Alla fine del 1998 una tipografia inglese, Penwells, distrusse l’intera tiratura del giornale The Ecologist, uno tra i più radicali magazine dell’ecologismo anglosassone, autorevole e apprezzato anche nella comunità scientifica per la sua serietà. Appena stampate, 14 mila copie furono mandate al macero. Lo stampatore, che rompeva così un contratto venticinquennale con la rivista, spiegò che temeva le conseguenze legali di quel numero speciale, completamente dedicato a un dossier su Monsanto, astro ormai affermato delle biotecnologie. Più tardi risultò lo stampatore che aveva avuto contatti con la stessa Monsanto – aveva subito pressioni? La redazione ecologista ha avuto parecchie difficoltà a trovare un altro stampatore disposto a pubblicare la sua inchiesta – che però è infine circolata e anche tradotta in francese, italiano, spagnolo.
Sembra sproporzionato che una grande multinazionale si preoccupi delle critiche di un giornale ecologista? Forse, ma l’episodio di The Ecologist (www.theecologist.org) dice quanto spregiudicata sia la battaglia per il mercato delle biotecnologie: dove la posta in gioco è imporre e allargare un mercato nuovo, quello delle sementi «modificate geneticamente», e naturalmente controllarlo. Vale la pena di guardare la storia di Monsanto, una delle prime aziende della chimica a buttarsi in quelle che con un eufemismo sono definite «scienze della vita». Fondata nel 1901 a East St. Louis (Illinois, Usa) da un chimico autodidatta, John Francis Queeny, Monsanto produceva all’inizio saccarina. Nel ’29 acquista un’altra azienda, Swann Chemical Company, che aveva appena messo a punto una nuovo composto, i policlorobifenili (Pcb), apprezzati per l’inerzia chimica e la resistenza al calore (trovarono applicazione nell’industria elettrica, come liquidi refrigeranti nei trasformatori). Negli anni ’60 alla famiglia dei Pcb Monsanto si aggiungono lubrificanti, liquidi idraulici, rivestimenti stagni. Già dagli anni ’30 erano apparse prove della tossicità del composto chimico, provata poi tra gli anni ’60 e ’70: i Pcb e altri organoclorati aromatici sono altamente cancerogeni, responsabili di diversi disordini immunitari e della riproduzione. Si concentrano nei grassi, a cui sono affini chimicamente, e si «accumulano» nei tessuti invadendo la catena alimentare: così, malgrado la loro produzione sia vietata dal 1976 negli Usa, i suoi effetti tossici sono ancora visibili nel mondo intero. Del resto, alla fabbrica di Pcb a East St. Louis sono legati episodi terribili di inquinamento: nell’82 la vicina città di Times Beach fu evacuata, per ordine delle autorità federali, tanto era inquinata dalle diossine contenute nei fanghi scaricati da quella fabbrica…
Con le diossine, Monsanto aveva a che fare dagli anni ’40, quando ha cominciato a fabbricare l’erbicida conosciuto come 2,4,5-T: la sigla allude ai numeri di atomi di cloro del composto. E le diossine sono un sottoprodotto, creato bruciando composti a base di cloro. L’erbicida alla diossina risultò tanto efficace che durante la guerra in Vietnam l’esercito americano lo usò per defoliare le foreste tropicali in cui avevano rifugio i combattenti vietcong: il tristemente famoso «Agente Orange», chiamato così perché arrivava in bidoni distinti da una striscia arancione, è appunto un misto del 2,4,5-T Monsanto e del 2,4-D di altri fabbricanti (tra cui la concorrente Dow Chemicals). Il bombardamento delle foreste vietnamite con Agente Orange fu sospeso nel ’71, sotto le pressioni di scienziati e opinione pubblica americana, quando cominciavano ad essere noti gli effetti delle diossine sull’ambiente e la salute umana (la sua tossicità è ormai provata fuori di ogni dubbio: è cancerogena, provoca danni immunitari e alla riproduzione. I veterani americani della guerra in Vietnam furono risarciti per una serie di malattie riconosciute come legate alla diossina; i vietnamiti no, ma questo è un altro capitolo…).
Il vero grande affare di Monsanto è cominciato negli anni ’80 con il glifosato, sostanza di base di parecchi erbicidi e soprattutto quello in commercio con il nome di Roundup. E’ l’ottavo erbicida più usato negli Usa, funziona su ogni genere di pianta e ha generato per Monsanto una crescita di introiti regolare del 20 per cento annuo. Ovviamente l’azienda pretende che sia innocuo per gli umani, mentre sono noti e documentati i disordini provocati da intossicazione con glifosato (la dose letale è un po’ meno di 20 grammi); soprattutto è noto ormai che il glifosato resta attivo nei vegetali trattati. Eppure su questo pilastro la multinazionale di East St.Louis ha costruito un impero e ha cominciato il salto verso le biotecnologie.
