“Sviluppo Sostenibile” e Teoria Economica
Anche l’economia, nella recente fase dell’insorgenza dell’allarme ecologico, ha dovuto in qualche modo fare i conti con la questione ambientale. Molto spesso male, in verità, ed in modo alquanto affannoso. D’altronde il concetto di “sviluppo sostenibile”, ormai largamente usato nell’ultimo decennio, rinvia innanzitutto al discorso sull’economia e pone in discussione alcuni fondamenti della stessa teoria economica.
L’avvio di un rovesciamento concettuale nella teoria economica va collegato alla pubblicazione, nel 1971, di The Entropy Law and the Economic Process di Georgescu-Roegen. In realtà, come ha puntigliosamente ricostruito nelle sue ricerche1JUAN MARTINEZ-ALIER, Economia ecologica, Milano, Garzanti, 191
l’economista spagnolo Juan Martinez-Alier, da oltre un secolo numerosi studiosi si sono occupati delle relazioni tra la teoria economica e lo studio dei flussi di energia nelle società umane. Il grande problema che autori come Podolinskij, Clausius, Popper-Lyncheus, Neurath e altri hanno cercato di affrontare è quello delle fonti esauribili di energia, nel tentativo di elaborare una teoria economica dell’uso di questo tipo di risorse. Il caso delle risorse energetiche esauribili è infatti esemplare per rivelare i limiti epistemologici dell’economia classica. Questa teoria economica dimostra clamorosamente di non essere attrezzata per affrontare il problema della loro allocazione intergenerazionale. Infatti, ogni modello di uso di combustibili fossili e altre risorse non rinnovabili implica una scelta distributiva tra la generazione presente e le generazioni future (se si ritiene non accettabile che l’umanità attuale si appropri in esclusiva dell’intero patrimonio di risorse esauribili!).
Il mercato, invece, come regolatore dei prezzi e dei flussi delle merci presuppone un radicale individualismo metodologico che prescinde da ogni principio morale. “Lo sforzo uniforme ed ininterrotto di ogni uomo per migliorare la propria condizione, questo principio dal quale scaturisce la ricchezza pubblica e nazionale come quella privata, è spesso abbastanza forte per dirigere il naturale corso delle cose verso il progresso…”, scriveva nel 1776 Adam Smith nella sua Inchiesta sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni.
L’individualismo egoistico del consumatore viene così posto a fondamento di un mercato autoregolantesi e capace di rispondere contemporaneamente sia agli interessi del singolo che dell’intera umanità. In questo contesto anche l’allocazione delle risorse è l’esclusiva risultante di transazioni fra individui. Ma “quando si tratta di risorse esauribili, il principio secondo il quale l’allocazione delle risorse deve corrispondere alle preferenze degli agenti economici si scontra con una difficoltà ontologica: molti degli agenti economici interessati non sono ancora nati, per cui non possono esprimere le loro preferenze e la loro disponibilità a pagare”2op. cit., p. 221.(Ma questo assunto potrebbe valere anche per tutti quegli uomini e quelle donne che sono oggi fuori dal mercato, perché non solvibili essendo sostanzialmente privi di reddito). È evidente che per dare a queste domande future una loro ponderazione (pesante? leggera?) è necessario fuoriuscire dalla teoria economica classica ed ancorarsi a principi morali per stabilire ad esempio se la domanda futura di risorse esauribili debba essere sopravvalutata piuttosto che sottovalutata (e quindi debba essere fortemente limitata la domanda attuale).
Il limite della teoria classica è che considera l’economia un sistema chiuso in sé, di cui ignora del tutto le implicazioni sul lungo periodo (le generazioni future), perché sostanzialmente incapace di previsione: i bisogni delle generazioni future (sia in termini di risorse esauribili che di quantità di rifiuti per loro accettabili, ad es. scorie radioattive) sono del tutto incommensurabili perché sono esterni al mercato e quindi non possono rientrare nel conto economico.3J. MARTINEZ-ALIER, Valutazione economica e valutazione ecologica come criteri di politica ambientale, in “Capitalismo Natura Socialismo”, Roma, Manifestoriviste, 1991, n.1.
Ma l’economia classica era un sistema chiuso anche perché non considerava il fattore natura come decisivo non solo per il funzionamento, ma per la stessa sopravvivenza di un’economia umana. L’economia classica ha considerato la produzione della ricchezza come un fattore esclusivo dell’attività umana per cui l’unica preoccupazione era l’incremento della produttività di quello che era ritenuto il fattore limitante (capitale costante e capitale variabile). La natura, a cui si attingevano risorse e materie prime, era ritenuta una fonte inesauribile e quindi non rientrava nelle preoccupazioni e nella contabilità degli economisti. L’economia era una scienza esclusivamente sociale del tutto separata dalle scienze naturali. Anche per questo dal punto di vista epistemologico l’economia classica era incapace di comprendere nei propri calcoli il fattore natura. In questo senso e’ significativo notare come molti dei precursori dell’economia ecologica provenissero dall’area delle scienze naturali (Podolinskij, Clausius, Popper-Lynkeus…).
Tuttavia gli effetti dell’economia umana sulla natura (sia in termini di prelievo di risorse che di scarico di rifiuti), chiamati dagli ecologisti esternalità, sono spesso difficilmente valutabili anche con il supporto delle scienze naturali. Emblematico è l’esempio dell’effetto serra e dei calcoli sul riscaldamento globale: gli scienziati sono stati a lungo divisi, sia sulle previsioni climatiche, sia sui possibili effetti positivi o negativi dei fenomeni descritti.4Ivi, p. 29.È anche per questo che il punto di vista ecologico ha accentuato i temi della complessità, della casualità, della non linearità e non prevedibilità di alcuni fenomeni naturali, ponendo anche seri interrogativi di epistemologia delle scienze.
