Una versione leggermente modificata del presente articolo è apparsa in “Le parole e le cose 2” – rubrica “Ecologie della trasformazione”
Politica, ontologie, ecologia: perché unire assieme queste tre parole, ciascuna delle quali provvista di una lunga storia? O anche: perché mettere “ontologie” in mezzo a politica e ecologia? Si tratta di un’inutile complicazione, che tira in ballo (tra l’altro al plurale) un concetto tra i più sdrucciolevoli della filosofia, o di un passo necessario? Nel prosieguo provo a motivare la seconda opzione.
“Ecologia politica” è un’etichetta che identifica un filone di studi piuttosto variegato dal punto di vista disciplinare (antropologia, sociologia, storia, geografia, economia, filosofia, ma anche scienze agrarie e forestali ecc.) ma ben riconoscibile nel suo incentrarsi sulla “relazione tra fattori politici, economici e sociali e le questioni e i mutamenti ambientali” (così recita la definizione che troviamo su Wikipedia), contestando gli approcci apolitici a tali questioni e mutamenti. Secondo Paul Robbins, autore di un libro di testo di un certo successo sull’argomento, si tratta di “un filone di ricerca critica basato sull’assunto che ogni strappo nella trama della rete globale di connessioni tra esseri umani e ambiente si riverbera sul sistema nel suo complesso”, e sull’impegno a “interrogare la relazione tra economia, politica e natura” (Robbins 2012, p. 13).
La matrice dell’ecologia politica è fondamentalmente marxista. L’interrogazione quindi riguarda non la storia umana in generale ma i processi di accumulazione capitalista, in quanto basati sul contemporaneo sfruttamento del lavoro umano e non-umano; sfruttamento che è andato depauperando e distruggendo l’uno e l’altra. L’idea portante dell’ecologia politica è così che non vi possa essere transizione ecologica senza trasformazione sociale, o viceversa. Proprio le ascendenze marxiane lasciano tuttavia in una certa ambiguità l’esatto carattere del nesso. Natura “corpo inorganico dell’uomo”, dice Marx, ma come per quest’ultimo anche per l’ecologia politica ciò che rimane (per lo più) indiscusso è che il lavoro umano sia un unicum sul pianeta, per la sua capacità di trasformare intenzionalmente il mondo conferendogli un valore che tra l’altro può avere senso solo per gli umani medesimi. In altre parole, ciò che non viene messo (quasi mai) in discussione è il naturalismo occidentale: l’ontologia dualista secondo la quale da una parte sta la materia inerte e dall’altra la mente umana, capace di fare luce sui meccanismi della prima e di trarne vantaggio attraverso la traduzione tecnica delle conoscenze. Scienza e tecnica mantengono il loro mandato moderno di dominio progressivo (nel senso cronologico e normativo del termine) sul mondo; dominio da cui vengono fatte dipendere le possibilità di emancipazione sociale, nella misura in cui queste si legano al superamento della scarsità indotta dai rapporti capitalistici. L’oltrepassamento del capitalismo, dicono gli “accelerazionisti” (Srnicek e Williams 2015) riprendendo un tema classico, avviene passandoci attraverso, beneficiando quindi delle innovazioni tecniche che esso ha reso possibili. In questo modo si omette di chiedersi se i rapporti di produzione possano cambiare continuando a usare e anzi potenziando i medesimi mezzi di produzione. Viene trascurata in tal senso la lezione della Teoria Critica, e di Adorno in particolare, secondo cui sociale e naturale non sono due sfere separate: non è possibile (con buona pace di Habermas) applicare la ragione strumentale al secondo ambito senza che essa prevalga anche nel primo, e l’idea di una natura plasmata dall’uomo a proprio piacimento è intrisa del pensiero dell’identità, ossia una mimesi distorta che cerca di appropriarsi dell’alterità negandola, da cui non possono discendere che guai.
