Ho scoperto qualche tempo fa casualmente Vaclav Smil, a Groningen, dove mio figlio insegna alla locale università. Ho quindi divorato i suoi due ultimi testi pubblicati in italiano: Come funziona davvero il mondo. Energia, cibo, ambiente, materie prime: le risposte della scienza, traduzione di G. Manconi, Einaudi, Torino 2022; Crescita. Dai microrganismi alle megalopoli, traduzione di L. Canova, Hoepli, Torino 2022. E mi sono persuaso che Smil è una lettura imprescindibile per chi vuole comprendere in profondità la portata dell’attuale crisi ecologica, proseguendo nel solco tracciato da Giorgio Nebbia su un terreno scientifico saldo nel confronto con la dura realtà dei fatti e nell’autonomia dal potere, ma nel contempo capace di critica e autocritica rispetto a quelle che Giorgio chiamava “trappole tecnologiche”.
Nasce da qui il tentativo, davvero improbo, di rendere in poco spazio la rilevanza di due lavori molto corposi come dimensione (l’uno di 424 pagine, l’altro di 718 pagine) e come ricchezza di dati.
Come funziona davvero il mondo
L’autore, come noto, si costruì la propria casa negli anni ‘80 all’insegna dell’efficienza energetica e dell’autonomia alimentare e, ancora oggi, si rifiuta di possedere un telefono cellulare, insomma da tempo è un testimone di uno stile di vita virtuoso ammirevole. Tuttavia, a differenza di tanti ambientalisti alla moda, non si è mai illuso che basti coibentare l’abitazione, installare qualche pannello solare, differenziare bene i rifiuti, coltivare un orto domestico, consumare poca carne e più fagioli, usare la bicicletta per gli spostamenti brevi per contribuire sostanzialmente al superamento della crisi ecologica.
Il pregio di Smil, con questo libro, è di sbatterci in faccia, brutalmente, la straordinaria complessità del sistema termo-industriale fondato sui fossili, creato in particolare negli ultimi due secoli, la sua formidabile inerzia e dunque l’enorme difficoltà e i necessari tempi lunghi per cercare di fuoriuscirne, evitando catastrofi ambientali, sociali e umanitarie.
Innanzitutto, nel VI capitolo Comprendere l’ambiente, smonta il riduzionismo oggi di moda che identifica la crisi ambientale con il cambiamento climatico, che invece è solo uno dei nove limiti cruciali per l’integrità della biosfera. Gli latri otto sono: l’acidificazione degli oceani, la riduzione dell’ozono atmosferico, l’aerosol atmosferico inquinato, le interferenze umane nei cicli dell’azoto e del fosforo, il consumo di acqua dolce, i cambiamenti nella destinazione di utilizzo delle terre, la perdita di biodiversità e, infine, le diverse forme di inquinamento chimico (pp. 308-309). Va aggiunto che, dopo mezzo secolo di emergenza ecologica, come è noto, solo uno di questi nove limiti cruciali sembra avviarsi ad una soluzione, quello del buco dell’ozono atmosferico: in questo caso le imprese produttrici dei micidiali cfc, clorofluorocarburi, hanno subito trovato dei sostituti con analoghi costi e prestazioni, ma non distruttivi dell’ozono, per cui slavato il business, è stato possibile salvare l’ambiente. Per gli altri otto limiti le cose, invece, vanno sempre peggio.