In conclusione, molti elementi dell’economia che un punto di vista ecologico evidenzia come centrali (allocazione intergenerazionale delle risorse esauribili, esternalità) risultano difficilmente commensurabili.5Del resto, come stabilire un prezzo per un ecosistema naturale e ridurlo quindi intermini quantitativi, matematizzarlo per inserirlo nel calcolo economico? Vi sarebbero ipotesi in questo senso, però , anche nella loro parzialità, sono costrette a tralasciare i meccanismi usuali del mercato. Cfr. E. GUDYNAS, Limiti del mercato nella gestione dell’ambiente: quanto vale la natura? in “Amanecer”, n. 2-3, 1997”L’economia di mercato da sola non è in grado di essere la chiave di volta razionale per la distribuzione intertemporale di risorse e rifiuti”.6Ivi, p.31
L’economia ecologica, allora, non può che chiedere soccorso alle scienze naturali, ma anche all’etica e soprattutto alla politica, nel cui ambito si possono definire scelte dalle implicazioni estremamente complesse, non sempre prevedibili con certezza e tuttavia di straordinaria rilevanza per il futuro dell’umanità.
Il compito è particolarmente complesso perché sembra non possa essere di grande aiuto neppure la critica all’economia classica e neoclassica che ha segnato l’intero novecento e che si è proposta come alternativa di sistema al capitalismo: il marxismo e l’economia socialista. Anche il marxismo in ultima analisi considera l’economia come un sistema chiuso i cui attori fondamentali sono gli uomini e i prodotti del loro lavoro.
È pur vero che Marx ha scritto che i fattori elementari del processo di lavoro sono: l’attività personale dell’uomo, ossia il lavoro in sé, l’oggetto di questo lavoro e i suoi strumenti. Tuttavia di questi tre poli del processo produttivo (uomo, natura e attrezzi), l’analisi di Marx considera quasi esclusivamente il primo e l’ultimo. La natura è sostanzialmente ignorata e la sua esistenza è sempre considerata come un dato elementare e invariabile. Il pensiero marxista è incentrato sulla forza lavoro umana come merce soggetta alle leggi del mercato e sul produttore come soggetto dello sfruttamento.7JEAN-PAUL DELEAGE, La critica ecomarxista dell’economia politica, in “Capitalismo Natura Socialismo”, Roma, Manifestoriviste, 1991, n.2, p.81
In sostanza la contraddizione principale del modo di produzione capitalistico era individuata da Marx fra forze produttive e rapporti sociali di produzione, cioè fra la progressiva socializzazione della vita economica e la spinta di massa al consumo e alla produzione da un canto e la proprietà privata della terra, delle industrie e dei profitti da esse ricavati dall’altro.
Lo sfruttamento dell’ambiente naturale e la sua appropriazione da parte dei privati o dello stato non ha ricevuto uguale attenzione. Questo limite teorico del marxismo appare evidente nell’esperienza dei paesi del socialismo reale e nei disastri ecologici provocati da quei sistemi economici (Cernobyl e non solo): la proprietà statale dei mezzi di produzione non ha per nulla rappresentato una garanzia contro lo spreco delle risorse e la distruzione della natura.
In verità vi sono stati anche alcuni “eretici” del marxismo che hanno messo in guardia da una lettura linearmente progressista ed evoluzionista della teoria di Marx. Walter Benjamin, in particolare, cogliendo alla radice la tragedia del nazismo e della seconda guerra mondiale, non come “stato d’eccezione” ma come “regola”, irride agli oppositori che la affrontavano “in nome del progresso”.
E aggiungeva: “Non c’è nulla che abbia corrotto i lavoratori tedeschi quanto la persuasione di nuotare con la corrente. Per loro lo sviluppo tecnico era il favore della corrente con cui pensavano di nuotare. Di qui era breve il passo all’illusione che il lavoro di fabbrica, che si troverebbe nel solco del progresso tecnico, rappresenti un risultato politico…Questo concetto volgarmarxistico di ciò che è il lavoro, non si sofferma sulla questione di come il prodotto del lavoro agisca sui lavoratori stessi finché essi non possono disporne: vuol tener conto solo dei progressi del dominio della natura, non dei regressi della società. Esso mostra già i tratti tecnocratici che più tardi s’incontreranno nel fascismo. A questi tratti appartiene anche un concetto di natura che contrasta malauguratamente con quello delle utopie socialiste prequarantottesche. Il lavoro, come ormai viene inteso, ha per sbocco lo sfruttamento della natura, che viene contrapposto, con ingenua soddisfazione, allo sfruttamento del proletariato… Al concetto corrotto di lavoro appartiene, come suo complemento, quella natura che, come ha detto Dietzgen, “è là gratuitamente”.8W. BENJAMIN, Sul concetto di storia, Torino, Einaudi, 1997, pp. 39-41.Riflessioni profetiche, quanto ampiamente ignorate.
Più recentemente, alcuni studiosi di formazione marxista hanno cercato di superare questo limite teorico. Da questo sforzo, condotto in particolare da James O’Connor, è nato l’ecomarxismo. Il punto di partenza di questa elaborazione teorica è la contraddizione tra i rapporti di produzione (e le forze produttive) capitalistici e le condizioni della produzione stessa. La cosiddetta “seconda contraddizione” ( la prima è quella classica della teoria marxista poco sopra richiamata).