Più nel concreto, diviene impossibile interrogare importanti, e apparentemente contraddittori, fenomeni in corso. Pensiamo ad esempio alla narrativa dell’Antropocene come fine della, o “liberazione” dalla, natura (Arias-Maldonado 2013). Questo racconto, cui è arriso un rapido e sospetto successo accademico ed extra-accademico, consente di parlare di “disaccoppiamento” tecnologico dalle basi naturali del sostentamento (Breakthrough Institute 2015), sottacendo che più tecnologia significa più, e non meno, intreccio tra azione umana e risposta della materia (Pellizzoni 2019). Consente anche di asserire che la natura ormai “siamo noi” (Crutzen e Schwägerl 2011), ma allo stesso tempo ci sono confini oggettivi entro cui i processi sistemici planetari assicurano uno “spazio operativo sicuro per l’umanità” (Rockström et al. 2009); confini la cui esatta identificazione è tuttavia rinviata (vedremo che si tratta di una mossa caratteristica della nuova razionalità di governo). Pensiamo poi a questioni di importanza tutt’altro che trascurabile nel ridisegnare, perpetuandoli, i rapporti di produzione e di dominio capitalisti, come i “servizi ecosistemici”, le “compensazioni della biodiversità” (biodiversity offsetting), o la geoigegneria. I primi sono definiti come i “benefici che i sistemi biofisici forniscono agli esseri umani, dalla fornitura di risorse a funzioni regolative e di supporto, come la cattura del carbonio, la decomposizione dei rifiuti, la formazione del suolo o l’impollinazione” (Millennium Ecosystem Assessment 2005). Lavoro gratuito della natura, in altre parole. I secondi riproducono la logica delle compensazioni per le emissioni di gas serra, assumendo che la distruzione che avviene in un luogo, per esempio l’abbattimento di una foresta, sia compensabile impiantandone un’altra in un altro posto (Battistoni 2017). Quanto alla geoingegneria, gli approcci al cambiamento climatico definiti di “gestione della radiazione solare” (solar radiation management: SRM) partono dall’assunto che, nell’impossibilità (leggi: mancanza di volontà politica) di ridurre le emissioni di gas serra nella misura necessaria a produrre effetti significativi, una risposta veloce e relativamente economica sta nel riflettere l’irraggiamento solare per mezzo di specchi giganti, oppure spruzzando in atmosfera solfati o acqua marina, o mediante tecnologie similari (Keith 2013).
E’ chiaro che in tutto questo è in gioco la tradizionale strategia del capitale, di scomporre la realtà in unità astrattamente equivalenti, suscettibili di dislocazione e riassemblaggio in base alle esigenze di appropriazione e creazione di valore; strategia che Jason Moore (2015) ha mostrato essere cruciale per il capitalismo sin dai suoi albori. I benefici “spontanei” dei sistemi biofisici si intendono infatti liberamente smontabili e portabili, a prescindere dalle interdipendenze note e ignote degli ecosistemi originari. Ma è anche chiaro che qui il gioco ontologico si fa più complesso e sottile, attraverso negazioni del dualismo naturalista e sue riaffermazioni secondo una modalità nuova, per la quale il “naturale” appare una sorta di differenziazione interna del sociale, del tecnico, o del capitale stesso: quasi come un momento di respiro o hegeliana contraddizione necessario per compiere un ulteriore salto in avanti (Pellizzoni 2019). Per i sostenitori del “disaccoppiamento” tra natura e tecnica, la prima diviene l’oggetto di una libera (e sempre revocabile) scelta di non intervenire su specifiche porzioni o elementi del pianeta. Per i fautori dei servizi ecosistemici questi sono da considerare contemporaneamente “naturali” e “tecnici”, in quanto immediatamente acquisiti nel circuito della valorizzazione. Per le industrie dell’agribusiness, poi, la natura è ontologicamente e non solo interpretativamente “tecnica”, dato che non c’è nessuna differenza sostanziale tra le ibridazioni che la natura fa spontaneamente, quelle degli agricoltori tradizionali e quelle (più precise) che fanno le biotecnologie.