Tornando all’attuale esclusivo allarme per il riscaldamento globale, Smil, dopo aver chiarito che l’aumento della CO2, pur per diverse ragioni problematico, non intacca comunque il primo bisogno vitale per l’uomo, ovvero la disponibilità di ossigeno (pp. 311-314), impartisce la sua lezione. Innanzitutto ricorda che Svante Arrhenius (1859-1927) un chimico svedese tra i primi premi Nobel, già nel 1861 pubblicò il primo calcolo capace di illustrare il grado di incremento della temperatura globale in relazione alla combustione dei fossili e, rispetto a un eventuale futuro raddoppio dei livelli preindustriali di CO2 presente nell’atmosfera, giunse nel 1908 a stimare un aumento della temperatura terrestre di 4° C (p. 329-330). E’ passato oltre un secolo da allora e, nonostante da circa 30 anni, di fronte alla constatazione che le previsioni di Arrhenius si stavano avverando, sia sempre più incalzante l’allarme per il riscaldamento climatico, “l’impatto a livello globale della recente tendenza alla decarbonizzazione della produzione di energia elettrica – con l’installazione di pannelli solari fotovoltaici e turbine eoliche – è stato quasi del tutto compensato dal rapido aumento delle emissioni di gas serra provenienti dalla Cina e dal resto dell’Asia” (p. 332). Questo dato di fatto, così ostico, viene ribadito più avanti sulla base delle statistiche della British Petroleum, Statistical Review of World Energy:“Sebbene la fornitura delle nuove energie rinnovabili (eolica, solare e i nuovi biocarburanti) abbia registrato una crescita straordinaria, di circa 50 volte nel corso dei primi vent’anni del XXI secolo, il grado di dipendenza del mondo intero dal carbonio fossile ha subito un calo solo marginale, dall’87 per cento all’85 per cento sulla fornitura complessiva, e gran parte di questo modesto declino è dovuto all’espansione dell’energia idroelettrica, una vecchia forma di energia rinnovabile” (p. 394).
Per chi da decenni è impegnato sul fronte ecologico è un dato difficile da accettare, anche se estremamente utile perché costringe a fare i conti con la fortissima resistenza del sistema, determinata secondo Smil dalla materialità pesante e lenta dei processi di grande scala su cui si basa l’attuale economia. Aggiungerei un ulteriore fattore che ostacola il cambiamento, ovvero il neoliberismo dominante, in particolare nelle economie occidentali, che spinge ad estrarre valore e profitto dai fossili fino all’ultimo deposito custodito nel sottosuolo.
Ma torniamo a Smil e al suo realismo, scettico verso i facili ottimismi (compresi quelli tecnologici, sull’onnipotenza dell’Intelligenza artificiale) quanto verso i catastrofismi (“siamo ad un punto di non ritorno!”).
Ciò che va ripetendo Smil in tutto il suo lavoro è che per affrontare quei “limiti cruciali per l’integrità della biosfera” e quindi della futura vita umana sul Pianeta occorrono progettualità politiche ed azioni non improntate all’emergenza ma capaci di incidere in permanenza e sul lungo periodo sulle strutture portanti dell’attuale sistema economico.
Smil sembra divertirsi a demolire alcune nostre illusioni: ad esempio l’enfasi recente sulla conversione dal motore a combustione interna a quello elettrico per le automobili, ricordandoci come continuano a funzionare con i fossili i motori ben più inquinanti dei trasporti pesanti, degli autotreni, delle infinite flotte di meganavi portacontainer e da crociera e di aerei, ma anche di trattori e macchine per l’agricoltura, per il movimento terra…
Così pure, di fronte all’altra illusione dell’immaterialità della nuova economia ipertecnologica (5G, AI…), ci ricorda la complessità ed il peso in termini di materia e di energia delle infrastrutture globali su cui si appoggiano queste nuove tecnologie (p. 138), esprimendo qualche riserva sul rapporto tra costi e benefici ecologici ed umani (non ovviamente economici, considerati gli iperbolici profitti delle Big Tech).
Infine veniamo alla parte più dura, il III capitolo, I quattro pilastri della civiltà moderna (pp. 137-180), ovvero i quattro materiali fondamentale per comprendere il mondo in cui viviamo: il cemento, l’acciaio, la plastica e l’ammoniaca, tutti materiali che vengono prodotti con i fossili in forma di energia o di materia, pari a circa un 25% dei consumi complessivi. E le quantità per ogni anno sono impressionanti e per nulla destinate a diminuire, anzi: 4,5 miliardi di tonnellate di cemento, 1,8 miliardi di tonnellate di acciaio, 370 milioni di tonnellate di plastica, 150 milioni di tonnellate di ammoniaca.