Marx stesso aveva definito tre tipi di condizioni di produzione, senza peraltro svilupparne l’analisi e approfondirne le implicazioni. Il primo tipo riguardava le “condizioni fisiche esterne” o gli elementi naturali, il secondo la “forza lavoro”, il terzo le “condizioni comunitarie”. Oggi le “condizioni fisiche esterne” emergono sotto forma di variabilità degli ecosistemi, adeguatezza dei livelli atmosferici di ozono, qualità del suolo, dell’aria e dell’acqua ecc.. La “forza lavoro” emerge sotto forma di benessere fisico e mentale dei lavoratori, tipo e livello di socializzazione, tossicità dei rapporti di lavoro. Le “condizioni comunitarie” emergono sotto forma di servizi sociali, infrastrutture.9JAMES O’CONNOR, L’ecomarxismo, Roma, Datanews, 1989, p.15-16 e seg.
In questo contesto una trasformazione ecologica dell’economia e della società richiede di aggredire come nodo centrale i rapporti sociali di riproduzione delle condizioni di produzione (e cioè lo stato e le istituzioni sovranazionali come strutture responsabili dei rapporti sociali e quindi delle condizioni di produzione; ma anche gli stessi rapporti di produzione in quanto influenti sulla salute mentale e fisica della forza lavoro).
Dunque anche per questa via si ritorna comunque alla politica10A questo proposito si veda G. NEBBIA “Manifesto per un’ecologia socialista” (per un socialismo ecologico?), in “Capitalismo Natura Socialismo”, (Anno II, n1), n. 4 marzo 1992, pp.10-14.come luogo privilegiato in cui forse è possibile superare i limiti di tutte le teorie economiche rispetto alle tematiche ecologiche, limiti che appaiono ancor più invalicabili quando l’economia si suppone scienza autosufficiente e si rinchiude in un orizzonte crematistico (studio della ricchezza). Da questo punto di vista si avverte allora quanto mai stonato il coro pressoché unanime che negli ultimi tempi si leva da tutte le parti (da Ovest a Est, dal Sud al Nord) ad esaltare il Mercato e le sue mirabili leggi finalmente riconosciute anche dai più riottosi. Mentre, invece, appare su questo punto significativa la riflessione del filosofo Emmanuele Severino che in diversi suoi saggi11E. SEVERINO, Il declino del capitalismo, Milano, Rizzoli, 1993; Il destino della tecnica, Milano, Garzanti, 1998
rileva come il capitalismo si starebbe avviando verso il tramonto proprio perché costretto a darsi un fine diverso dal profitto che è la sua ragion d’essere. E ciò deriva dal fatto che si sta diffondendo nel mondo la consapevolezza che la produzione capitalistica della ricchezza potrebbe portare in breve tempo alla distruzione delle condizioni della vita umana sulla terra.
In questa direzione va considerata la ricerca dell’economista italiana Mercedes Bresso che ha tentato, dopo anni di lavoro, una prima formulazione sistematica di un progetto di economia ecologica che raccogliesse i diversi contributi prodotti in giro per il mondo, facendo il punto sullo stato dell’opera e cercando di delineare una prospettiva.12MERCEDES BRESSO, Per un’economia ecologica, Firenze, La Nuova Italia Scientifica, 1993
Viene qui ripreso il rapporto tra economia ecologica e bioeconomia su cui ha portato per primo l’attenzione il già citato Georgescu-Roegen: applicando all’economia i principi della termodinamica, in particolare il secondo principio, la legge dell’entropia (processo irreversibile della materia/energia da uno stato di ordine ad uno di disordine degradato), viene evidenziato come l’uso di risorse energetiche fossili e minerarie ordinate (ed in generale di risorse non rinnovabili) riduca irreversibilmente le risorse disponibili per il futuro, aumenti cioè l’entropia della terra.
Ebbene, l’economia umana dell’era industriale è esattamente nata e fondata sull’uso di energia concentrata, prodotta in milioni di anni dalla terra, cioè di stock di energia, per definizione finiti e che dovrebbero appartenere a tutte le generazioni, non solo degli ultimi due secoli, ma anche dei prossimi millenni. E’ un’economia ad alta entropia a differenza di quella preindustriale che utilizzava sostanzialmente un flusso di energia (sole) e che era a bassa entropia. Viene qui posto sul piano teorico il grande problema, che come abbiamo visto, scardina i paradigmi di tutto il pensiero economico precedente.
Quindi, rifacendosi all’impostazione dei fondatori della rivista “Ecological Economics”, (Costanza, 1989) tre sarebbero le questioni principali su cui occorre lavorare nel rapporto fra sapere economico, sapere scientifico e sapere ecologico: il concetto di limite, la considerazione dell’incertezza, il trattamento della complessità. La Bresso, però, non si sofferma solo sui fondamenti dell’economia ecologica: utilizzando in particolare gli studi di H.E. Daly13Cfr. H. E. DALY, Lo stato stazionario, Firenze, Sansoni, 1981. Daly viene considerato l’economista ecologico più rigoroso anche da Enzo Tiezzi, che lo adotta come principale ispiratore di un suo recente saggio sulla questione qui dibattuta: E. TIEZZI, N. MARCHETTINI, Che cos’è lo sviluppo sostenibile?, Roma, Donzelli, 1999., cerca di costruire una nuova contabilità economica-ecologica che tenga conto di tutte le “esternalità” da sottrarre in negativo al PIL (ma la questione verrà ripresa in dettaglio più avanti).
Bresso conclude con una suggestiva “riflessione per un nuovo inizio”: qualità, lentezza e contemplazione sono le nuove parole d’ordine, in particolare “l’economia dello sviluppo sostenibile deve riscoprire e valorizzare la dimensione contemplativa delle relazioni tra gli esseri umani e il mondo”.14Ivi, p.346Sul piano delle proposte concrete vengono offerte alcune indicazioni operative per una politica ecologica, che oggi potremmo definire classiche: le tasse ambientali, diverse forme di incentivi, le ecoetichette o ecolabel, gli ecobilanci e l’Audit o autocertificazione di conformità ambientale…
Il dilemma dello “Sviluppo Sostenibile”
Un ambiente meno inquinato per le genti ricche del Nord del mondo o una vita dignitosa per tutti i popoli della terra, attuali e futuri? L’ambiguità della stessa definizione di questa parola d’ordine chiave ha segnato fin dall’origine il dibattito ormai decennale sulla questione, lasciando del tutto insoluto questo dilemma.
