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Marie Curie (1867-1934)

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Quando si sente parlare in Italia, della ricerca scientifica, si ascoltano spesso le lamentele per la scarsità di “risorse” (il nuovo eufemistico termine per indicare i soldi) per cui gli studiosi possono, troppo poco, andare qua e là per il mondo, da un congresso all’altro, da un soggiorno all’estero all’altro.

Io sono un sopravvissuto di un mondo, l’università dopo la Liberazione, in cui davvero si doveva viaggiare in terza classe da una città all’altra per andare a leggere quella rara collezione di riviste arrivata fortunosamente dall’America e in cui spesso ci si doveva pagare il viaggio con i magri stipendi. Non rimpiango quei tempi e forse l’austerità non è una virtù, anche se qualche volta proprio l’austerità ha stimolato il progresso scientifico. Mi viene in mente leggendo un bel libro di Susan Quinn, “Marie Curie, una vita”, 550 pagine, pubblicato nel 1998 dall’editore Bollati Boringhieri di Torino; un’uscita non solo opportuna, ma che cadeva, tempestivamente, nel centenario della scoperta e della descrizione del radio.

Immaginate un capannone col tetto dalla copertura sconnessa che lascia passare la pioggia, e immaginate un mucchio di terra scura per terra, e immaginate un bancone e una giovane donna, laureata in fisica e in matematica, che, al caldo e al freddo, passa le sue giornate a trattare quella terra scura a venti chili per volta, con acidi, e a filtrare e a ridisciogliere i residui con altri acidi ancora. E immaginate suo marito, un giovane professore di fisica che, accanto a lei, controlla ogni frazione di materiale separato con un apparecchio (di sua invenzione) che misura la presenza dei “raggi” che provocano una scarica elettrica fra due elettrodi. Raggi simili a quelli emessi dall’uranio e dal torio.

Siamo a Parigi, un secolo fa. La giovane fisica, di origine polacca (si chiamava Marie Sklodowska, sposata Curie ed era nata nel 1867), aveva osservato che un minerale di uranio, la pechblenda, emanava i misteriosi ”raggi dell’uranio” in quantità molto maggiore di quanto potesse essere giustificato dal suo contenuto di uranio: era come se nel minerale fosse presente un altro elemento molto più attivo dell’uranio stesso.

Maria e il marito Pierre Curie, dopo un gran numero di separazioni, nel giugno del 1898 poterono riferire di aver identificato un nuovo elemento chimico molto attivo, con proprietà chimiche simili a quelle del bismuto. “Suggeriamo”, scrissero nella loro pubblicazione, “che il nuovo elemento sia chiamato ‘polonio’ dal nome del paese di origine di uno di noi”.

Dopo altri sei mesi di lavoro poterono descrivere l’esistenza di un altro elemento ancora, che emanava i raggi dell’uranio con una intensità un milione di volte superiore a quella dell’uranio, con comportamento chimico simile a quello del bario, e chiamarono la nuova sostanza “radio” e il fenomeno “radioattività”. La scoperta fu resa nota con una relazione presentata il 26 dicembre 1898, all’Accademia delle Scienze di Parigi. Si badi alle date: l’Accademia si riunì il giorno dopo Natale!

Per accertare la natura delle nuove sostanze i Curie riuscirono a farsi regalare, e in parte comprarono di tasca propria, alcune tonnellate di scorie residue delle miniere di pechblenda di Joachimsthal in Boemia (oggi Jachymov, nella Repubblica Ceca). Finalmente nel 1903 Marie Curie riuscì ad isolare cento milligrammi di cloruro di radio puro, e tale ricerca fu l’argomento della sua tesi di laurea in chimica.

Ben presto fu scoperto che il radio era prezioso per la cura dei tumori; una troppo lunga esposizione, però, provocava ferite e tumori. “Il raggio che uccide e risana” – era il titolo di un romanzo popolare del tempo – destò un’enorme impressione nell’opinione pubblica, in tutto il mondo.

I Curie si rifiutarono di brevettare il procedimento di preparazione del radio che fu ben presto fabbricato su scala commerciale. Il governo austriaco, di cui allora Joachimsthal faceva parte, vietò le esportazioni della pechblenda che si trovava nel suo territorio e si mise a estrarre il radio sul posto; quasi contemporaneamente il radio fu prodotto in Francia, negli Stati Uniti, in Svezia. Ma, al di là delle applicazioni pratiche, le scoperte dei coniugi Curie aprirono le porte alla comprensione della natura dell’atomo e del suo nucleo, alla radioattività artificiale, alla fissione e alla fusione nucleare, insomma al mondo moderno.

Altrettanto romanzesca quanto la storia del radio è la vita entusiasmante e drammatica di Marie Curie. In pochi anni diventò nota in Francia e in tutto il mondo ma, nonostante la celebrità, i Curie non solo non diventarono ricchi, ma dovettero fare i conti con ristrettezze economiche alleviate solo in parte dall’assegnazione, nel 1903, del premio Nobel per la fisica. Nello stesso anno 1903 Pierre Curie fu proposto per la Legion d’Onore, la massima onoreficenza francese, ma replicò che gli occorrevano non medaglie, ma piuttosto un laboratorio in cui continuare le sue ricerche, migliore di quello, esposto al vento e alla pioggia, in cui stava lavorando con sua moglie.