L’acciaio serve anche per la cosiddetta transizione energetica, per le auto elettriche e per le pale eoliche, ad esempio. E anche quando, come a Taranto, si parla di “decarbonizzazione” della siderurgia primaria si prevede il passaggio dal carbone al gas indispensabile per produrre il cosiddetto “preridotto” da impiegare nei forni elettrici. Certo si potrebbe produrre acciaio da minerale usando la carbonella vegetale come si faceva prima dell’era del carbone fossile, ma le quantità sarebbero irrisorie rispetto al fabbisogno, un’operazione impensabile se non per un interesse storico museale.
Del cemento non si può fare a meno, anzi tendenzialmente anch’esso è destinato ad aumentare, perché oltre alle nuove costruzioni ed infrastrutture che continuano a proliferare, siamo ormai entrati nell’epoca critica del rifacimento o ristrutturazione dei manufatti in cemento del secolo scorso, un’opera gigantesca ed irrinunciabile, se vogliamo prevenire il ripetersi di crolli come quello del ponte Morandi. Il legno, in parte, può essere un’alternativa, ma solo per alcuni impieghi, anche perché si tratta di una risorsa rinnovabile, ma non illimitata.
Così anche alcune plastiche in parte potrebbero essere prodotte a partire dal carbonio di certe essenze vegetali, le cosiddette bio-plastiche, ma anche qui con limiti sia negli usi finali sia nell’estensione dei terreni da colture dedicate che divengono alternative a quelle alimentari, con tutta evidenza prioritarie per la vita umana. Ne sanno qualcosa gli italiani, alla fine degli anni Trenta in tempi di penuria alimentare, costretti dall’autarchia fascista a sacrificare terreni fertili della pianura Padana per produrre barbabietole destinate a fornire alcol etilico, come materia prima alternativa al carbone utilizzato invece dai tedeschi, da trasformare in aldeide acetica ed infine in butadiene che veniva polimerizzato ottenendo la gomma sintetica in un impianto industriale a Ferrara. Certo alcuni impieghi delle plastiche e delle fibre sintetiche potrebbero trovare sostituti in materiali e fibre naturali, come raccomandava l’inascoltata Conferenza di Stoccolma del 1972. Ma sta di fatto che, nonostante le microplastiche siano arrivate nel sangue umano e si sia dimostrato che aumentano il rischio di infarto, la produzione e il consumo di plastiche e fibre sintetiche sono in continuo aumento (si pensi alle componenti plastiche di tutti gli apparecchi elettronici ed informatici, o di protesi e materiali di consumo impiegati oggi nei moderni ospedali o agli indumenti tecnici degli sportivi).