“L’umanità ha la possibilità di rendere sostenibile lo sviluppo, – recitava il documento base preparatorio di RIO-92, conosciuto come Rapporto Brundtland – cioè di far sì che esso soddisfi i bisogni dell’attuale generazione senza compromettere la capacità di quelle future di rispondere ai loro”.15AA. VV., Il nostro futuro comune, Bompiani, 1988. Sul tema si veda anche l’importante saggio di G. NEBBIA, Sviluppo sostenibile, Fiesole, Edizioni Cultura della Pace, 1991
L’ambiguità di questa che potremmo considerare la definizione classica di “sviluppo sostenibile” si rivelò con grande evidenza sia in sede di Conferenza “Rio ‘92” sia nella successiva gestione della stessa: vi era chi – il “gruppo dei 7”, ma in realtà tutti i paesi supersviluppati – tendeva ad accentuare l’equità, nella preservazione e nell’uso delle risorse naturali, fra l’attuale generazione e le generazioni future; mentre, all’opposto, altri – ed era il cosiddetto “gruppo dei 77”, ma in realtà tutti i paesi sottosviluppati – sottolineavano prioritariamente l’equità intragenerazionale, cioè una corretta manutenzione e una giusta distribuzione delle risorse naturali che rispondessero positivamente al diritto ad una vita dignitosa di tutte le donne e di tutti gli uomini che oggi abitano alle diverse latitudini il pianeta.
Si tratta di un dilemma, sostanzialmente irrisolto, che va assunto pienamente per mantenere alta la tensione e la ricerca rispetto ad una problematica eccezionalmente complessa. Un conflitto peraltro salutare per far crescere, anche da noi, una cultura ecologica matura, ripulita da ogni forma di “snobismo verde”, di misticismo naturista o animalista, di indulgenza alla moda ormai indotta subdolamente anche dagli spot commerciali. Il punto di vista del Sud del mondo, essenziale per chi vuol mantenere ferma una dimensione socialmente equa dello sviluppo, rende evidenti i limiti di un certo ecologismo, apparentemente radicale sul piano preservazionista, sensibile all’equità intergenerazionale (la generazione presente e quelle future di chi sta dentro lo sviluppo), ma disattento all’equità intragenerazionale (tra l’attuale minoranza di uomini e donne opulenti e l’attuale maggioranza di poveri ed esclusi dall’uso delle risorse).
D’altronde l’attenzione da parte nostra per le generazioni future non comporta un abbandono radicale dell’atteggiamento egoistico prevalente, in quanto si tratta semplicemente di un’estensione del diffuso interesse individuale per il benessere dei figli e dei nipoti.16A.VERCELLI, Etica e tempo in E. TIEZZI (a cura di), Ecologia e …, Roma-Bari, Laterza, 1995
Assumere all’interno degli stessi principi di equità anche i diritti di tutte le generazioni presenti richiederebbe viceversa una ben più difficile adesione a processi profondi di cambiamento dei comportamenti e degli stili di vita, nonché dei sistemi di produzione e di consumo oggi dominanti, di una tale radicalità da mettere in discussione il principio fondativo della stessa società capitalista attuale, il mercato e la competitività globale, come peraltro a livello teorico si è cercato sin qui di dimostrare.
Proprio per questo i nostri interlocutori dell’America Latina, ma non solo, fanno bene ad insistere nel richiamare la dimensione sociale, non come un aspetto accessorio di un discorso ecologico, bensì come una condizione fondamentale e necessaria: del resto come potrebbe essere credibile la proclamazione di una solidarietà con tutte le generazioni future, quando ci dimostriamo del tutto insensibili alle richieste ben più urgenti di equità delle donne e degli uomini oggi esclusi, non tanto dallo spreco, ma da un godimento decoroso delle risorse del pianeta? E’ del tutto legittimo il sospetto che, come sostanzialmente non ci si occupa degli esclusi dell’attuale generazione, men che meno ci si preoccuperà delle future generazioni discendenti da questi esclusi e che quindi la solidarietà intergenerazionale è in realtà un affare tutto interno ai popoli sviluppati.
Questa difficoltà si è confermata clamorosamente nella Conferenza di Kyoto sul clima, forse l’occasione più significativa per verificare l’efficacia del progetto ONU di sviluppo sostenibile. Il prevalere della solidarietà intergenerazionale dei paesi ricchi a scapito di quella intragenerazionale tra ricchi e poveri è evidente laddove il protocollo conclusivo ammette la possibilità di “commercializzare” le quote di emissione oppure introduce il meccanismo della “joint implementation”, cioè il trasferimento di tecnologie nei paesi non sviluppati per conseguire abbattimenti di emissioni, come compensazione della mancata riduzione delle emissioni da parte dei paesi sviluppati. Ciò significa, in sostanza, permettere ai paesi ricchi di perpetuare il proprio ipersviluppo e di garantirlo anche alle “proprie” generazioni future, scaricando gli oneri della sostenibilità sui paesi poveri17A. LUMICISI, Conferenza di Kyoto: un’occasione mancata, in “Missione oggi”, n. 2, febbraio 1998.Illuminante è quanto aveva scritto a questo proposito un eminente esperto della Banca mondiale, Lawrence Summers, secondo il quale i costi del disinquinamento sono più bassi al Sud, perché lì i salari sono più bassi. Anche i costi dell’inquinamento sono più bassi al Sud, perché il livello di inquinamento è minore. “Ho sempre pensato che i paesi sottopopolati dell’Africa – scrive Summers – sono largamente sottoinquinati: la qualità dell’aria è di un livello inutilmente elevato rispetto a Los Angeles o Mexico City”18Dernier trouvaille de la Banque Mondiale: puller les pays pauvres, in “Courrier International, n. 68.Una conferma scientifica di questi squilibri fra il carico inquinante delle diverse nazioni, formulata però dal punto di vista del Sud del mondo, viene dalle ricerche del Centro de Estudios para la Sustenibilidad dell’Università Anahauac di Xalapa in Messico. Da qui emerge l’“impronta ecologica” particolarmente pesante dei paesi sviluppati ed il loro deficit nei confronti delle altre aree del pianeta.19M. WACKERNAGEL e W. REES, L’impronta ecologica, Milano, Edizioni Ambiente, 1996.