In questo gioco ontologico sia l’idea di controllo e prevedibilità che quella di tempo subiscono trasformazioni radicali. Per esempio, se prendiamo il SRM, è facile rendersi conto che introdurre alterazioni a un sistema già di per sé caotico come quello climatico non può che riprodurre, se non incrementare, l’imprevedibilità delle risposte, che possono essere molto diverse da quelle attese e manifestarsi in aree del globo molto distanti da dove l’azione è stata compiuta. Qual è allora il senso della strategia? Certamente non di “controllare” il sistema in un senso tradizionale del termine. Semmai quello di “cavalcare” le sue reazioni imprevedibili, esercitando e affinando la prontezza di risposta (la resilienza e la preparedness di cui tanto si parla in molti ambiti, dalla finanza all’innovazione, alle emergenze). Naturalmente in questo modo ogni attribuzione di responsabilità diviene ardua, se non impossibile: primo, perché stabilire relazioni causali precise si fa oltremodo difficile; secondo, perché qualunque evento (siccità o uragani dove mai prima si erano verificati, per esempio), per il fatto stesso che si è verificato, dimostra che era una possibilità concreta, ancorché inespressa (Pellizzoni 2019). Contrariamente alla concezione moderna del soggetto in relazione con il mondo, l’incertezza diviene regola anziché eccezione, e pur essendo non governabile attraverso il calcolo probabilistico non soffoca ma anzi potenzia la capacità d’azione razionale (Pellizzoni 2016).
Se poi prendiamo l’idea di Antropocene, come superamento della distinzione società/natura e simultanea affermazione della presenza di barriere biofisiche oggettive, ci troviamo alle prese con un ircocervo che tuttavia delinea una struttura temporale peculiare. Un evento (il superamento “dei confini operativi sicuri”) viene posto come certo, anche se imprecisato nei dettagli, e si forma in questo modo un tempo operativo destinato a ritardare indefinitamente tale evento, respingendolo in un futuro che, per usare le parole di Luhmann (1976), non comincerà mai; tempo operativo in cui è quindi possibile compiere letteralmente qualsiasi cosa purché la si giustifichi in base a tale finalità superiore. Si tratta, palesemente, di una temporalità che non è più quella moderna. Quest’ultima, come sappiamo, consiste in una freccia orientata in avanti lungo una traiettoria scandita per addizione quantitativa di momenti, in cui ad ogni passo si aprono biforcazioni, ossia scelte, da cui è difficile e a volte impossibile retrocedere (anzi, non si retrocede: si procede cercando di tornare sulla traiettoria da cui si è deviato). Qui invece siamo alle prese con una temporalità “messianica”, dove ogni attimo e ogni azione assumono una valenza non più cronologica, sequenziale, ma “kairologica”, ossia fatta di istanti rivelatori rapportati a una escatologia finale (catastrofica come una nuova glaciazione o rigenerativa come la fine della fame nel mondo o la clonazione), capace per questo di rimescolare il passato insieme al futuro (Pellizzoni 2019). Per esempio, tornando al SRM, la cornice di senso che lo giustifica è, come accennato, non solo che occorre adattarsi a “gestire” uragani, desertificazione o altri fenomeni climatici estremi, ma che nel momento in cui si verificano in aree geografiche dove di essi non si ha memoria storica dimostrano semplicemente di attuare una possibilità da sempre latente.
