Ambiente Tecnica Società. Rivista digitale fondata da Giorgio Nebbia

Una fabbrica d’oro

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“L’uomo ha perso la capacità di prevedere e prevenire: finirà per distruggere la Terra”. Queste parole di Albert Schweitzer, premio Nobel per la Pace 1952, scritte davanti ai pericoli della moltiplicazione delle bombe atomiche, tornano alla mente oggi, davanti agli effetti di una tecnologia troppo veloce, troppo imprevidente, e davanti ad una classe dominante mondiale sempre più incapace di prevedere le conseguenze di quello che fa.

Tre eventi in un settimana: la scoperta della fragilità del “più perfetto” sistema di telecomunicazioni globali, tanto perfetto che gli si possono affidare commerci, decisioni di lancio di bombe atomiche, produzione di elettricità. Il sistema economico globale, tanto lodato e mitizzato, si basa su una rete di comunicazioni che un piccolo gruppo di persone ben decise e informate, può paralizzare: non si compra e non si vende più niente per alcune ore (in futuro forse per alcuni giorni) e il grande miracoloso Internet, a cui tanti affidano i propri risparmi, resta buono per futili chiacchiere.

Una fabbrica di oro – che, come tutte le simili fabbriche, estrae l’oro trasformandolo prima in una amalgama con mercurio e poi scomponendo l’amalgama con cianuro di sodio – lascia sfuggire da un serbatoio del cianuro, ben solubile in acqua, in un fiume romeno, che è affluente di un fiume ungherese, che finisce nel Danubio in territorio iugoslavo, che continua a portare il suo cianuro fra Bulgaria e Romania (in parte torna a casa da dove è venuto), che continua il suo corso in Ucraina e finisce nel Mar Nero.

Per qualche ora i telegiornali commuoveranno gli ascoltatori con “il più grande disastro ecologico” del secolo, per dimenticarsene dopo poco e soprattutto senza dire che simili contaminazioni sono “normali” in Brasile e dovunque esistono miniere aurifere. Soprattutto senza dire che un incidente come quello romeno nasce dal fatto che il mondo globalizzato chiede sempre più merci, sempre più presto, a prezzo sempre più basso, per cui la sicurezza dell’ambiente e dei lavoratori sono secondari, anzi trascurabili, anzi sono intralci perché fanno aumentare il costo delle merci.

Soprattutto nessuno dice che la frenesia di produrre oro, visto che di questo stiamo parlando, deriva dalla frenesia di possedere telefoni cellulari e computer e sistemi di telecomunicazioni, sempre di più, a prezzo sempre più basso, tutti strumenti che richiedono oro nelle saldature dei circuiti elettrici ed elettronici.

L’impianto di Paducah, negli Stati Uniti fu costruito dalla Agenzia per l’energia atomica del governo americano nel 1952: anni della guerra fredda in cui bisognava fabbricare freneticamente sempre più bombe atomiche: l’uranio che si trova in natura non serve a niente perché contiene l’isotopo 235, quello “fissile”, suscettibile di “liberare” energia nelle bombe o nelle centrali nucleari, in piccolissima concentrazione, appena lo 0,7 per cento. Per costruire bombe atomiche occorre uranio nel quale l’isotopo 235 deve essere portato a circa il 90 per cento, lasciando una coda di uranio “impoverito”, un residuo che comunque può essere utilizzato come “eccellente” materiale per proiettili e bombe anticarro, o anche come zavorra per aerei o imbarcazioni.

Per le centrali nucleari basta uranio arricchito di U-235 appena al 3 per cento. A Paducah, da mezzo secolo, funziona appunto un grande impianto di “arricchimento” dell’uranio, ora privatizzato. Anche negli anni 50 e 60 c’era fretta, non c’era tanto da badare per il sottile quanto a sicurezza e del resto i rischi per i lavoratori e la popolazione erano largamente compensati, “grazie” alle bombe atomiche, da un’ondata di benessere. “Benvenuti al Rotary Club”, è il saluto con cui Paducah vi accoglie su Internet.

Ma il mercato delle bombe atomiche e dell’uranio “per bombe” si è ristretto con la distensione e l’impianto si è specializzato nella produzione di uranio per  centrali nucleari. Ma i russi hanno trovato modo di fare concorrenza agli americani utilizzando l’uranio delle loro bombe e diluendolo e stanno invadendo il mercato con uranio della qualità “da centrali elettriche”, a basso prezzo. E qui comincia un gran traffico di materiali tolti dalle bombe atomiche, dalla Russia agli Stati uniti; non c’è quindi da meravigliarsi che finiscano a Paducah centinaia di metri cubi di materiale radioattivo e pericoloso, della cui provenienza e composizione poco si sa, con uranio contaminato da plutonio e altri elementi transuranici.

E non c’è neanche da meravigliarsi che i lavoratori e la popolazione siano esposti a pericoli e che la condanna alla convivenza e custodia dei materiali pericolosi coinvolga non solo i cittadini attuali di Paducah, ma tutti quelli che abiteranno, nei decenni e secoli futuri, una terra sotto sui si trovano fusti e scorie e residui tossici e radioattivi.

Questa è la globalizzazione: la diffusione – insieme all’effimera illusione virtuale di una ricchezza di carta – di pericoli e veleni reali, chimici, materiali, al di là dei confini, attraverso i fiumi internazionali, attraverso gli oceani, da uno stato all’altro, da una regione all’altra, attraverso le generazioni, da una generazione a quelle che verranno.

È fin troppo facile accusare queste parole di luddismo, di odio contro la modernità e il progresso. Contro il progresso sono i governi e le imprese che decidono senza prevedere le conseguenze di quello che stanno facendo, sotto la fretta del fare qualunque cosa, senza prevenire gli effetti negativi delle loro scelte. Tutto questo non solo per ignoranza e stupidità, ma perché così vuole la regola del capitale globale: guai a fermarsi, guai a pensare che cosa potrebbe costare (anche in termini di soldi, non solo di salute) ad altri esseri umani quello che facciamo, quello che produciamo. Meglio il segreto, meglio il silenzio.

I tre eventi citati possono suggerire una morale che riguarda la politica: le imprese non possono e, direi, “non devono” (se ubbidiscono alle regole dell’attuale economia globale) occuparsi di salute, di sicurezza, di solidarietà fra persone, fra paesi, delle generazioni future. Ma i governi, si, dovrebbero – altrimenti  che altro stanno a fare? – occuparsi di politica, cioè di ciò che avviene nella polis, nella comunità abitata da persone, da esseri viventi, il cui fine non è necessariamente la conquista violenta di più merci e oggetti, ma il “vivere meglio”, quanto a salute, quanto a sicurezza.

E per raggiungere questo fine i governi non possono fare altro che verificare e prevedere e prevenire gli effetti delle scelte tecniche – quanti e quali mezzi di comunicazione, di trasporto, quale e quanta energia, quali tipi di città e di abitazioni, quali rapporti commerciali con i paesi ricchi e con quelli poveri, quanto e quale tipo di lavoro – fissando regole e controlli, per quanto sgradevoli possano essere al capitale globale, in modo che tali scelte non vengano in conflitto con i veri bisogni e interessi umani.

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