Nato nell’anno della Marcia su Roma, Sandro Canestrini ha oltrepassato la linea d’ombra tra adolescenza e maturità partecipando alla Resistenza in Trentino, serbando un forte ricordo dei suoi compagni – a partire da Giannantonio Manci – caduti nella lotta. Anche nel loro nome, si è battuto per oltre mezzo secolo dalla parte della Giustizia e della Libertà. Differentemente dai troppi ex partigiani chiusi in una dimensione nostalgico-reducistica, egli ha rinverdito le idealità resistenziali nelle varie fasi della politica italiana, a partire dall’immediato secondo dopoguerra come avvocato nella difesa di militanti di sinistra, discriminati e perseguitati negli anni del “centrismo”. Contrario alla concezione romanocentrica, che in Sud Tirolo si presentava in lineare continuità con le sopraffazioni del regime fascista (basti citare la paradossale e vergognosa vicenda del cosiddetto Monumento alla Vittoria, in perfetto stile mussoliniano, rimasto per decenni al suo posto nonostante ogni forma di protesta), ha assunto il patrocinio di tanti irredentisti tedescofoni, che specialmente nella fase calda dei primi anni Sessanta furono imprigionati e torturati, assimilati a terroristi. Egli aprì un fronte polemico con la Democrazia cristiana trentina, da lui considerata ben più ottusa nel negare i diritti di libertà ai sudtirolesi, rispetto alle aperture delineatesi a livello nazionale nel partito cattolico: ancora in una polemica giornalistica del luglio 2011, affermò che ci volle il centrosinistra di Moro, Nenni e Saragat per imprimere alla storia della minoranza austriaca una svolta decisiva, superando le posizioni retrograde della DC trentina egemonizzata da Flaminio Piccoli. Ebbe delle incomprensioni anche a sinistra, nonostante fosse consigliere regionale prima per i comunisti e poi con la Nuova Sinistra/Neue Linke: lo si considerava eccessivamente sbilanciato verso i “tedeschi”, senza capire che la sua era una battaglia di libertà dalle valenze generali.
Fu protagonista del processo contro la società Sade, per l’eccidio del Vajont del 9 ottobre 1963, e poi difese gli anarchici nella montatura di Stato per attribuire all’area libertaria la strage fascista di piazza Fontana del 12 dicembre 1969.
Un altro fronte sul quale s’impegnò in modo pionieristico fu la causa degli obiettori di coscienza al servizio militare: oltre ad assumerne la difesa in modo impetuoso, con la decisione di chi sa di battersi per una causa sacrosanta, scrisse nel 1973 un denso manuale antimilitarista, edito da Feltrinelli: Il potere repressivo. L’ingiustizia militare, subito divenuto un manuale di autodifesa contro il prepotere dei giudici in divisa.
Tra le sue ultime battaglie giudiziarie, vi furono alcuni procedimenti penali imbastiti negli anni Novanta dalla magistratura militare contro criminali nazisti, sulla base di fascicoli processuali nascosti colpevolmente per mezzo secolo a Roma nel famigerato “armadio della vergogna”. Canestrini, in particolare, fu avvocato di parte civile per conto della Comunità ebraica nel processo contro l’aguzzino SS Michael Seifert, torturatore e assassino nei campi di Fossoli e poi di Bolzano, condannato all’ergastolo dal Tribunale militare di Verona, e che grazie al procuratore militare di Verona Bartolomeo Costantini venne poi estradato dal Canada, dove era entrato negli anni Cinquanta con documenti falsi.
Tra le sue iniziative controcorrente, vale la pena di ricordare l’inaugurazione nel 1994 del Monumento al Disertore ignoto, nella sua Rovereto: fu lui – in occasione del novantesimo anniversario dell’inizio della grande guerra – a tenere il discorso per spiegare l’attualità dell’opposizione alle istituzioni armate. Quel monumento illustrava la trasformazione da soldato in uomo libero, con l’abbandono della divisa e delle armi, in una ribellione contro le sopraffazioni. L’iniziativa fece imbufalire alcuni elementi fascistoidi e qualche associazione d’Arma, con la presentazione di un paio di denunce per oltraggio allo Stato e alle Forze Armate, senza peraltro ottenere alcunché, se non un provvedimento di archiviazione.
Gli ultimi anni sono stati segnati da una malattia invalidante, sino alla morte, il 4 marzo, all’età di 97 anni. Chi ha conosciuto Sandro ne ricorda con ammirazione generosità, idealità e altruismo, sempre dalla parte di più deboli.
È auspicabile che il suo archivio, quello personale e quello professionale, vengano riordinati e posti a disposizione degli studiosi, per contribuire alla conoscenza e alla divulgazione di una figura straordinaria, fiorita in questa Italia scombinata per rivendicare i valori dell’individuo e della libertà.