Si tratta, beninteso, di fenomeni esprimenti una razionalità di governo che non riguarda solo l’azione sul mondo biofisico: anzi, in questo ambito il suo dispiegarsi è ancora in larghissima parte non riconosciuto e quello che ho detto non è affatto scontato. Altrove, invece, il dibattito al riguardo è in corso da qualche tempo. L’idea di una funzione “produttiva” dell’indeterminazione, in termini di espansione delle capacità razionali di perseguimento di uno scopo, è per esempio esattamente quella riscontrata nei mercati finanziari, in particolare i derivati (esiste tra l’altro una categoria di derivati in cui l’incerto sottostante è proprio di carattere atmosferico: cfr. Cooper 2010). Più in generale, tale idea risulta al centro di una narrativa economico-manageriale che ha preso piede a partire dagli anni ’80 e che celebra pericolo, insicurezza, volatilità, disordine e decisione non predittiva come “fulcro di ciò che è positivo e costruttivo” (O’Malley 2010, p. 502; per un esempio emblematico di tale letteratura cfr. Taleb 2012); narrativa sua volta palesemente connessa con l’ideologia neoliberale. L’ontologia di quest’ultima è infatti, come Foucault ha messo bene in chiaro, che il mondo è troppo complesso per consentire predizione e pianificazione, quindi l’unica strategia sensata è disegnare le condizioni (leggi: estremizzazione delle disuguaglianze e della competizione) atte a far sì che il mercato possa fungere da regolatore automatico, selezionando le azioni che, risultando vincenti, sono anche quelle socialmente desiderabili (Dardot e Laval 2009). Turbolenza e imprevedibilità, dunque, non solo sono inevitabili ma anche benefiche; il loro incremento è da incoraggiare.
Quanto alla temporalità messianica che vediamo all’opera nel SRM (ma lo stesso vale per altri ambiti: dall’informatica in procinto di produrre “singolarità” per cui le macchine diverranno autonome rispetto agli umani, ma che nel frattempo consente di sviluppare senza restrizioni il “capitalismo delle piattaforme”, ossia un nuovo modo di accumulazione, alle tecnologie genetiche, le nanoscienze e le neuroscienze, la cui “convergenza” annunciata e sempre rinviata consentirà di risolvere tutti i problemi, dalla fame all’invecchiamento e l’inquinamento, ma nel frattempo giustifica il crescente asservimento della ricerca a fini produttivi), essa segnala il pensionamento della (breve) stagione della precauzione – forma di anticipazione che implica una temporalità lineare come e più della tradizionale prevenzione, dato che il suo terreno elettivo sono i processi irreversibili – a favore della modalità emergente di governo anticipatorio: la pre-emption. Uso il termine inglese perché non esiste, a mia conoscenza, un’espressione italiana capace di rendere bene il senso della parola, che non significa semplice predizione o prevenzione ma (prendendone alla lettera la semantica) “svuotamento preventivo”, atto dell’inficiare anticipatamente il senso e la possibilità di un agire. La pre-emption è stata discussa soprattutto rispetto alle applicazioni in campo militare e securitario (Cooper 2006; Massumi 2007; Anderson 2010; Kaiser 2015) ed è lì che occorre guardare per capire in cosa consiste.
Al riguardo rimangono scolpite le parole usate da G.W. Bush per spiegare, in un discorso fatto nel 2002 all’accademia militare di West Point, la strategia della “guerra al terrore”: “Se aspettiamo che le minacce si materializzino sarà troppo tardi. Dobbiamo ingaggiare battaglia col nemico, distruggere I suoi piani e affrontare le peggiori minacce prima che esse emergano” (Bush 2002, corsivo mio). Concetto che Bush ripeté qualche tempo dopo dicendo che “magari qualcuno è in disaccordo con la mia decisione di rimuovere Saddam Hussein, ma possiamo tutti concordare che i terroristi hanno reso l’Iraq un fronte centrale nella guerra al terrore” (Bush 2005, citato in Massumi 2007). Ossia: rimuovere Saddam Hussein era la cosa giusta da fare, dato che così l’Iraq è diventato ciò che giustificava l’azione stessa. Massumi (2007) parla in proposito di “azione incitativa”, dato che, essendo meramente presunte, le minacce devono essere fatte uscire allo scoperto, per affrontarle come si conviene. Parla anche di “verità retroattiva”. Quest’ultima espressione va però bene intesa (e non sono sicuro che Massumi lo faccia): non si tratta di reinterpretare il passato alla luce del presente, cosa che non costituirebbe nulla di nuovo, ma letteralmente di retroagire su di esso, facendolo diventare un posto dove sono successe cose diverse; altrimenti la minaccia non avrebbe potuto essere suscitata (Pellizzoni 2019). È la stessa logica che abbiamo visto sottesa al SRM. Si può obiettare che quest’ultimo è al momento più una speculazione affiancata ad alcuni esperimenti che una politica attuata. Prendiamo allora gli OGM. Qui, come accennato, la narrativa delle grandi multinazionali è che quello che si fa non è altro che la continuazione di ciò che si è fatto per migliaia di anni in agricoltura, o anzi quello che la natura fa da sempre, dato che “la ‘tecnologia’ in queste pratiche, non è altro che la biologia stessa, o la ‘vita stessa’” (Thacker 2007, p. xix). Affermazioni che non impediscono, anzi giustificano, che i brevetti biotecnologici proteggano legalmente gli OGM in quanto differenti da ciò che si dà in natura, e tuttavia essi debbano essere considerati “sostanzialmente equivalenti” a quest’ultima, dunque non soggetti a regolamentazione specifica (Pellizzoni 2016).