Nel ’98 Roundup e gli altri erbicidi al glifosato rappresentavano un sesto delle vendite annuali di Monsanto e metà del suo risultato netto: anche perché nel ’97 l’azienda aveva separato le attività più tradizionali della chimica e fibre sintetiche raggruppandole sotto una società diversa, Solutia, per dedicarsi completamente alla sua nuova «visione», quella delle biotecnologie applicate alla produzione agricola, in cui aveva cominciato a investire a metà degli anni ’80. Non è un caso che il primo exploit di Monsanto in questo campo sia stato quello delle specie resistenti al glifosato: così si può trattare le coltivazioni con dosi generose di erbicida senza rischiare di uccidere anche la specie utile – e con il vantaggio, per Monsanto, di mettere sul mercato il «pacchetto» di sementi più erbicida (il brevetto sul Roundup scade nel 2000, ma così il mercato resta assicurato). Soia, mais e colza «roundup ready» sono coltivati negli Stati uniti dal ’96-’96. Il cotone «Rr» è arrivato più tardi, nel ’97, ma si è rivelato un disastro.
Sorvoliamo sulla faccenda del cotone Bt – pianta modificata in modo da produrre una tossina, quella del Bacillus Thurigensis, molto apprezzata dall’agricoltura biologica: Monsanto nega che introdurre la tossina su enormi estensioni coltivate possa creare nuovi ceppi di insetti resistenti al Bt – ormai parecchi studi hanno invece dimostrato che la resistenza si sta creando, e così uno strumento naturale di lotta ai parassiti sarà vanificato. L’altro exploit tecnologico di Monsanto è quello che l’azienda ha acquisito nel ’98 quando ha acquistato una relativamente piccola azienda di ricerca biotech, Delta & Pine Land, che appena due mesi prima aveva ottenuto un brevetto (congiunto con il ministero dell’agricoltura degli Usa, Usda) per una tecnica chiamata «Sistema di protezione della tecnologia». Si tratta di una modifica genetica tale da rendere sterile la pianta alla seconda generazione: è meglio nota come Terminator. Lo scopo del brevetto è evidente: poter vendere le proprie sementi transgeniche nei mercati dell’Asia, Africa, America latina «in tutta sicurezza economica», per usare le parole del comunicato con cui Delta & Pine annunciava la sua scoperta. I contadini, che per secoli hanno conservato il meglio del proprio raccolto per seminarlo alla stagione successiva, non avranno nulla da conservare: quei semi saranno sterili e loro dovranno ricomprarli da Monsanto a ogni semina. Per l’agricoltura mondiale è un’invenzione paragonabile alla bomba H. Non esagera chi definisce la tecnologia Terminator una minaccia alla sicurezza alimentare mondiale… E’ vero, lo scorso ottobre Monsanto ha solennemente annunciato di abbandonare la ricerca sui «semi suicidi», ed è stata prontamente seguita da altre aziende detentrici di brevetti analoghi. Eppure risulta che da allora nuovi brevetti per nuove versioni di Terminator sono state rilasciate dall’ufficio brevetti degli Stati uniti: almeno 7, secondo le informazioni raccolte da Rafi (www.rafi.org), organizzazione canadese per la protezione dell’agricoltura. Perché brevettare invenzioni se non per trarne prima o poi un profitto?
In marzo una sessione del «Tribunale permanente dei popoli» ha giudicato Monsanto colpevole di «aver sviluppato tecnologie che possono causare danni irreversibili e aver deliberatamente e illegalmente rilasciato queste tecnologie senza riguardo all’impatto sulla salute, l’ambiente e il tenore di vita» di intere popolazioni; di aver diffuso notizie tendenziose, incluso false pubblicità, circa le sue tecnologie; di aver «tentato di sovvertire gli enti regolatori e le istituzioni pubbliche incaricate di proteggere la sicurezza dei cittadini». Il Tribunale, riunito all’Università di Warwick, aveva esaminato in particolare il caso dell’Andhra Pradesh (India), dove il cotone Bt è stato rifilato ai contadini a loro insaputa, prima di ogni test e ricerca sull’impatto ambientale a lungo termine. Ma il profitto giustifica tutto. Del resto, il famoso dossier del The Ecologist ricostruisce come tra la multinazionale e all’amministrazione Usa ci siano dei «vasi comunicanti» – si pensi che Mickey Kantor, architetto della prima campagna elettorale clintoniana nel ’92 e poi rappresentante Usa ai negoziati mondiali sul commercio, è passato in seguito al consiglio d’amministrazione di Monsanto. O che Marcia Hale, già assistente personale di Clinton, è andata a lavorare come responsabile delle relazioni pubbliche di Monsanto in Gran Bretagna.
Beninteso, questa è la faccia che Monsanto non mostra al pubblico. Al contrario: l’evoluzione di Monsanto verso la biotecnologia è stata condita con le visioni profetiche del suo presidente del consiglio d’amministrazione, Bob Shapiro – e da tonnellate di pubblicità della più subdola per dire che Monsanto salverà il mondo dalla fame e l’ambiente dall’eccesso di pesticidi… La doccia fredda, per il signor Shapiro, è arrivata però negli ultimi mesi. Sarà «l’aria del tempo»: il titolo azionario di Monsanto è sceso dal suo record di 50 dollari in febbraio ’99 a un record di ribasso di 35 dollari nel gennaio 2000. È in buona compagnia, poiché tutta l’industria biotech è in ribasso. Ma dopo aver investito oltre 8 miliardi di dollari dal 1996 per acquistare aziende produttrici di sementi transgeniche e diventare la leader del settore, il colpo è duro. Per salvare il salvabile, alla fine del ’99 Monsanto si è fusa con Pharmacia Upjohn – la nuova azienda ha deciso subito di raggruppare le attività agricole di Monsanto sotto un marchio separato. La «Microsoft della microbiologia» ora lotta per sopravvivere.