In conclusione, per questa ambiguità irrisolta, ma anche per altre ragioni, il concetto di “sviluppo sostenibile” è stato da diverse parti criticato.20Si veda in particolare W. SACHS, Archeologia dello sviluppo, Preggio (PG), Macroedizioni 1992 e S. LATOUCHE, Economia ed ecologia: un approccio antiutilitaristico, “Il tetto” n. 205-206, marzo-giugno 1998Esso sottintende un’“ecologia dei mezzi”, come è stato detto, che dà per scontata la crescita costante della domanda (e quindi dei bisogni), paradossalmente proprio laddove si sono già raggiunti i livelli più elevati (il “dramma” dell’Europa e dell’Italia in particolare è che si fatica a raggiungere o superare l’incremento annuo del 2% della produzione!); mentre la “sostenibilità” verrebbe affidata esclusivamente a mezzi (“tecniche ecologicamente razionali”, secondo il lessico di Rio ‘92) più efficienti e meno inquinanti. Insomma ci si affida ancora alla “fuga in avanti della tecnica” per risolvere quei problemi che la stessa tecnica ha creato, non mettendo in discussione un’idea di sviluppo fondata sulla ricerca di un “ben-essere” che in realtà è ridotto ad un “ben-avere”, dalle dimensioni in continua, illimitata crescita. Ma è difficile per chiunque sostenere ragionevolmente che un reddito cresciuto di 2-3 volte negli ultimi decenni nei paesi industrializzati abbia realizzato un eguale incremento della qualità esistenziale, della felicità, come pure è difficile ipotizzare seriamente che questo sviluppo possa essere esteso all’intera umanità presente e futura, senza superare la capacità di carico della biosfera.21Tutti comunque sono costretti a fare i conti con la nota equazione di Barry Commoner: I = P x M x T, dove I sta per inquinamento in termini di saccheggio di risorse esauribili e di deposito di scorie, P per crescita demografica, M per merci e beni materiali, T per carico inquinante di questi beni. Cfr. B. COMMONER, Il cerchio da chiudere, Milano, Garzanti, 1972 e 1984.
Anche in questo caso, a proposito della formula “sviluppo sostenibile”, saremmo quindi di fronte ad un ossimoro, a due termini in opposizione inconciliabile, così come accadde per la “guerra umanitaria”.
Perciò, i critici dello “sviluppo sostenibile”, rilanciano il discorso sull’“ecologia dei bisogni”, in senso non mercantile, a partire dai bisogni di socialità e di rapporti umani non mediati dal valore di scambio e dalle merci, il che significa privilegiare “la dimensione contemplativa delle relazioni tra esseri umani e con la natura” per una “buona vita”, in cui l’economico torni ad essere strumentale (una sorta di “grande trasformazione” descritta da Polany, ma rovesciata).22Si veda E. BENCIVENGA, Manifesto per un mondo senza lavoro, Milano, Feltrinelli, 1999. Questo recente pamphlet, appassionato e provocatorio, suggerisce come spezzare la logica perversa di un mondo intrappolato nel vortice dell’espansione illimitata dei bisogni materiali. dallo scambio di merci e di oggetti allo scambio di abilità e conoscenze per una crescita effettiva del “ben essere”.Da qui la critica radicale allo sviluppo e la ricerca di un nuovo orizzonte “oltre lo sviluppo” reale.
Sviluppo Alternato o Alternativa allo Sviluppo?
Il discorso a questo punto non può non investire direttamente lo ‘sviluppo’, l’idea simbolo della modernità, il termine più ricorrente anche nei messaggi politici, il nuovo vero confine che divide popoli e nazioni e che eccita conflitti spesso sanguinosi. L’economia, del resto, almeno da due secoli, ha riempito di significato, quasi in esclusiva, questa parola. Così sviluppo si è sempre più identificato con un unico indicatore, il Prodotto Nazionale Lordo (PNL), diventato il vero paradigma della Civiltà moderna.