Credo che quanto precede sia sufficiente a mostrare che la posta in gioco, nelle lotte che hanno per oggetto o sfondo il rapporto tra mondo umano e non-umano, produzione e riproduzione, e nell’ecologia politica come indagine su di esse, sia oggi prioritariamente ontologica. Ma è una posta rispetto a cui tanto l’ecologia quanto la teoria politica si trovano spiazzati. La prima, non come specifica disciplina ma come ambito di riflessione sul rapporto natura/società, ha storicamente oscillato tra realismo e costruzionismo, ossia tra l’adozione di un tradizionale naturalismo e l’allineamento alla svolta linguistica del post-moderno; allineamento che ovviamente non mette in discussione ma conferma il dualismo mente/corpo o materia/linguaggio, semplicemente rovesciando l’ordinamento dei termini in ciascuna polarità. L’emersione di posizioni ontologiche non-dualiste è avvenuta, nelle scienze sociali degli ultimi decenni, soprattutto in due ambiti. Il primo è quello dei Science and technology studies (STS), dove gli studi sulle pratiche di costruzione del dato empirico e approcci come l’Actor-network theory (ANT) hanno evidenziato come la realtà (scientifica) sia l’esito contingente dell’azione di una varietà di elementi, umani e non-umani, animati e inanimati (come le strumentazioni di laboratorio o i reagenti chimici). L’altro ambito rilevante è l’antropologia, dove la pregiudiziale culturalista (una realtà/molte interpretazioni) ha lasciato progressivamente il campo a una prospettiva “multinaturalista” (varie nature-culture, ciascuna con il suo modo di ordinare il mondo e i suoi abitanti, come anche i rapporti tra sensibile e sovrasensibile), rappresentata da autori come Philippe Descola (2005) o Eduardo Viveiros de Castro (2009).