Infine vediamo l’ultimo pilastro, la sintesi dell’ammoniaca con il famoso processo Haber-Bosch, basato sull’impiego del metano per ottenere dall’azoto atmosferico, appunto, l’ammoniaca e quindi i fertilizzanti a base di nitrati. Secondo Smil, senza questi fertilizzanti sintetici, quasi metà della popolazione mondiale non potrebbe essere sfamata (p. 142). Secondo alcuni storici, questa invenzione, accanto alla meccanizzazione dell’agricoltura e alle innovazioni della cosiddetta “rivoluzione verde” del secondo dopoguerra, sarebbe stata alla base del fatto che finora sia stata scongiurata la terza guerra mondiale. Come dimostrerà nel dettaglio nel testo Crescita, ad esempio, nel dopoguerra le rese del mais negli usa dal 1946 ad oggi si sono quasi decuplicate. Lo stesso Smil prende in considerazione la possibile alternativa ai fertilizzanti sintetici dipendenti dai fossili. Le leguminose in generale sono in grado di fissare naturalmente l’azoto atmosferico ed in parte a rilasciarlo nel terreno. Da qui l’antica arte, prima della chimica, della rotazione delle colture, che ha comunque come conseguenza una riduzione importante delle rese. Inoltre, se si volesse davvero emancipare l’agricoltura dai fossili, compresa quella biologica, sarebbe necessario rinunciare alle macchine con motori a combustione interna, e affidarsi in gran parte all’impiego dell’energia degli animali e degli umani, come un secolo e mezzo fa. Uno scenario che, oltre al drammatico decremento della produttività in agricoltura, sia del terreno che della forza lavoro impiegata, e delle possibili conseguenze sulla sicurezza alimentare, richiederebbe uno stravolgimento del rapporto tra città e campagna nel senso di una difficile inversione di rotta rispetto all’inurbamento indotto dall’industrializzazione. Lo stesso Smil fa comunque notare che una grave distorsione dell’attuale agroindustria è l’eccessiva produzione (e conseguente consumo) di carne in particolare nei paesi sviluppati, con gli allevamenti intensivi distruttivi per l’ambiente e per la salute umana. Se è oggettivamente difficile emancipare del tutto a breve l’agricoltura dai fossili, qualcosa comunque si può e deve fare. Lo stesso Smil più volte caldeggia l’indicazione saggia di moderare drasticamente il consumo di carne superando la megamacchina degli allevamenti intensivi, anche perché, per ottenere una proteina animale, vengono dissipate dieci proteine vegetali e conseguentemente “sprecato” terreno dieci volte più esteso.
Insomma, la vera transizione ecologica, come ci fa capire Smil, è un’impresa gigantesca, di lungo periodo, anche qualora l’umanità vi si impegnasse con tutte le energie considerandola la missione principale per i prossimi cinquant’anni. Certo, intanto cinquant’anni sono stati quasi del tutto persi. Abbiamo imparato la lezione? Purtroppo c’è da dubitarne se tornano a soffiare sempre più forti i venti di guerra, che non solo non spingono nella giusta direzione, ma che alimentano ulteriori devastanti distruzioni. Non c’è nulla di più antiecologico e antiumano delle armi, che Giorgio Nebbia definiva giustamente “merci oscene”. La pace è oggi la priorità assoluta, sia per la nostra convivenza, sia per ricostruire una relazione sana con la natura che ci ospita.
Crescita
La crescita è l’imperativo del sistema capitalistico da quando è sorto nell’Occidente ed è l’unico parametro di chi sta al governo o all’opposizione per stabilire se le cose vanno bene e se l’economia tira oppure no, il successo o l’insuccesso di una politica. Non interessa che crescano le povertà e le ingiustizie o gli infortuni sul lavoro o il degrado ambientale e quindi l’esposizione alle malattie. No, la questione fondamentale e dirimente è la crescita del pil, prodotto interno lordo. Convinti che, come nel recente passato dei “trent’anni gloriosi” del miracolo economico, i tassi di crescita esponenziali si possano riprodurre anche in futuro all’infinito e che il progresso materiale possa durare per sempre, si continua a venerare la crescita della ricchezza a tal punto da considerarla la soluzione a tutti i mali, oltre che l’unica misura dello sviluppo. Si tratta di una sorta di fede idolatrica che come dimostra questo testo di Smil non ha alcun fondamento nella realtà del mondo in cui viviamo.
Vaclav Smil confronta le traiettorie di crescita di decine di processi naturali, sociali, tecnologici e conclude che sì, la crescita è “una realtà proteiforme onnipresente nelle nostre vite”, il suo corso è ubiquo e governa lo sviluppo dei batteri come delle galassie, ma non c’è niente a noi noto che continui a crescere in eterno. Su questo mondo crescono la crosta oceanica, l’altezza delle montagne, le cellule tumorali; crescono anche la resa delle colture, il peso dei salmoni d’allevamento, la superficie dei televisori. Ma tutto ciò che cresce alla fine si ferma, per un motivo o per l’altro. L’unica evidenza è che nulla, proprio nulla, sembra poter espandersi all’infinito.