Tuttavia qua e là si comincia a percepire che qualcosa non funziona, che non sempre ad un elevato livello della produzione corrisponde una vita più serena, più libera, più creativa, più sana nel corpo e nella psiche. Lo sentiamo a volte quando, liberati dal bisogno e non più pressati dal “minimo vitale”, veniamo travolti dalla suggestione di nuovi prodotti, spesso superflui, che deludono ben presto le promesse di “felicità” dispensate copiosamente dagli spot. Come ci capita per un attimo di interrogarci sui costi del nostro sviluppo quando l’arsura ci spingerebbe a tuffarci nelle acque di un lago o di un fiume, ma veniamo bloccati dai miasmi maleodoranti che emanano. Oppure in modo ancor più drammatico quando veniamo in contato diretto con situazioni di sofferenza, di dipendenza dagli psicofarmaci e da sostanze, o di aggressioni tumorali ai corpi di amici e parenti o a noi stessi, spesso indotte dall’inquinamento diffuso
Ecco allora che, dopo due secoli di dittatura di una certa idea tutta economica di sviluppo, da diverse parti si sta portando una severa critica al predominio del PNL, finora pressoché incontrastato. Da alcuni anni, come è noto, si sta impegnando su questo terreno l’Agenzia dell’ONU che istituzionalmente si occupa delle problematiche relative allo sviluppo, l’UNDP (United Nations Development Programme – Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite): si è cercato così di andare oltre il mitico PNL per considerare una vasta scala di opzioni, tra cui le più importanti sono una vita lunga e sana e la possibilità di studiare e di accedere alle risorse necessarie. Altri indicatori vengono quindi considerati, in aggiunta a quello tradizionale strettamente economico: innanzitutto la speranza di vita il cui valore sta nel riassumere vari benefici indiretti come un’alimentazione adeguata e una buona salute e quindi un sistema sanitario funzionante; in secondo luogo l’alfabetizzazione che, pur rappresentando una stima grossolana dell’accesso all’istruzione, segna comunque il primo passo nel processo di apprendimento e di formazione culturale; infine il reddito pro-capite, corretto secondo la parità di potere d’acquisto per tener conto di beni e servizi non commerciabili e delle distorsioni introdotte da tassi di cambio artificiali, inteso come condizione per l’accesso ed il controllo sulle risorse necessarie a un tenore di vita dignitoso. “Tutte e tre le misure dello sviluppo umano – avverte lo stesso UNDP – soffrono di in difetto comune: sono delle medie che nascondono profonde sperequazioni entro la popolazione complessiva. Gruppi sociali differenti hanno speranze di vita alla nascita diverse. Spesso ci sono grandi disparità tra l’alfabetizzazione maschile e quella femminile, e il reddito è distribuito inegualmente.” Inoltre l’UNDP si rende conto di aver del tutto trascurato aspetti decisivi dello “star bene” umano, come la libertà politica, religiosa, di opinione, la sicurezza personale, le relazioni interpersonali, la qualità dell’ambiente fisico in cui si vive. Prescindendo da questi elementi, paradossalmente, il Cile, dopo 15 anni di dittatura di Pinochet, risulterebbe il paese dell’America Latina col più elevato sviluppo umano, immediatamente dopo i Paesi del Nord opulento.
In conclusione, l’indice di sviluppo umano (ISU), elaborato dall’UNDP, è interessante perché per la prima volta si scalfisce la centralità del PNL (Prodotto Nazionale Lordo) o del, pressoché analogo, PIL (Prodotto Interno Lordo) pro capite come unico indicatore dello Sviluppo. Risulta così che la classifica fra le diverse nazioni in base all’ISU è sensibilmente diversa rispetto a quella classica riferita al PNL (ad es. la Tanzania, grazie ad una corrispondente crescita nell’istruzione e nella speranza di vita, ha una posizione decisamente migliore rispetto allo sviluppo umano che non al PNL, al contrario dell’Arabia Saudita che non ha saputo utilizzare la risorsa petrolio e che si colloca ad alti livelli di PNL,).23UNPD-ONU, Rapporto sullo sviluppo umano, Torino, Rosemberg e Seller, 1993
Tuttavia l’ISU rivela ancora dei seri limiti laddove lascia fuori opzioni a cui la gente può attribuire un gran valore: la possibilità di godere dei diritti civili e politici, ad esempio, e la protezione contro la violenza, l’insicurezza, la discriminazione, il livello di socialità, la preservazione ambientale.
Nell’arduo tentativo di colmare queste lacune si stanno cimentando da anni alcuni studiosi di diversi paesi che lavorano ad un’ipotesi di radicale critica alla teoria economica dominante negli ultimi due secoli, assumendo come paradigma il patrimonio Natura per definire l’efficienza della stessa economia umana. Per intendere il ribaltamento di criteri valutativi e di prospettiva che l’economia ecologica introduce, basta riflettere su alcune distorsioni indotte dal mito del PNL: un Paese che usa il territorio in modo dissennato costruendo senza criterio infrastrutture ed edifici e provocando un dissesto idrogeologico, dopo una “catastrofe naturale” (es. Valtellina) si ritroverebbe paradossalmente più “ricco” dal punto di vista del PNL, per le opere di ricostruzione, risistemazione necessarie. Oppure un paese che usa prevalentemente il mezzo privato per il trasporto risulterebbe più “ricco” di un paese come l’Olanda dove la mobilità è affidata soprattutto a treno-biciletta: il PNL, infatti, “godrebbe” di un maggior consumo-produzione di auto pro-capite, di maggiori spese e investimenti per cura e recupero di vittime di incidenti e di intossicati da smog, per restauro e recupero di monumenti corrosi dai gas di scarico, ecc. Si percepisce allora che l’indicatore PNL non solo è inadeguato, ma addirittura contraddittorio, poiché registra in termini positivi nella propria contabilità fattori che la razionalità ed il senso comune indicherebbero come negativi, da addebitare quindi alle passività.
Da qui sono partiti due economisti nordamericani, Daly e Cobb, già precedentemente citati: essi hanno constato, infatti, che danni prodotti al patrimonio naturale, di per sè finito e limitato, sia sul versante del degrado che del consumo di risorse esauribili, devono rientrare nelle passività di una nuova contabilità che considera la qualità dell’ambiente una delle condizioni essenziali del benessere umano. Su questa base hanno quindi cercato di elaborare un nuovo indice alternativo a quello riduttivo del PNL, l’ISEW (Index of Sustainable Economic Welfare – Indice del benessere economico sostenibile). Il nuovo Indice (ISEW) ricalcola così il reddito a partire dalla sottrazione dei danni ambientali non ripristinati, ma tiene anche conto della distribuzione del reddito e della qualità delle relazioni umane, superando in parte le lacune ancora presenti nell’Indice dello Sviluppo Umano (ISU) elaborato dall’ONU. Daly e Cobb hanno applicato il nuovo Indice al periodo del dopoguerra negli Stati Uniti con risultati del tutto sorprendenti: mentre il PNL pro capite dal 1950 al 1986 continua progressivamente ad aumentare, più che raddoppiando nel periodo, l’ISEW aumenta fino al 1969, in certi casi anche più rapidamente del PNL per effetto di processi redistributivi sul piano sociale negli anni ‘60, per stabilizzarsi negli anni ‘70 e diminuire in modo consistente in particolare nei primi anni ‘80.24M BRESSO, op. cit. PP. 176-180. Si veda anche H. E. DALY e J. COBB, Un’economnia per il bene comune, Como, RED, 1994.
