e 584 mila tonnellate; per la segale da 7 milioni e 840 mila tonnellate a 9 milioni e 455 mila tonnellate; per l’orzo da 3 milioni e 391 mila tonnellate a 4 milioni e 262 mila tonnellate. Cfr. Charles Bettelheim, op. cit., pp. 222-223.
119 Ibid., p. 225.
120 G. Nebbia, La benzina sintetica, in “L’Unità”, 29 giugno 1989.
121 La percentuale degli addetti all’agricoltura, già inferiore alla metà di quella italiana (52,0% nel 1936), scese dal 20,8% del 1933 al 18,0% del 1939. Cfr. Charles Bettelheim, op. cit., p. 39.
122 Ibid., p. 223.
123 A. Bramwel, op. cit., p. 141.
124 Ibid., p. 188.
125 G. Nebbia, Prefazione, in M. Ruzzenenti, op. cit. pp. XI-XV.
https://altronovecento.fondazionemicheletti.eu/autarchia-il-passato-e-prologo/; https://altronovecento.fondazionemicheletti.eu/sullautarchia/.
126 ? S. Latouche, La lezione decrescente dell’autarchia italiana, in M. Ruzzenenti, G. Mancini, Ecologia e autarchia. 100 anni di genio italiano per la transizione ecologica, Libreria editrice fiorentina, Firenze 2023, Marchio di Qualità della Microeditoria 2023, pp. 7-15. https://www.decrescita.it/ecologia-e-autarchia/.
127 Su questa vicenda si veda: M. Ruzzenenti, Il passato glorioso della canapa italiana, in AA. VV., La filiera della canapa ed il Consiglio nazionale delle ricerche, Cnr dipartimento di scienze bio-agroalimentari, Roma 2016, pp. 183-193.
128 Su questa importante innovazione tecnologica si veda: M. Ruzzenenti, Le ricerche per la gomma sintetica nazionale, in P. Redondi (a cura di), La gomma artificiale. Giulio Natta e i laboratori Pirelli, Guerini e Associati, Milano 2013, pp. 29 -45.
129 Una situazione analoga la visse anche il Giappone: C. e J. Toland, L’eclissi del Sol Levante. 1936-1945, Milano, Mondadori 1971.
130 T. Snyder, Terra nera. L’Olocausto tra passato e presente, Rizzoli, Milano 2015, p. 399.
131 Ibid., pp. 395-422.