Lo chiarisce nell’introduzione metodologica del primo capitolo, dove spiega il modello normale di crescita presente nel mondo, tecnicamente definita logistica, che di seguito esemplifica con la pianta del girasole:
Le funzioni a forma di S descrivono molti processi naturali di crescita, così come l’adozione e la diffusione delle innovazioni, siano esse nuove tecniche industriali o nuovi prodotti di consumo. I primi incrementi iniziali accelerano fino a che la curva a forma di J descrive una rapida crescita; la velocità infine si riduce, formando una seconda curva, caratterizzata da un progressivo rallentamento della crescita, che diventa minima, mentre il totale si avvicina al limite massimo raggiungibile per uno specifico parametro o alla completa saturazione che deriva dall’uso o dall’adozione di un’innovazione. Di gran lunga la funzione più conosciuta e utilizzata più spesso della forma a S è la traiettoria che esprime la crescita logistica. A differenza della crescita esponenziale (illimitata), il cui tasso di aumento è proporzionale alla quantità oggetto della misura, gli incrementi relativi della crescita logistica (limitata) diminuiscono quando la quantità crescente si avvicina al suo massimo livello possibile, che negli studi ecologici è comunemente chiamato capacità di carico. Tale crescita sembra essere intuitivamente normale:
Nella realtà questo è il modello universale di crescita. Infatti, sia la materia vivente naturale (Cap. 2: microrganismi e virus, alberi e foreste, coltivazioni agricole, animali, uomini), sia la capacità di convertire agli usi umani le varie forme di energia (Cap. 3: acqua e vento, vapore per caldaie, motori e turbine, motori a combustione interna, celle fotovoltaiche e reattori nucleari, luci e motori elettrici), sia la dimensione dei manufatti creati dall’uomo (Cap. 4: strumenti e macchine, strutture, infrastrutture, trasporti, dispositivi elettronici), sia la crescita degli aggregati complessi ( Cap. 5: popolazioni, città, imperi, economia, civiltà) devono fare i conti con i grandi processi fisici che regolano ogni modellodi crescita: le leggi di conservazione dell’energia e quindi della termodinamica, la limitatezza delle risorse materiali, i vincoli al loro utilizzo per gli scopi sociali. L’ingegno umano sarà anche una poderosa macchina per abbattere i limiti, ma non esiste traiettoria di sviluppo che possa sfuggire a queste restrizioni. “Per quanto diversa la nostra civiltà possa essere in confronto a quelle che l’hanno preceduta”, ammonisce Smil, “essa opera comunque all’interno dello stesso vincolo”, affermazione che Smil corrobora, nei quattro capitoli centrali del testo sopra citati, con una mole di dati e di grafici davvero impressionante.
Infine, di grande interesse è l’ultimo capitolo, Che cosa viene dopo la crescita: fine e continuità.
Ed in questo sguardo oltre la crescita Smil considera diversi aspetti cruciali: cicli di vita degli organismi, declino di manufatti e processi, popolazione e società, economie, civiltà moderna.
Esemplari le riflessioni sulle economie umane per le quali valgono alcune citazioni.