ome abbiamo già sottolineato questo indice non comprende solo le variabili ambientali in senso stretto (i costi urbani, dell’auto, quelli dovuti all’inquinamento di aria, acqua e rumore, quelli per la perdita di zone umide, di terre agricole e di risorse naturali e le spese difensive per la salute), ma anche valutazioni di carattere sociale (come la disuguaglianza nella distribuzione del reddito, o la dipendenza dall’estero per la formazione del capitale o le spese difensive di carattere sociale) che, ovviamente, hanno anch’esse una grande influenza sul livello di benessere effettivo di un paese. Anche l’indice di Daly e Cobb non è certo perfetto. Ha però un grande merito: ci conferma, con rigore scientifico, ciò che spesso ci sembra di intuire, cioè che già da ora nel mondo occidentale l’aumento di benessere non è più collegato all’incremento dei beni materiali a nostra disposizione, ma piuttosto alla nostra capacità di ristabilire delle relazioni soddisfacenti con gli altri esseri umani e meno distruttive con l’ambiente naturale.
Ma altri hanno messo in discussione l’idea stessa di sviluppo. Ed è singolare che questo avvenga proprio a 50 anni esatti dall’invenzione di questa idea, cioè dal discorso “sullo stato dell’Unione” del 1949 del presidente Truman. Il famoso “punto IV” recitava: “Tutti i paesi, compreso il nostro, profitteranno largamente di un programma costruttivo che permetterà di utilizzare meglio le risorse umane e naturali del mondo. L’esperienza dimostra che il nostro commercio con gli altri paesi cresce con il loro progresso industriale ed economico. Una maggiore produzione è la chiave della prosperità e della pace. E la chiave di una maggiore produzione è una messa in opera più ampia e più vigorosa del sapere scientifico e tecnico moderno. E’ solo aiutando i suoi membri più sfavoriti ad aiutarsi da soli che la famiglia umana potrà realizzare la vita decente e soddisfacente alla quale ciascuno ha diritto. Solo la democrazia può fornire la forza vivificante che mobiliterà i popoli del mondo in vista di un’azione che permetterà loro di trionfare non solo sui loro oppressori ma anche sui loro nemici di sempre: la fame, la miseria e la disperazione. E’ sulla base di questi quattro principali insiemi di misure che noi speriamo di contribuire a creare le condizioni che in definitiva porteranno tutta l’umanità alla libertà e alla felicità personali”
Ho citato per esteso questo documento perché ci aiuta a comprendere l’evidenza del fallimento di quel programma. Ciò che oggi registriamo è che gli “uni” si sviluppano, mentre gli altri sono esclusi. “E mentre la frattura principale passava finora tra il Nord ed il Sud, essa si stabilisce sempre più all’interno di ogni Stato-nazione, il che contribuisce a rendere sempre meno pertinente l’uso del vocabolario invalso (paesi ricchi, pesi poveri, Nord, Sud, società industriali, terzo mondo)… Allora, ogni parte assiste, apparentemente impotente, alla evoluzione della sorte – buona o cattiva, secondo un orientamento nella maggior parte dei casi irreversibile – dell’altra. Per evitare di riconoscere che la generalizzazione dello ‘sviluppo’ è impossibile, si finge di crederla lontana, e si conforta la pazienza proponendo misure di urgenza”.25G. RIST, Lo sviluppo. Storia di una credenza occidentale, Torino, Bollati Boringhieri, 1997, p. 243.Da qui il fiorire delle iniziative umanitarie per fronteggiare le varie emergenze ed in cui spesso viene coinvolta la stessa cooperazione e su cui anche in questa sede sarebbe utile riflettere.26Particolarmente aspro, ma anche significativo, il dibattito sul ruolo del volontariato nella crisi dei Balcani. Cfr. A. BONOMI, Lettera aperta alla sinistra sociale, in “Il Manifesto”, 27 aprile 1999 e la risposta di M. REVELLI, Pratiche di confine, .in “Il Manifesto”, 29 aprile 1999“Dunque ci si interesserà prioritariamente dei più deboli, cioè delle donne e dei bambini, come si suol fare nel caso di naufragio della nave….” Ebbene “questo ripiegamento della problematica dello – i cui benefici dovevano generalizzarsi – sull’aiuto umanitario – destinato a gruppi stigmatizzati dall’esclusione – costituisce uno dei segni più gravi della crisi dello “sviluppo””.27G. RIST, op. cit., p. 244
Nessuno oggi avrebbe il coraggio di sottoscrivere il “punto IV” di Truman. E’ significativo quanto viene affermato da uno dei cantori del trionfo del capitalismo, Fukuyama, che vede per l’appunto in questo esito la “fine della storia”: dopo l’89 e la vittoria del liberalismo non esisterebbe più il problema dell’oppressione e dell’esclusione, perché “in linea di principio tutte le società veramente liberali portano all’eliminazione di tutte le fonti convenzionali di ineguaglianza”.28F. FUKUYAMA, La fine della storia e l’ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 1993, p. 305.Le ingiustizie che tuttavia restano dipenderebbero o dalle “barriere naturali all’eguaglianza” (sic!) o dal fatto che “la produttività dell’economia moderna non può essere raggiunta senza la divisione razionale del lavoro e senza che i movimenti dei capitali da un’industria, da una regione e da un paese all’altro, creino vincitori e vinti”.29Ibidem
Insomma i “vinti” sono un “effetto collaterale” necessario dello ‘sviluppo’, in parte giustificato anche con considerazioni biogenetiche che rasentano il razzismo.
