Povero olio di oliva: il migliore fra gli oli alimentari commerciali, più costoso, anche, e per questo più esposto a frodi. L’anno scorso negli Stati Uniti è stato denunciato che una parte dell’olio dichiarato “extravergine” di oliva, commercializzato in quel paese, è olio di qualità scadente. Trattandosi di una merce pregiata, prodotta in quantità limitata, con grandi precauzioni e con costi elevati, è giusto che il prezzo dell’olio extravergine sia maggiore di quello di altri oli e delle qualità inferiori dello stesso olio di oliva. Ed è comprensibile, anche se sgradevole, che commercianti disonesti cerchino di trarre maggiori profitti vendendo con il nome di “extravergine” dell’olio prodotto con minori costi e di qualità inferiore.
C’è una lunga storia delle frodi dell’olio di oliva, da quando veniva, un po’ ingenuamente, miscelato con olio di semi, a quando è stato miscelato con olio di semi di te (anni cinquanta), a quando è stato miscelato con olio di mandorle o nocciole (in tempi più recenti), a quando è stato miscelato con oli di oliva più scadenti di importazione. In tutti questi anni gli studiosi di merceologia e di chimica analitica si sono sforzati, con alterni successi, di trovare sempre più raffinati metodi di caratterizzazione del vero olio extravergine.
L’olio di oliva, come tutti i prodotti agricoli alimentari che arrivano sulla nostra tavola nelle colorate e fantasiose bottiglie, scatolette e confezioni, è il risultato di una lunga storia naturale ed ecologica. I prodotti agricoli e zootecnici, di produzione nazionale o di importazione, non arrivano mai direttamente nelle nostre case ma passano attraverso numerose operazioni, veri e propri cicli produttivi, che li trasformano negli articoli commerciali che conosciamo e che troviamo nei negozi. In ciascuna delle operazioni nei campi, nelle stalle, nelle fabbriche, nella stessa grande distribuzione, vengono usati acqua ed energia e vengono prodotti residui solidi, liquidi e gassosi che finiscono nell’ambiente. Senza contare che ciascuna delle operazioni che portano il cibo nelle nostre case ha un “contenuto” di lavoro, di fatica umana, di innovazione, di esperienza di milioni di persone, di cui troppo poco si parla.
La storia naturale dei vari alimenti ha effetti ambientali meno vistosi, ma talvolta altrettanto importanti e nocivi quanto quelli di altre attività produttive. Dal momento che si è cominciato col parlare dell’olio di oliva ricordiamo che questo importante prodotto dell’economia italiana e pugliese (la Puglia è uno dei principali produttori di olio di oliva) è uno dei pochi oli e grassi ricavati da un frutto e non dai semi. La natura “fabbrica” nelle piante e negli animali, i grassi non perché finiscano nelle bottiglie o nei panetti, ma per assicurare alle piante e agli animali una fonte di energia necessaria per la loro crescita. Proprio per il loro contenuto energetico, circa il doppio, a parità di peso, di quello dell’amido o degli zuccheri, gli oli e i grassi sono stati usati come alimenti dall’uomo fin dai tempi più antichi.
In particolare l’olio di oliva è ricordato molte volte nei testi religiosi ebraici, cristiani, musulmani. La storia naturale dell’olio comincia quando le olive hanno raggiunto un punto di maturazione che corrisponde alla quasi totale sintesi degli acidi grassi con la glicerina, in modo da avere la minima quantità di acidi, principalmente acido oleico, liberi; anzi le varie qualità merceologiche dell’olio sono caratterizzate proprio dalla loro acidità libera. Dopo la raccolta le olive vengono sottoposte, con aggiunta di piccole quantità di acqua, a frangitura e successiva spremitura o centrifugazione con il minimo riscaldamento possibile: da 100 chili di olive si ottengono, nell’insieme, circa 18-20 chili di olio di pressione, circa 50-100 chili di “acque” dette “di vegetazione”, contenenti zuccheri, sali e molte altre sostanze organiche, fra cui tracce di olio, e circa 50 chili di una pasta vegetale (sansa) umida contenente ancora circa 2 chili di olio di oliva che può essere recuperato con solventi.
I precedenti numeri sono molto approssimativi a causa della grande variabilità della materia prima e dei processi seguiti in migliaia di oleifici. Altri trattamenti trasformano l’olio così estratto nelle qualità che troviamo in commercio e che usiamo in casa. Dal punto di vista ambientale il principale problema è costituito dallo smaltimento delle acque di vegetazione; un metro cubo di queste acque ha un potere inquinante uguale a quello delle acque di rifiuto prodotte da centomila persone in un giorno. E possibile spargerle sul terreno, in quantità limitata, è possibile ricavarne alcuni componenti pregiati, è possibile depurarle e anzi recuperare acqua da irrigazione.
Ma l’olio di oliva ha, per gli abitanti del bacino del Mediterraneo, significati più profondi di quello di semplice merce in bottiglia. E’ l’olio dei riti religiosi ebraici e cristiani; con rami di ulivo è stato salutato il ritorno di Gesù a Gerusalemme, prima che venisse ucciso. Quando, settant’anni fa, arrivai per la prima volta in Puglia, dove avrei vissuto e insegnato per tanti decenni, proprio nel Salento mi hanno fatto vedere i tronchi contorti e bellissimi dei secolari ulivi, raccontandomi la leggenda che fossero così per la sofferenza del nume tutelare, il genius loci, che ogni ulivo portava dentro di sé. Il ricordo è disturbato dallo stridio delle motoseghe che stanno tagliando tanti ulivi proprio nel Salento per evitare, dicono, la diffusione di un parassita, Xylella, che fa appassire le piante. Chi sa che cosa pensa la divinità pagana ora cacciata via del tronco del suo ulivo, ridotto ad un fittone che emerge sconsolato dal suolo nel terreno dopo aver visto imbrunire a morte le foglie dal loro verde originale, appassire i preziosi frutti.
Sono state e vengono scritte innumerevoli pagine sulla epidemia che ha colpito gli ulivi del Salento e che minaccia di estendersi; chi è questo batterio Xylella, da dove viene, come è possibile fermarne la propagazione, come risarcire gli agricoltori, che cosa fare nelle terre abbandonate. Soprattutto è ora di interrogarsi su questa nuova manifestazione della fragilità dell’agricoltura: di quella pugliese, oggi, ma più in generale italiana, e, in tante diverse forme, dell’agricoltura mondiale.