Dissacrante rispetto alle attese miracolistiche della cosiddetta intelligenza artificiale:
Tali visioni mirabolanti sono state ulteriormente rafforzate da molte previsioni relative all’imminente arrivo di un’intelligenza artificiale onnipotente. La crescita dell’informatizzazione, della robotizzazione e delle crescenti capacità dell’intelligenza artificiale potrebbero causare una massiccia eliminazione dei posti di lavoro esistenti – con una quota di lavori a rischio fino al 50% (Frey e Osborne 2015) -, ma senza per questo inficiare una crescita economica continua e duratura. Ma come faranno i robot a procurarsi le materie prime necessarie per la loro produzione, e con quale energia verranno alimentati? I robot organizzeranno da sé l’approvvigionamento, la loro estrazione di metalli e minerali? Progetteranno e implementeranno autonomamente la produzione di elettricità rinnovabile e creeranno una loro infrastruttura per la trasmissione ad alta tensione su lunghe distanze, la trasformazione e la distribuzione dell’energia? Siamo già vicini alla saturazione globale, con dispositivi che sono essenzialmente potenti minirobot portatili: ogni cellulare è un computer la cui potenza di elaborazione è ordini di grandezza superiore a quella dei dispositivi di due decenni fa, ma il cui numero è ora di miliardi, e più di 1,5 miliardi di questi sofisticati oggetti (costruiti in alluminio, plastica, vetro e metalli preziosi) vengono ormai scartati ogni anno come rifiuto. Ovviamente, tali trend non possono continuare all’infinito su un pianeta che dovrebbe ospitare 10 miliardi di persone prima della fine di questo secolo, e quindi cercare di capire cosa potrebbe esserci dopo la crescita economica non è solo una questione di speculazioni ricche di fascino, ma dovrebbe essere una preoccupazione fondamentale, mentre pensiamo di estendere la durata della vita della civiltà moderna. Disaccoppiare la crescita economica dai consumi di energia e di materiali contraddice le leggi della fisica: i bisogni primari di cibo, alloggio, istruzione e impiego per gli ulteriori miliardi di persone che si aggiungeranno da qui al 2100 richiederanno da soli un notevole flusso di energia e di materie prime. (p. 604).
E ancora più caustico:
Daly (2009) ha riassunto le tre condizioni che consentirebbero una crescita economica continua sulla Terra: l’economia non dovrebbe essere un sottosistema aperto di un sistema biofisico finito e statico; l’economia dovrebbe crescere in una dimensione non fisica; le leggi della termodinamica non dovrebbero essere applicate. Ma nessuna di queste realtà può essere elusa, evitata, o sostituita da altri meccanismi – e quindi è facile dare ragione a Kenneth Boulding, che ha scritto (non risparmiando i suoi colleghi economisti): «Chiunque creda in una crescita indefinita di qualsiasi oggetto fisico, su un pianeta fisicamente finito, o è pazzo o è un economista» (p. 605).
Non rimane a questo punto che riportare le sagge parole conclusive di Smil, sempre in equilibrio tra ottimismo illusorio e catastrofismo impotente, ed augurare buona lettura a chi vorrà avventurasi nello straordinario e ineludibile percorso di ricerca di questo autore:
Siamo su un terreno molto più solido, invece, quando concludiamo che l’evidenza del passato (perseguire tassi di crescita economica più elevati possibili, portare la cultura del consumo eccessivo ad altri miliardi di persone e trattare la biosfera come un mero insieme di beni e servizi da sfruttare e usare impunemente come discarica) ci suggerisce che dobbiamo cambiare in modo drastico. Non c’è niente di nuovo in questa percezione. Questo è ciò che Orazio scrisse due millenni fa nelle sue Satire: «Est modus in rebus, sunt certi denique fines quos ultra citraque nequit consistere rectum» («V’è una misura nelle cose; vi sono determinati confini, al di là e al di qua dei quali non può esservi il giusto»). Ma due millenni dopo questa non è solo un’esortazione morale. La sopravvivenza a lungo termine della nostra civiltà non può essere assicurata senza stabilire tali limiti su scala planetaria. Credo che un fondamentale allontanamento dal modello consolidato di massimizzazione della crescita e di promozione del consumo materiale non possa essere ritardato di un altro secolo e che prima del 2100 la civiltà moderna dovrà compiere passi importanti per garantire l’abitabilità a lungo termine della sua biosfera.