Ma che cosa ci può riservare il dopo sviluppo?
In linea generale si possono condividere le tre ipotesi di lavoro indicate da Rist: “La prima mira a gestire senza illusioni un sistema che si sa perverso. perché non si può restare a braccia incrociate di fronte alla miseria del mondo, conviene definire, sulla base di valori espliciti, degli obiettivi generali che si tenterà di realizzare piegando nel loro senso, nella misura del possibile, le tendenze contrarie che tuttavia esistono. Salvo affrontare l’immenso problema del passaggio dalla norma all’applicazione. [Vi sono qui i temi delle “tecnologie appropriate ed ecocompatibili”, della banca etica, del commercio equo e solidale, del consumo critico… 30A questo proposito si possono vedere: G. LUNGHINI, L’età dello spreco, Torini, Bollati Boringhieri, 1995; Boycott! Scelte di consumo, scelte di giustizia. Manuale del consumatore etico, Preggio (PG), Macro Edizioni, 1996; Guida al consumo critico, Bologna, EMI, 1996, (nuova ed. 1998); Istituto di Wuppertal per il clima, l’ambiente e l’energia, Futuro sostenibile. Riconversione ecologica, Nord-Sud, nuovi stili di vita, Bologna, EMI, 1997; E.U. VON WEIZSÄCKER / A.B. LOVINS, Fattore 4. Come ridurre l’impatto ambientale moltiplicando per quattro l’efficienza della produzione, Bologna, EMI, 1998. Un approccio decisamente ottimista sulla possibilità di conciliare economia di mercato e difesa dell’ambiente è presente in G. PAULI, Svolte epocali. Il business per un futuro migliore, Milano, Baldini & Castoldi, 1997. [N.d.A.]
La seconda risposta consiste nello scommettere sugli aspetti positivi della esclusione. Di colpo, i marginalizzati faranno di necessità virtù e volgeranno a loro profitto la proibizione di cui sono oggetto e volgeranno a loro profitto la proibizione di cui sono oggetto di spartire il bottino dello ‘sviluppo’. Dal peggio può nascere il meglio. La scommessa è audace poiché le condizioni della sua realizzazione sono incontrollabili. E tuttavia le testimonianze concordano: esistono luoghi in cui ciò è non solo possibile ma in cui ha avuto successo. Se lo ‘sviluppo’ proponeva speranza, il rifiuto dello ‘sviluppo’ produce nuove ricchezze. [Significative in questo senso le ricerche di Serge Latouche31S. LATOUCHE, Il pianeta dei naufraghi, Torino, Bollati Boringhieri, 1993 e L’altra Africa. Tra dono e mercato, Torino, Bollati Boringhieri, 1998.[N.d.A.]
La terza risposta infine si allontana dalle pratiche storiche e privilegia la teoria. Non per gusto della speculazione, ma per far uscire il pensiero dal cerchio della credenza. Per scovare i presupposti dello ‘sviluppo’ bisogna procedere a una critica che non si preoccupi né delle apparenze scientifiche né del senso comune”.32G. RIST, op. cit., p. 252 . Sul dibattito attuale del “doposviluppo” si vedano, tra gli altri: S. LATOUCHE, L’occidentalizzazione del mondo, Torino, Bollati Boringhieri, 1992 e La megamacchina,Ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso, Torino, Bollati-Boringhieri, 1995; S. AMIN, Il Capitalismo nell’era della Globalizzazione, Roma, Asterios, 1997; AA.VV., La sfida di Noè: approdare a un nuovo ordine economico internazionale, Bologna, EMI, 1998; R. PETRELLA (a cura di), Gruppo di Lisbona, I limiti della competitività, Roma, manifestolibri, 1995
Ciò che però sembra accomunare tutti questi filoni è la difficoltà a passare dall’analisi teorica e dai microcantieri delle alternative (che in piccole comunità e nelle relazioni brevi crescono come “altro” dal mercato), alla politica, come strumentazione di un agire collettivo che intenda riprendere in mano le sorti dell’umanità e ricondurre il drago dell’economia alla funzione servile che deve svolgere. Sembra scontato, invece, il definitivo “tramonto della politica”, terreno inservibile, quasi necessariamente complementare allo “sviluppo reale”, e quindi ad esso subalterno. Tuttavia, a chi scrive, non può risultare convincente il percorso “lillipuziano” di alternativa allo sviluppo, per lo meno non sufficiente: la sensazione è che per i cento che riescono a sottrarsi alla “megamacchina” vi siano sempre i milioni in corsa desiderosi di esserne fagocitati. Allora i temi della progettazione, della pianificazione, della programmazione, dei vincoli sociali, ambientali e culturali, forse, bisogna avere il coraggio di riprenderli in mano, liberandosi finalmente dall’incubo di un passato che ci pesa addosso e che è diventato sudditanza e afasia culturale. Certo sapendo che questi temi oggi vanno declinati in modo del tutto nuovo, che devono fare i conti innanzitutto con la scarsità del bene natura e con le diversità culturali, ma anche con procedure decisionali complesse, spesso su scala planetaria.
Per concludere, siamo, come ben si comprende, in una situazione in cui può essere chiaro ciò che ereditiamo dal passato recente, mentre per il futuro il cantiere è del tutto aperto sia per le ipotesi alternative, sia per le esperienze sul campo, sia per la ricerca teorica.
Note