Il problema più volte segnalato nei riguardi dell’ontologia “piatta” proposta dall’ANT e dagli STS in genere, dove attori e attanti si influenzano e co-determinano reciprocamente muovendosi, per così dire, su un piano di parità, è l’incapacità di (o lo scarso interesse a) mettere in evidenza i rapporti di dominio, ossia asimmetrie di potere che perdurano nel tempo e orientano l’evoluzione delle reti e l’emersione dei fenomeni in direzioni tutt’altro che casuali e contingenti. È vero che alcuni autori parlano di “politica ontologica” (Mol 1999; Woolgar e Lezaun 2013), ma si riferiscono al modo in cui le pratiche conoscitive costituiscono modi di intervenire nel mondo che fanno emergere sue particolari versioni, da ritenersi non le uniche possibili. Certo, queste pratiche derivano da ed esprimono relazioni sociali, dunque anche rapporti di potere, ma se si va a leggere la letteratura STS si scopre che la “politica” di cui si parla è quasi sempre schiacciata sugli oggetti e le pratiche in quanto tali e raramente fa una zoomata all’indietro volgendosi ad approfondire, e soprattutto a criticare, le cornici istituzionalizzate entro cui tali pratiche si svolgono e tali entità prendono forma. C’è poi un’asincronia tra metodo e oggetto di indagine. Gli STS si sono sviluppati in polemica tanto con il naturalismo scientifico quanto con il costruzionismo culturale, ma l’effetto di smascheramento che l’affermazione di ontologie non-dualiste poteva avere nei confronti di entrambi risulta esangue di fronte alle tendenze emergenti in una varietà di ambiti tecno-scientifici (si pensi agli esempi fatti ma ve n’è una varietà di altri, in chimica, fisica, biologia, computer science, ecc.), le quali danno per assodata la convenzionalità dei tradizionali dualismi (individuo/ambiente, mente/corpo, vivo/non-vivo, organismo/macchina; materia/informazione, conoscenza/produzione di realtà), senza per questo dare segno di mutare il proprio orientamento appropriativo e dominativo nei confronti del mondo. Di questo si è accorto Bruno Latour, che da vari anni ha avviato una poderosa retromarcia (sul cui merito metodologico e politico qui non entro) rispetto all’ontologia “piatta” di cui è stato campione, avendo notato che quest’ultima è più utile che dannosa al business-as-usual (cfr. p. es. Latour 2004, 2018). Una prospettiva che azzera i differenziali di potere/sapere è per esempio utile a spianare la via alla “fabbricazione dell’incertezza” (Michaels 2006), ossia l’appello al carattere controverso dei dati, qualunque ne sia la fonte e l’entità, al fine di giustificare il blocco di azioni a difesa di ambiente e salute, nell’attesa che venga fatta chiarezza tramite ulteriore ricerca (il “saperne abbastanza” funge qui da evento escatologico eternamente rinviato analogo a quelli sopra accennati, a conferma della pervasività dell’approccio governamentale messianico).
Quanto alle implicazioni politiche del multinaturalismo, esse sono state sviluppate soprattutto dagli studi post-coloniali (Spivak, Chakrabarty, Gudynas ecc.), dove si è arrivati a parlare di “lotte ontologiche” contro dighe, estrazioni, trivellazioni, deforestazione, agricoltura intensiva; ontologiche in quanto basate su una denaturalizzazione dei dualismi occidentali a favore di prospettive secondo cui “tutti gli esseri esistono sempre in relazione e mai come ‘oggetti’ o individui” (Escobar 2010, p. 39). Si riscontra qui un problema in certo qual modo opposto a quello degli STS. Potremmo chiamarlo un eccesso di politicizzazione, nel senso di una troppo veloce equiparazione tra contestazione del naturalismo occidentale e valenza emancipativa delle ontologie non-dualiste. Troppo veloce sia perché spesso manca di un’autoriflessività sufficiente a porsi il dubbio se l’uso che si fa nei campus americani o nelle grandi e piccole università europee di concetti come il buen vivir non si configuri come una forma di neo-colonialismo culturale volto ad adattare alle proprie categorie ontologiche e ai propri scopi visioni del mondo e obiettivi esistenziali profondamente diversi, sia perché rimane interdetta di fronte a fenomeni che sono sotto gli occhi di tutti: per esempio il fatto che il capitalismo neoliberale va a nozze con la sostituzione delle rivendicazioni per l’uguaglianza a favore delle rivendicazioni per le diversità (Poupeau 2012; Fraser 2013; Lilla 2017); oppure se il produttivismo e neo-estrattivismo di cui sono accusati i governi dei paesi latino-americani corrisponda a un tradimento delle ontologie “alternative”, a volte solennemente dichiarate in costituzione, o sia un necessario presupposto per un’emancipazione che, per essere politica e sociale, deve essere anche e prima di tutto economica.