Pierre Curie morì a Parigi, investito da un carro a cavalli, nel 1906 e Marie rimase vedova a 38 anni con due bambine, Irene (che avrebbe ottenuto il premio Nobel per la fisica nel 1935 col marito Frederic Joliot per la scoperta della radioattività artificiale) e Eva, a cui si deve una bella biografia della madre, pubblicata nel 1937 e tradotta allora anche in italiano.

Nonostante l’impegno familiare e l’insegnamento, Marie Curie continuò le ricerche sulla separazione, purificazione e le proprietà del radio, che le valsero nel 1911 un secondo premio Nobel, questa volta per la chimica. Il successo, quale mai una donna, e una straniera per di più, aveva raggiunto, destò, come spesso capita, gelosie e invidie e la Curie fu al centro di una campagna denigratoria: dapprima fu accusata di essere ebrea, proprio negli anni in cui la Francia era travolta da una ondata di antisemitismo, culminata nel caso Dreyfus, poi di essere l’amante del collega Langevin, un fisico anche lui. Queste accuse le preclusero l’elezione, che sarebbe stata ben meritata, all’Accademia di Francia.

Eppure Marie Curie rimase fedele al suo impegno di studiosa, di madre e al suo altruismo: durante la prima guerra mondiale (1914-1919) organizzò delle unità mobili dotate di apparecchi per raggi X che permettevano, nelle vicinanze del fronte, di identificare rapidamente e con sicurezza le ferite dei soldati. Marie stessa, con la figlia Irene diciottenne, guidava uno dei laboratori mobili.

Nel 1918, alla fine della guerra, Marie Curie potè finalmente entrare nel nuovo Istituto del radio di Parigi, tanto desiderato e che porta ancora oggi il suo nome, dove aveva a disposizione laboratori adeguati, anche se l’Istituto era dotato soltanto di una piccolissima quantità, un solo grammo, del radio necessario per le sue ricerche, quando la produzione mondiale del prezioso e costoso elemento, da lei scoperto, ammontava ormai a vari chilogrammi.

Una giornalista americana organizzò allora, nel 1926, un viaggio che portò Marie Curie, già malata, in numerose città e università americane dove tenne faticosamente varie conferenze e fu accolta entusiasticamente come “la donna del radio”. Come premio per tanta fatica riuscì a raccogliere i fondi per acquistare due grammi di radio per il suo Istituto.

Nel libro della Quinn il lavoro scientifico dei coniugi Curie e di Marie resta quasi in secondo piano, rispetto alla storia umana di questa straordinaria donna che ha rivoluzionato il mondo lavorando in condizioni difficili, con pochi soldi, fra l’ostilità dei colleghi, mossa solo da una straordinaria fede nella necessità di far progredire la conoscenza, dovendo far fronte anche ai doveri familiari. Nell’ottobre 1898, nel diario della Curie, si trovano osservazioni sui primi gridolini della figlia Irene; sono poi indicati due pagamenti, uno per un taglio di stoffa per le camicie del marito e uno per una fornitura, dalla Boemia, di pechblenda, il minerale da cui, nelle settimane successive i Curie avrebbero tratto la conferma dell’esistenza del nuovo elemento, il radio.

Capite? tutto quello che noi siamo oggi, nel bene e nel male, tutta la comprensione della natura e della vita, lo dobbiamo ad una donna che tirava fuori dal proprio borsellino i soldi per pagare i materiali per i suoi esperimenti scientifici.

Tutto il libro racconta una grande storia umana, fatta di gloria – Marie Curie ebbe due premi Nobel – ma anche di invidie, stupidità e gelosie; la Curie aveva una salute cagionevole, ma nelle pagine del libro della Quinn la troviamo anche che sorride guardando le figlie e la natura in cui passava le brevi vacanze. La troviamo che guida di persona, con al fianco la figlia Irene, sul fronte francese, le unità mobili dotate di apparecchi per raggi X, quei “Petit Curie” che salvarono numerose vite umane.

Marie Curie, che aveva descritto gli effetti curativi che il radio aveva sul cancro, pagò di persona gli effetti dannosi delle sostanze radioattive con cui era stata, senza alcuna precauzione, tanto a lungo in contatto. Marie Curie morì, infatti, nel 1934 di anemia perniciosa, conseguente la prolungata esposizione alla radioattività. Per iniziativa del presidente francese Mitterrand, nel 1995 le sue ceneri, insieme a quelle del marito Pierre, furono portate nel Pantheon, il tempio della gloria della Francia. Credo che ogni fisico, ogni chimico, ogni studioso, ogni donna, direi, dovrebbero essere orgogliosi di avere qualcosa in comune con una persona come Marie Curie. Vorrei che la sua passione e la sua storia umana, più che la speranza di cattedre, stipendi, onori e interviste televisive, spingessero un numero crescente di giovani studiosi ad esplorare il mondo della natura con lo stesso disinteresse, premessa essenziale per le scoperte capaci di alleviare il dolore dell’umanità.

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