Questo “eccesso di fretta” nell’equiparazione tra dualismo e dominio da una parte e non-dualismo e emancipazione dall’altra si riscontra anche a livello di teoria e filosofia politica. La “svolta ontologica” che a partire dagli anni ’90 ha portato all’emersione di “nuovi materialismi” (Coole e Frost 2010) è un processo complesso, in cui il post-strutturalismo francese (con Deleuze in cima) ha giocato un ruolo primario e il superamento del naturalismo occidentale si è spesso intrecciato con la celebrazione della tecnologia in funzione anti-umanista (anche in questo caso equiparando un po’ troppo semplicisticamente l’umanismo con il dominio). Pur nella varietà degli accenti, tratto largamente condiviso dei nuovi materialismi (da non confondere con il ritorno al realismo tradizionale da alcuni propugnato) è l’affermazione di un’ontologia desostanzializzata, puramente differenziale, e la celebrazione vitalista della materia e dei suoi poteri generativi (cfr. p. es. Hird 2009; Grosz 2011). Anche in questo caso variazione, molteplicità e contingenza vengono fatte corrispondere a emancipazione, a volte con il corollario di un affrancamento (dichiarato e in quanto tale ovviamente auto-contraddittorio) dalla critica discorsiva, vista come inefficace e basata sull’assunto di una capacità del critico di collocarsi al di fuori dei fenomeni analizzati (qui il Foucault di Illuminismo e critica non sarebbe d’accordo), a vantaggio del radicamento della resistenza e dell’opposizione nel corpo e nelle pratiche (e qui vale la pena di ricordare Adorno e la sua diffidenza per l’ipostatizzazione della pratica a scapito della riflessione, che egli considera più sintomo dell’alienazione che non risposta ad essa). Non sembra essere tenuto in gran conto che la pura differenzialità del soggetto e la totale contingenza e sperimentalità dell’esistenza costituiscono cardini ontologici del capitalismo neoliberale (Pellizzoni 2016). La più recente evoluzione di questo filone di pensiero in direzione di una “geo-ontologia” o un “geontopotere” (Grosz 2011; Povinelli 2016; Clark e Yusoff 2017, ma si veda anche l’ultimo Latour sopra citato) ribadisce la fascinazione della teoria sociale e politica espressa dal filone neo-materialista nei confronti di uno sperimentalismo continuo, stavolta interfacciato con dinamiche terrestri non fungibili. Ancora una volta, insomma, variazione e contingenza vengono equiparate a emancipazione mentre la “rigidità” del terrestre funge da dato certo e imprecisato legittimante la totale plasticità del reale che lo “anticipa”, secondo il consueto schema messianico (Pellizzoni 2019).
Senza arrivare necessariamente a dire, seguendo Zizek (2004), che, essendo Deleuze l’ideologo del tardo capitalismo, di tale ideologia i nuovi materialismi costituiscono il dispiegamento, o, con Boltanski e Chiapello (1999), concludere che gli intellettuali si sono fatti ancora una volta catturare dall’oggetto della propria denuncia, credo che quanto sopra sia sufficiente a mostrare come parlare di politica e natura, o fare “ecologia politica”, senza mettere in cantiere un’approfondita riflessione ontologica significhi rinunciare a confrontarsi con le forme emergenti di dominio. Questo riguarda anche il pensiero critico di matrice marxista. Colpisce al riguardo come il wishful thinking della tesi post-operaista sul capitalismo cognitivo (Vercellone 2007; Virno 2001) si stia ripetendo nei confronti del lavoro riproduttivo (umano e non-umano). Se non ci sono ormai molti dubbi che i lavoratori della conoscenza, anziché costituire una nuova, risolutiva avanguardia rivoluzionaria, si trovano in una condizione sempre più precaria e asservita a un capitale che da loro estrae ogni energia intellettuale e umana, sorprende che la medesima tesi venga estesa alla natura, intesa come “dinamiche auto-organizzative e capacità rigenerative socio-ecologiche esterne rispetto ai diretti processi di produzione” (Nelson 2015, p. 462). Il wishful thinking è confermato dal fatto che, tanto per il lavoro umano che per quello non-umano, si insiste a parlare di un ritorno alla sussunzione formale (Hardt e Negri 2017). Certo, la riduzione del materiale umano e non-umano a ingranaggio o mattone da inserire nei processi di valorizzazione non è così chiaramente visibile come nella fabbrica fordista o nell’industrializzazione agricola del secolo scorso. Smembramento e riassemblaggio, tuttavia, non scompaiono, ma avvengono in modo più profondo e pervasivo (Pellizzoni 2018). La creatività e dedizione affettiva e relazionale del lavoratore della conoscenza è plasmata da interventi – a volte suadenti, a volte brutali – volti a imporre a ogni costo il soggetto neoliberale, imprenditore di se stesso; e ciò sia nei settori di avanguardia produttiva come le ICT che nel contesto tradizionale dell’accademia. Lo stesso tipo di smembramento e riassemblaggio avviene, come abbiamo visto, con i “servizi ecosistemici” e il biodiversity offsetting. Ma vale anche per il lavoro riproduttivo umano, se solo si pensa alla crescente rilevanza economica delle diverse forme di “lavoro clinico” (Cooper e Waldby 2015): donazione di ovuli, maternità surrogata, sperimentazione farmacologica e così via, dove il corpo umano (specialmente quello femminile) diviene esso stesso un “servizio”. In effetti, come si comincia a dire apertamente anche in ambito marxista (Leonardi 2017), non ha più molto senso tenere separata, anche solo dal punto di vista analitico, la sfera della produzione da quella della riproduzione.
Di fronte a tutto ciò pare davvero necessario un impegno critico che non guardi al presente con la mente rivolta al passato, pensando che ancora si tratti solo di denunciare gli effetti dominativi del naturalismo e dell’umanismo, quando questi ultimi non svolgono più il ruolo di fondamenti irrinunciabili dell’ordinamento del mondo ma sono mosse tattiche in una politica ontologica che, a seconda delle necessità e dei contesti, passa fluidamente dalla tradizione occidentale alle ontologie non-occidentali e si allinea volentieri alle celebrazioni del post-umano da parte delle “avanguardie” intellettuali cogliendo in esse opportunità inedite di assoggettamento. La constatazione che personalmente mi muove, ma che ovviamente è solo una possibile declinazione della problematica, è che il superamento del naturalismo (e del suo reciproco culturalista) è coinciso con un’inusitata estroflessione del soggetto moderno, che di esso rappresenta il presupposto; soggetto che, man mano che perde di sostanza e si fa plastico e contingente, si traduce sempre più in una pura volontà di potenza. Tale volontà, nelle condizioni storiche del tardo capitalismo, coincide con il rinnovato miraggio della crescita infinita, ma ha imparato a giocare con le categorie ontologiche da cui ha preso le mosse, a partire da quella fondamentale del tempo. In tale contesto, l’umile, affettivo “prendersi cura” del mondo invocato da una varietà di autori e prospettive disciplinari (cfr. fra gli altri Puig de la Bellacasa 2011) non può consistere semplicemente nella denuncia di separazioni astratte e storicamente devastanti (tutt’ora presenti, ovviamente, ma come accennato usate sempre più in modo tattico), ma deve confrontarsi con una soggettività espansiva che esso stenta a riconoscere prima di tutto dentro di sé, quando parla di emancipazione come affermazione di una perenne contingenza e auto-trasformabilità, e che in un mondo senza separazioni ontologiche non trova davvero più alcuna barriera (l’evocazione della catastrofe o rigenerazione finale, come abbiamo visto, alimenta piuttosto che contenere questa deriva). Solo se l’avvicinarsi all’altro non significa assimilare l’altro a sé, pretendendo di parlare in sua vece, se “affettività” non si traduce in “effettività” (cosa che, come sappiamo, la governamentalità neoliberale sa fare molto bene), e se invece che soglie da oltrepassare o barriere da accettare riluttanti i limiti diventano risorse per definire se stessi, relazioni rispettose con il mondo sono possibili e una presenza sostenibile degli umani sul pianeta può essere perseguita con qualche possibilità di successo.
Riferimenti bibliografici
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